Racconto 3° Classificato – Quinta Edizione – 2022

IL VASO DI FIORI

di Monica Romani

 

Non molto distante dai fasti delle stazioni dei treni di Modena e Reggio Emilia, con i loro tronfi Frecciarossa e bianca e argento, c’è una stazione molto diversa. La serve il piccolo treno locale, che fa la spola dalle città grandi fin dove abitiamo noi, avanti e indietro, ogni ora, per tutti i giorni dell’anno.

I treni che vengono da Modena e quelli provenienti da Reggio arrivano in due stazioni distinte, separate da un incrocio e da una delle strade più trafficate dei dintorni. Sarebbe più comodo per tutti mantenere una stazione sola, ma le antiche ruggini fra l’una e l’altra sponda del fiume non permettono questo genere di frivolezze: i reggiani restano da una parte, i modenesi dall’altra.

La stazione che tutti chiamano modenese è la più grande. È lunga e stretta, piatto deserto d’asfalto, con ampi posteggi per gli autobus che prelevano i passeggeri del treno per depositarli qui e là, nei paesi sperduti sulla collina. In fondo in fondo, vicino al parcheggio che ne segna il confine, c’è il bar Terminal.

Generazioni di studenti hanno decretato che il nome Terminal non deriva da uno squallido tentativo di rivestirlo della dignità di un aeroporto internazionale, bensì da una constatazione obiettiva sullo stato dei suoi clienti abituali. Il Terminal, infatti, è allietato dalla gioiosa bisboccia di comitive di anziani, che passano lì le loro giornate giocando a carte, bevendo e bestemmiando, non necessariamente in quest’ordine.

A prima vista sembrano tutti dei duri, ma i coraggiosi che decidono di sedersi vicino a loro e tenere le orecchie bene aperte scoprono che le loro chiacchiere sono tutt’altro, rispetto a ciò che si può immaginare. Insomma, quei vecchi puzzolenti di tabacco e di bianco da pochi soldi sono a pieno titolo le pettegole del paese. Il nostro coro greco, per così dire.

È stato così che ho sentito la storia del vaso di fiori.

Per capire di cosa sto parlando bisogna sapere che, dove adesso passano i binari, c’era il viale d’accesso di una di quelle ville padronali di una volta. A oggi la casa è stata ristrutturata, si è tramutata in un condominio per ricchi, e del viale non resta traccia. Sono però sopravvissuti dei colonnotti tozzi, sovrastati ciascuno da un grosso vaso di cemento che serviva da fioriera. Segnavano l’inizio del viale, e per qualche ghiribizzo urbanistico sono rimasti intatti dietro al bar.

Una delle due fioriere è andata rotta, e non ne rimane molto. L’altra però è integra, e a tutti noi una volta o l’altra è capitato di buttarci l’occhio, per vedere quali piante ci avesse seminato dentro il capriccio del vento.

Fatto sta che, in una primavera, nella fioriera arrivarono delle primule. Dico arrivarono, e non spuntarono, perché il giorno prima c’erano le solite erbacce, e il giorno dopo era tutto pulito, con dentro le primule già fiorite. I vecchi andarono alla spicciolata a verificare il fatto, e rientrarono in bar annuendo, gravi come giudici.

«La spiegazione è una sola», disse il capoccia, fumando un mezzo toscano, «qualcuno ci ha lavorato.»

Per una volta non ci furono discussioni, tutti concordavano sulla sua conclusione.

«Qualcuno è stato», mormorarono.

Nessuno ne parlò più. Si guardava e si aspettava.

La mattina in cui accanto alle primule sbucarono delle roselline nane, al Terminal ci fu una mezza rivoluzione. Perfino gli studenti più curiosi andarono a buttarci l’occhio, con la scusa di andare a fumare.

Il concilio dei vecchi proclamò una riunione straordinaria: la cosa doveva essere tenuta sotto la massima sorveglianza, era imperativo scoprire da dove venivano i fiori. La questione fu lungamente discussa, fino a che uno dei presenti non si ricordò di averli visti uguali in offerta al supermercato della piazza.

Sulla piazza si affaccia un unico blocco di condomini grigio asfalto, i peggiori della città. Ci vive chi non trova un altro posto, come a dire i più disgraziati tra i disgraziati che abitano da queste parti. Non esattamente il genere di persone amanti dei fiori.

La piazza era a un centinaio di metri dalla stazione, quindi doveva essere per forza qualcuno che abitava lì attorno. Ma chi poteva aver voglia di spendere soldi e tempo con dei fiori, e di mattina presto, per giunta?

Vennero allora allertate le vecchie. Le mogli dei campioni del Terminal, le amiche delle amiche, le zie nubili, le appassionate di gatti randagi. Nel giro di poco meno di una settimana l’intera popolazione di anziani che gravitava intorno alla stazione era in uno stato di perenne allerta.

Non valse a nulla. Il martedì successivo, come per magia, apparvero delle viole del pensiero, a completare il quadro del vaso.

Era ormai un giardino in miniatura, e nessuno osava più gettarci dentro una cicca. Anche i ragazzotti che frequentavano la stazione per andare e venire da scuola passavano a vedere il miracolo di quei fiori, sempre freschi e ben curati, in mezzo a quel mare di cemento e di niente.

Col passare dei mesi, man mano che il sole si faceva più caldo, i fiori vennero sostituiti con altri che potevano resistere alla stagione. Eppure, la rete di sorveglianza dei vecchi non era ancora riuscita a scoprire chi ci fosse dietro.

Tutto questo continuò fino all’autunno, quando uno dei ragazzi che ciondolava elemosinando monete nel parcheggio grosso entrò al Terminal, e fece notare come per caso che da un bel pezzo nessuno dava da bere ai fiori.

Ci fu un pellegrinaggio di verifica. I fiori stavano appassendo, il terreno era secco e screpolato. Il giardiniere, chiunque fosse, non passava più.

La caccia all’uomo, che si era quasi assopita, ripartì con forza inaudita. Per tre giorni ogni abitante dei palazzoni grigi venne vagliato e soppesato, ogni cliente del supermercato interrogato, finché si giunse a un nome.

La signora Gisella aveva vissuto tutta la vita nella bassa, in uno di quei paesini che contano forse trecento abitanti. Aveva la sua casa e le sue cose, ma il figlio, un po’ perché l’età avanzava e si spaventava a saperla da sola, un po’ perché visto il periodo i soldi di una casa facevano gola, l’aveva convinta a trasferirsi più vicino a lui, e le aveva trovato un buco in uno dei famigerati palazzoni. Niente giardino, un balconcino che era roba di cui vergognarsi, la stazione da una parte e la piazza col parcheggio dall’altra.

La signora Gisella, in mezzo a quel mare di umanità che non consentiva nemmeno il conforto di una bestia da compagnia, non aveva trovato altra consolazione che coltivare fiori in quel vaso dimenticato da tutti. Poi era finita in ospedale, per qualche accidente all’anca, e nessuno sapeva quando e se sarebbe tornata.

Ecco, in sostanza, il rapporto delle vecchie, che avevano infine individuato l’anonimo giardiniere.

Tutti, giovani e anziani, vennero a sapere della storia, per via di quel passaparola particolare che c’è in questi posti, e tutti si sentirono stringere il cuore pensando alla signora Gisella, che di certo credeva morti i suoi poveri fiori.

Così, senza bisogno di mettersi d’accordo, tutti decisero di fare qualcosa. I vecchi si occuparono di tenere innaffiato. Ci furono interminabili dispute, liti e urlacci su quanto e come si dovesse innaffiare, naturalmente, ma le piante non ne risentirono. La barista in persona, una signora alta e apparentemente muta che passava le giornate fingendo di non sentire mai nulla, piantò un cartello davanti al vaso, che intimava:

QUESTO NON È UN POSACENERE

Gli studenti, i controllori dei bus e del trenino, e perfino qualche abitante del grande condominio, si occuparono di estirpare ogni germoglio di erbaccia che si permettesse di fare capolino.

Venne l’inverno, e chissà chi pensò di mettere una copertura di plastica sopra il vaso. Le piante rimasero così protette dal vento e dal gelo.

A primavera si seppe che la signora Gisella, che aveva trascorso la convalescenza a casa del figlio, sarebbe tornata. Vicino al vaso apparve uno sgabello basso e robusto, incatenato alla colonna con una catena da bicicletta. I vecchi stavano attaccati al finestrone del bar come gufi, immersi in un insolito silenzio. Aspettavano. Tutti aspettavamo.

Fu un giovedì che il controllore della prima corsa entrò nel bar, con l’aria di chi deve dire qualcosa. Ordinò un Campari, e con la faccia indifferente fece:

«Belli, i garofani lì fuori. Sono nuovi, eh?»

Sulla terra a fianco dello sgabello c’era il segno rotondo di un bastone, e nel vaso c’erano dei garofani rosa. Stavano vicino al geranio rosso, che iniziava a ributtare le gemme.

 

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