Racconto 2° Classificato – Quinta Edizione – 2022

COLGO L’OCCASIONE

di Marina Scrivani

 

Il treno delle 8.18 è appena stato annunciato.

Immersa nella lettura, siedo sulla mia solita panchina: anche oggi ho sospirato di sollievo quando l’ho trovata libera, perché è mia sì, ma sono l’unica a saperlo.

Io sono un’invisibile, niente a che vedere con gli invisibili della società contemporanea, come i senzatetto, i migranti o i disabili.

Invisibile per mia volontà.

Insegnante in pensione, senza preoccupazioni economiche, ho impiegato gli ultimi quindici anni per raggiungere questa condizione privilegiata e, credetemi, ce l’ho messa tutta.

Non invisibile in senso stretto, si capisce, ho pur sempre una mia concretezza: sono di statura media, di costituzione normale, e dritta come un fuso, nonostante l’età.

I prossimi saranno ottanta.

Dire che non mi pesano è una bugia bella e buona.

Soprattutto la mattina, al risveglio, quando mi metto in moto, scricchiolo come un mobile tarlato; inoltre ci vedo poco e non ci sento più come una volta.

Sono invisibile nel senso che passo inosservata.

Già i vecchi non interessano a nessuno, se non ai parenti più prossimi e purtroppo, anche in questo caso, non sempre; inoltre io evito come malattie le occasioni d’incontro e ogni tipo di rapporto perché le persone non mi piacciono, non mi fido di loro e, davvero paradossale se penso al lavoro che facevo, non sopporto i bambini.

Non è sempre stato così, e comunque non ci voglio pensare, è acqua passata.

Mi sono trasferita dalla città in questo paese di seimila anime quando sono andata in pensione. Casa mia dista dal centro un paio di chilometri; nei dintorni nessun vicino, infatti confino a est col prato, a sud con la strada di campagna, a ovest col ruscello e a nord col bosco di castagni.

Insomma, vivo in splendida solitudine.

E, soprattutto, mi faccio i fatti miei.

Tutte le mattine, tempo permettendo, esco da casa alle sette e mezzo con un libro in borsa, scendo in paese pedibus calcantibus e vengo in stazione; mi fermo un paio d’ore e poi torno alla base, con la coscienza pulita perché ho macinato chilometri e impegnato il cervello.

Nella bella stagione, come oggi, mi siedo fuori, all’ombra della pensilina, altrimenti mi accomodo in sala d’attesa, accanto al vecchio termosifone di ghisa e lontano dagli spifferi.

La biglietteria è chiusa da anni; a farne le veci, sul marciapiede del primo binario e a una ventina di passi da me, c’è un inquietante macchinario, col quale è complicato interloquire.

La faccenda però non mi riguarda, perché io non parto mai.

Il treno delle 8.18 è appena entrato in stazione, pronto a sfornare un discreto numero di pendolari e a ingoiarne di più.

I binari sono quattro, ma solo due dedicati ai treni regionali, quelli che, per intenderci, trasportano passeggeri e fermano in tutte le stazioni; al primo arrivano i treni dalla città e diretti nell’entroterra, al secondo quelli che effettuano il percorso opposto.

Se mi trovo al coperto, non degno di uno sguardo i viaggiatori in attesa, se invece sono seduta fuori, all’arrivo del treno interrompo la lettura e osservo le persone che salgono e scendono: il via vai m’incuriosisce.

Quando il treno è partito e il marciapiede si è svuotato, riprendo a leggere, certa di non essere disturbata per la mezz’ora successiva.

La mia vita sociale finisce qui.

All’inizio qualcuno, soprattutto di sesso femminile, ha cercato di attaccare bottone.

Da questo punto di vista preferisco di gran lunga gli uomini, che di norma non lo fanno, ma solo da questo punto di vista.

In ogni caso, ho sempre scoraggiato qualunque tentativo di conversazione da chiunque provenisse, e non mi sono mai pentita.

Sono in buona compagnia.

Tanti filosofi del passato hanno scelto di vivere come me, da asociali, e non si sono trovati male, anzi, sono pure diventati famosi, ma non è il mio caso.

Il treno delle 8.18 per la città è in partenza, quando sento uno scalpiccio che scompare nel sottopasso: il solito ritardatario che corre per non rimanere a terra.

Il treno è ormai partito e sul marciapiede non c’è nessuno.

Ero certa che l’ultimo arrivato non ce l’avrebbe fatta, comunque meglio per lui, o lei, chiunque fosse.

M’immergo nuovamente nella lettura, procedo per un paio di righe, ma non vado oltre.

− Buongiorno signora, la disturbo se mi siedo?

Il bambino ha, a occhio e croce, non più di otto anni, uno zaino blu sulle spalle e tutta l’aria di essere sul punto di piangere.

Colta di sorpresa, mi chiedo infatti dove sia finita la mia invisibilità, guardo con intenzione la panchina vicina, libera come le altre due.

Proprio qui, sulla mia, si vuole sedere questo rompiscatole?

Lui approfitta del mio silenzio per sfilarsi lo zaino dalle spalle e posarlo tra noi, poi si siede.

− Ho perso il treno, − miagola.

Non cado nella trappola, continuo a leggere.

Singhiozza e tira su col naso: ci mancava pure il moccioso.

− Scusi signora, − chiede con voce tremula, − sa quando c’è il prossimo treno per la città?

Senza alzare gli occhi dalla pagina, indico con la mano i tabelloni degli orari, poco distanti: nessuno meglio di me sa smontare ogni approccio.

− Grazie, − dice alzandosi, e va verso la direzione che gli ho mostrato.

Da quando è partito l’ultimo treno, sto rileggendo sempre la stessa frase.

− Il prossimo è alle 9.15, − m’informa, quando torna a sedersi sulla panchina, − e il suo treno quando parte?

Inspiro a fondo, poi butto fuori l’aria tutta in una volta, in un’unica emissione di voce.

− I tuoi genitori non ti hanno insegnato che non si parla con gli sconosciuti?

− Sì, ma lei non è una sconosciuta, lei è una nonna.

Lo guardo sorpresa e incrocio i suoi occhi azzurri, ancora umidi, che mi sorridono.

Mi prende in giro?

− Nonna io? – ribatto brusca, − Io non sono la nonna di nessuno.

− No? – sembra deluso, − Strano.

Questo bambino è esasperante, ma se si aspetta che io…

− L’ho presa per una nonna, perché ha l’età delle nonne, − dice, sicuro di sé, interrompendo il mio pensiero, − e le nonne non fanno del male ai bambini.

Però, che logica stringente!

− Mia nonna ha settantadue anni, − incalza, − e lei?

− I tuoi genitori non ti hanno insegnato che non si chiedono gli anni alle signore?

− N-no, − risponde spiazzato, ma si riprende subito, − però mi hanno detto che non si deve rispondere a una domanda con un’altra domanda.

Touché.

Diavolo di un bambino.

Però beneducato: “scusi”, “grazie”, “lei”.

Ero convinta che non ne esistessero più.

− Non dovresti essere a scuola?

Nessuna risposta.

− Allora? – insisto.

Sul viso ha un’espressione colpevole.

Possibile che abbia marinato?

Rispolvero lo sguardo severo che intimidiva i miei alunni.

− Vorrei andare all’Acquario, − si giustifica, − la maestra ci ha portato i miei compagni due settimane fa, ma io avevo la varicella e quindi…

Alla parola “varicella” mi allontano di un buon mezzo metro e per poco non finisco seduta per terra.

− Ma ora sono guarito! − si affretta a tranquillizzarmi.

Fruga nella tasca dello zaino e tira fuori una busta di stoffa che apre sotto i miei occhi; sbircio e vedo delle banconote da cinque euro più qualche spicciolo.

− Vede, signora, è da tanto che metto da parte i soldini.

Ha messo da parte i “soldini”…

− Non puoi chiedere ai tuoi di accompagnarti?

Il bambino non risponde subito e, quando lo fa, sussurra appena, tanto che mi riavvicino per sentirlo meglio. L’ho detto che sono un po’ dura d’orecchi.

− Papà lavora tutta la settimana in cartoleria, quella in piazza, davanti alla stazione, e la domenica è stanco; la mamma bada alla nonna che non sta bene, ha quella malattia che viene agli anziani, e non si può lasciarla da sola. Se mio nonno ci fosse ancora, mi ci avrebbe portato lui, ma…

− Dov’è andato il nonno? – lo interrompo, aggressiva, un attimo prima di capire che non tutti gli uomini abbandonano le loro famiglie per farsene una nuova altrove.

Non gli do il tempo di continuare, gli dico che ho capito e che mi dispiace.

− È per questi motivi che non voglio disturbare i miei genitori, − riprende, − e ho deciso di arrangiarmi.

Il bambino ha di nuovo le lacrime appese, così cambio discorso.

− Quando pensi di tornare indietro?

− Col treno che arriva alle quindici e quarantacinque, così sarò a casa proprio come se fossi uscito da scuola alle sedici. La mamma non si accorgerà di nulla.

In base alla mia esperienza i treni non sempre arrivano puntuali, ma non lo dico.

− Che cosa mangerai?

Il ragazzino apre lo zaino e tira fuori un contenitore di plastica: dentro, avvolti nella pellicola trasparente, ci sono un panino col prosciutto e una fetta di torta.

− L’ha fatta la mamma, − dice orgoglioso.

Nell’aria si sprigiona un profumo che mi riporta indietro nel tempo, alle ricreazioni di una volta, quando i bambini non mangiavano merendine industriali che in bocca lasciano il sapore del cartone, o pacchetti di patatine che, ben lungi dal nutrire, condannano a una sete inestinguibile, ma scartavano il panino farcito, la torta fatta dalla mamma o dalla nonna, la focaccia ancora tiepida, comprata nel forno vicino a scuola.

Mi sta succedendo qualcosa, come si fosse appena sciolto un groviglio di nodi nel petto e, orrore!, sono io adesso ad avere gli occhi umidi.

Guardo il bambino, che fraintende.

− Ne vuole un po’? – chiede sollecito, porgendomi il contenitore.

È anche generoso, oltre che beneducato.

Infine guardo il libro che ho in grembo, e dove mi trovo.

In una stazione.

Ripenso alle parole di Coelho: “La vita non è la stazione, bensì il treno”, intendendo che la vita è un viaggio.

Rifletto su di me: leggendo, vivo le vite di altri e qui, in stazione, vedo gli altri vivere.

Ma non parto mai, non affronto il viaggio.

Come avessi smesso di vivere, come fossi già morta.

Ho sprecato il mio tempo, e pensare che me ne resta così poco.

La vita però mi ha appena porto una mano, anche se con le sembianze di un contenitore di plastica; mi ha offerto un’occasione, l’ultima?

Controllo l’orologio: sono le nove in punto, ce la posso fare.

− Ti dispiacerebbe se venissi con te? – chiedo al bambino, mentre mi alzo, − anch’io vorrei visitare l’Acquario, non ci sono mai stata.

È una bugia, ma di quelle a fin di bene, “bianche”, come si dice oggi.

Gli s’illumina il viso e fa cenno di sì con la testa più volte.

− Allora fai il biglietto per entrambi, ché io non sono capace, − dico, mentre gli allungo una manciata di euro, − e aspettami qui, vado un attimo in bagno, d’accordo?

− Va bene, − risponde e aggiunge a voce bassa: − però faccia presto.

Non faccio presto, volo addirittura, in barba ai miei ottant’anni: infatti me ne sento otto.

Quando ritorno, il bambino non si è mosso, eppure il treno è già stato annunciato.

È anche obbediente, oltre che beneducato e generoso.

Timbriamo i biglietti nella macchinetta all’imbocco del sottopasso e cominciamo a scendere le scale.

A un tratto sento la sua mano che cerca la mia; non oppongo resistenza.

− Lo dicevo che eri una nonna.

Faccio finta di non aver sentito, ma noto che è passato al “tu”.

Non saprà mai che, prima di andare in bagno, ho fatto un salto dal padre, in negozio, a spiegare la situazione e a offrirmi di accompagnare il figlio all’Acquario. Sarà perché gli ho detto che sono un’insegnante in pensione, ma mi ha concesso il permesso e mi ha anche ringraziato.

Non glielo dirò, perché voglio che si goda l’avventura, con quel pizzico di pepe dovuto alla trasgressione, che gliela renderà memorabile.

Mentre saliamo sul treno, il calore della sua mano si è diffuso, raggiungendo il grumo di ghiaccio al centro del mio torace: per ora lo sta scaldando, ma non è escluso che riesca addirittura a scioglierlo.

Chi l’avrebbe mai detto.

Il ritornello di un successo risalente al ‘67, l’anno in cui mi sono sposata, recita: “Accendilo tu questo sole che è spento”. Non è un caso che, insieme a tutte le altre parole del testo, la canzone di Morandi mi torni in mente proprio ora.

Il problema è che devo trattenermi per non intonarla a voce alta!

Ci mancherebbe solo più questo.

Nello scompartimento ci sediamo uno di fronte all’altra, vicino al finestrino.

− Io mi chiamo Anna, e tu?

− Io no.

E scoppia a ridere.

È anche spiritoso, oltre che beneducato, generoso e obbediente.

Diavolo di un bambino.

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