Premio Speciale della Critica – Quinta Edizione – 2022

OGGI LA STAZIONE E’ CHIUSA

di Andrea Gheduzzi

 

Il freddo dello scantinato l’aveva tormentato tutta la notte; perché avevano dovuto lasciare la loro casa? Mamma gli aveva detto di prendere i giochi preferiti, lei aveva trascinato un valigione ed erano usciti di casa. Quando Lino cercò di chiedere il perché di quel trasloco improvviso, suo padre gli chiuse la bocca con lo sguardo. Era buono suo papà, ma sapeva farsi capire con gli occhi.

In auto avevano raggiunto un casale alle porte di Bologna. A Lino proprio non piaceva quel posto; lui voleva restare in città, dove era nato otto anni prima. Perché venire ad abitare in campagna e non potere neanche andare fuori a dare calci al pallone? Voleva tornare a giocare con i suoi amici.

Udì dei rumori che provenivano dall’esterno, aprì un poco le grosse tende. Persone con robusti stivali camminavano veloci nel cortile, alcuni cani fiutavano il terreno. Un pastore tedesco spinse il suo tartufo contro i vetri della finestrella.

Lino balzò a terra e corse in camera dai genitori, che si stavano vestendo in fretta.

“Ci sono delle persone in cortile!”

“Vieni.”

Il papà gli afferrò la mano e lo accompagnò di fianco al loro letto poi aprì una grossa cassapanca.

“Sdraiati qui dentro e copriti con i panni. Intanto recita qualche preghiera.”

Il bimbo teneva la testa fuori dalle pesanti coperte, sopra di lui era buio pesto, ma riusciva a respirare bene; sul lato del mobile più vicino al muro, c’erano delle  fessure che lasciavano entrare l’aria.

Un rumore sordo si udì al piano di sopra; il pestare dei passi che prima venivano dall’esterno, adesso era dentro casa. Qualche istante dopo una voce straniera sbraitava nella stanza dei suoi genitori.

“Gefunden! Aus von hier, schweine.” (Trovati! Fuori da qui dentro maiali!)

I genitori di Lino non capivano il tedesco, ma i gesti erano chiari. Dovevano uscire di casa.

“Suchen sie dieses rattenloch!” (Perquisite questa topaia!)

I cani entrarono curiosi nella camera annusando dappertutto.

Lino trattenne il fiato, fuori dalla cassapanca un cane iniziò ad abbaiare come un forsennato; una lama di luce squarciò il buio dove si era rintanato il bambino, che, d’istinto, chiuse gli occhi.

“Eine judische Maus!” (Un topolino ebreo) Disse ridendo il soldato che conduceva il cane al guinzaglio.

Un milite strattonò il bimbo per un braccio e lo obbligò a uscire dal mobile.

“Lino!” Gridò sua madre quando lo vide.

Suo padre provò ad andargli incontro, ma fu colpito da una randellata alle gambe e cadde. Lino arrivò da lui e gli si gettò sopra piangendo.

“Papà, cosa sta succedendo? Ho paura!”

“Lino vedrai che tutto passerà. Il Signore è buono. Hai detto le preghierine?”

“Si.”

“Silenzio! Salire su camion!” Intimò un soldato in un italiano stentato.

Appena furono sull’autocarro i tendoni posteriori si chiusero nuovamente. Ammassati nel cassone c’erano almeno venti persone, tra cui una bimba che aveva circa l’età di Lino e un ragazzo un po’ più grande.

“Papà sento freddo!”

Una volta scovato era stato fatto uscire in fretta e adesso si ritrovava in un’alba di novembre con solo il pigiama addosso.

“Copriti con la mia giacca.”

Tra le braccia del padre, dentro un grande capannone, Lino guardava davanti a se. Su di un tavolone di legno si stavano ammucchiando anelli, collane, candelabri e argenteria varia, frutto delle razzie compiute dalle SS nelle case degli ebrei. Lino e i suoi genitori erano già stati perquisiti più volte.

Il ragazzo adesso era avvolto in una coperta che gli aveva dato un amico del padre e che lo riparava dall’umidità; aveva smesso di piovere, ma nel cortile di quel posto dove erano stati ammassati, vi erano enormi pozze di acqua e fango.

“Papà, perché siamo qui? Voglio tornare a casa.”

“Vedrai che ci torneremo presto. Cosa ti ho sempre insegnato? Male non fare, paura non avere.”

A quelle parole la mamma scoppiò in un pianto dirotto.

All’interno dei locali definiti “le caserme rosse” nel quartiere Corticella a Bologna, erano stati fatti confluire gli ebrei arrestati durante il rastrellamento. Qualcuno diceva che sarebbero partiti il giorno dopo per un carcere dell’Italia settentrionale, altri invece avevano capito, dai discorsi dei militari, che sarebbero stati incarcerati a Roma.

I soldati avevano diviso gli ebrei PURI da quelli MISTI. I primi erano quelli che sarebbero partiti immediatamente per i campi di concentramento, i secondi erano quelli che all’interno del loro nucleo familiare avevano dei membri non ebrei. A queste persone per il momento venne risparmiata la vita.

“Mamma non piangere.”

“Hai ragione figliolo devo essere più forte.” Rispose lei cercando di controllarsi.

“Mamma, siamo stati classificati fra i PURI , essere puri è una cosa bella. Pura è l’acqua che beviamo, quando mi facevi vedere quelle belle collane, mi dicevi che erano di oro puro. Vuol dire che anche noi siamo cose preziose.”

“Sì, sarà certamente così!” Tagliò corto la donna.

Lino trascorse la notte tra le braccia del padre; anche quella notte patì freddo, essere stato classificato PURO gli dava la certezza di tornare a giocare con i suoi amici

Nel primo pomeriggio Gianni tornò in strada, il pallone tra le braccia e nelle tasche dei pantaloni due stracci per fare la porta. Anche oggi erano solo in cinque, Lino non c’era.

“Ragazzi, cosa è successo a Lino, sapete qualcosa?”

“Boh, non si sentirà bene.” Rispose uno.

“Lino è partito.” Disse Carlo, il più grande di tutti.

“E’ partito? Dove è andato?” Chiese Gianni.

“Non lo so. I miei genitori mi hanno detto che quelli che abitavano nel quartiere di Lino sono dovuti andare via e oggi prenderanno il treno per non so dove.”

“Perché sono dovuti andare via da casa?”

“Non ho capito bene, ma credo che sia perché le loro case serviranno ai tedeschi.”

“Ai tedeschi? Cosa se ne fanno i tedeschi di un quartiere intero?” Chiese ancora Gianni.

“Che ne so! Magari si scambiano le case.”

Quella spiegazione non convinse Gianni, c’era qualcosa nel ragionamento di Carlo che non tornava. Perché doveva esserci quello scambio di abitazioni? Non era più facile che ognuno rimanesse a casa sua? Lui voleva giocare con Lino.

Prese i suoi stracci e il pallone e tornò a casa; gli era passata la voglia di giocare. Era arrabbiato con il mondo; ce l’aveva con i tedeschi che avevano sgomberato un intero quartiere, ce l’aveva con Carlo che gli aveva propinato una spiegazione  che faceva acqua da tutte le parti. Era arrabbiato anche con Lino, perché qualunque fosse il motivo della sua partenza, doveva avvisarlo. Erano amici e gli amici si salutano prima di partire.

Più si avvicinava a casa più aumentava la rabbia. Spalancò la porta dell’androne del condominio e si avviò per le scale. Gianni entrò con spinta anche in casa sua. Il padre, seduto sul divano, lo seguì con gli occhi e lo vide rifugiarsi in camera.

“Ci penso io.” Disse alla moglie

“Ehi giovanotto, non si saluta quando si entra?” Chiese bonario.

“Sono arrabbiato!”

“Con chi? Chi ti ha fatto perdere la pazienza?”

“Sono arrabbiato con i tedeschi perché hanno mandato via di casa Lino e la sua famiglia. Dice Carlo che loro verranno ad abitare qui al posto dei bolognesi. Poi sono arrabbiato con Lino perché prima di partire, non è passato a salutarmi. Adesso con chi gioco a pallone? Lui era il più bravo; quando eravamo in squadra insieme, non ce n’era per nessuno.”

Il padre capì che la situazione era più seria di quello che aveva immaginato. Per suo figlio, che ancora non aveva compiuto otto anni, le leggi razziali erano un concetto astratto. Come poteva spiegargli che qualcuno aveva classificato gli ebrei come razza inferiore e che dovevano essere sterminati? Soprattutto, come poteva far capire a suo figlio, che molto probabilmente non avrebbe mai più rivisto Lino?

“Calmati. Lino probabilmente, non ha avuto il tempo per salutarti. Sono convinto che se fosse stato per lui sarebbe venuto.”  Gli disse il padre cingendogli le spalle.

“Perché non possono stare qui?”

“Questo non lo so, ma vedrai che il tempo ce lo dirà.”

“Lui adesso fa un bel viaggio in treno e va a visitare un’altra nazione ed io invece rimango qui , dove ormai ci sono più tedeschi che bolognesi.”

Al padre gli si gelò il sangue. Quel viaggio in treno non sarebbe stato un viaggio di piacere.

“Gianni, non sputare nel piatto dove mangi. Bologna è una bella città, ci siamo noi che ti vogliamo bene. Magari un giorno tu e Lino vi ritroverete.”

“Quando parte?”

“Non lo so.”

Sapeva benissimo che molti treni erano partiti nella giornata e le partenze sarebbero continuate anche la sera.

“Allora sai che faccio? Vado in stazione a cercarlo e lo saluto.”

“Verrò con te!” Disse il padre con un tono che non ammetteva repliche.

Via dell’Indipendenza era trafficata come non mai, percorsa da una moltitudine di mezzi militari. Gianni teneva per mano il padre e percorreva i portici in direzione della stazione a passo svelto. Il papà con mille scuse aveva cercato di rallentare la marcia del figlio; si fermò due volte per allacciarsi le scarpe, finse persino di aver preso una piccola distorsione alla caviglia. In verità sperava di non incrociare gli occhi di Lino e della sua famiglia. Aveva timore che inquietassero Gianni.

Due autoblindo facevano bella mostra di sé davanti all’entrata della stazione ferroviaria; diversi repubblichini indirizzavano le persone che scendevano dai mezzi militari verso i convogli a loro destinati. Gianni e il padre girarono attorno ai veicoli corazzati e cercarono di entrare dalla porta secondaria; quella riservata ai treni locali.

“Ehi dove andate? Fermi, documenti!” Gridò un uomo vestito di nero con un grosso cinturone.

Ormai intravvedevano i convogli; Gianni si seccò dell’interruzione, ma capì che non potevano fare altrimenti, quell’uomo faceva paura.

Il padre estrasse i suoi documenti e li porse al fascista.

“Mio figlio voleva vedere i treni.”

“Oggi la stazione è chiusa. Sono in corso operazioni militari internazionali.”

Gianni rimase impietrito.

“Figliolo dobbiamo tornare a casa.”

“Perché?”

“Hai sentito, la stazione è chiusa, non possiamo entrare. Forza!”

All’uomo era sembrato di essere sulla porta dell’inferno. Era certo, che la morte sarebbe partita insieme a quei vagoni.

Nel tornare a casa Gianni piangeva di rabbia. Non aveva potuto fare quello che voleva. Di nascosto piangeva anche il padre, col dorso della mano si asciugava le lacrime, adesso era lui che allungava il passo. Piangeva perché in nome di un’ideologia non si poteva condannare a morte tutta quella gente. Tanto odio avrebbe reso tutti più poveri.

“Papà, mi manca la mamma.”

“Lino, è meglio che la mamma sia su un altro vagone. Vedi come siamo stretti qui dentro? Le donne sono di meno e vedrai che nel loro scompartimento c’è più posto.”

“Papà guarda, c’è Gianni!” Disse Lino indicando un punto in lontananza.

Gianni era mano nella mano col padre e stava parlando con un tizio vestito di nero.

“Pensa che bello se viene in Germania anche lui! Avrò un amico con cui giocare.” Così dicendo si sporse dal finestrino per chiamarlo.

“Gianni sono qui! Gi…”

Una manganellata lo colpì in piena fronte. Lino cadde sul pavimento lercio del vagone, piangendo.

“Perché sono così cattivi? Non ho fatto niente!” Gridò aggrappandosi al padre.

Il convoglio che partì dalla stazione di Bologna il 9.11.1943 arrivò ad Auschwitz cinque giorni dopo. Quando scesero, divisero Lino anche dal padre. Un giovane soldato prese in consegna quella fila di ragazzini.

Seppur provato dal viaggio e non capendo perché aveva dovuto dividersi dal papà, Lino non aveva perso la speranza di tornare a giocare. Guardava i bambini attorno a lui cercando di indovinare chi poteva essere bravo a giocare a calcio, per poi sceglierlo quando si sarebbero formate le squadre.

“Faremo degli squadroni, siamo così tanti che possiamo avere anche le riserve.” Pensò.

“Komm da rein, nimm es ruhig und dann gehen sofort in der dusche!” (Entrate lì dentro, spogliatevi e poi andate subito sotto la doccia!) Disse un milite facendosi capire a gesti.

Qualche minuto dopo Lino aprì il rubinetto della doccia; il buio lo avvolse fermandogli il respiro. Lì vicino i camini dei forni avevano cominciato a fumare.

 

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