Racconto 1° Classificato – Quinta Edizione – 2022

IL BINARIO 16

di Sandra Puccini

 

Se mi guardo indietro mi rivedo ragazzo mentre cammino a fianco a mio padre per un lungarno assolato e muto, fino a sbucare in San Lorenzo dove venivamo riparati dall’ombra dei palazzi più alti. Spingevamo un carretto arrangiato, carico di questo o di quell’utensile. Tutta roba di poco conto, in attesa del proprio riscatto. Arrivavamo al nostro posto che il mercato si stava già animando, tra le urla dei venditori e le imprecazioni di mio padre a cui stava stretto tenere il passo lento di quell’unico figlio svogliato. Sistemata la mercanzia e assicurati i primi clienti, venivo lasciato libero e mi precipitavo a pescare al fiume, ma finivo sempre per tirare su più scarpe che lucci. Era lì che lo avevo notato le prime volte, seduto sugli scalini del negozio di suo padre con un cappello calato per ripararsi dal sole; teneva le spalle strette in una camicia immacolata e gli occhi avidi ficcati tra le pagine di un libro. Se ne stava rannicchiato noncurante di tutto come se niente potesse distoglierlo dalla sua occupazione. Abbandonato ai miei miseri passatempi, non capivo cosa cercasse quel ragazzo tra quelle pagine consumate e logore; quali risposte alla vita potesse scovare là dentro che la vita stessa non potesse insegnarli qua fuori. Eppure, invidiavo la sua volontà di dare un ordine alle cose, quella capacità precoce di sentire il proprio avvenire e di dargli peso e forma. Non come me che lavoravo fiaccamente, senza crederci troppo, come chi sente che non si sta adoperando per il proprio futuro. Quando il caldo e la noia mi assalivano, risalivo l’argine per tornare verso il mercato e lungo tutto quel tratto, mentre già immaginavo le urla di mio padre, cercavo con gesti sciocchi di farmi notare da quel giovane così diverso da me.

Arreso all’idea che non lo avrei mai conosciuto, un pomeriggio più arido e rovente degli altri, era stato lui a lasciare il suo scalino e a venirmi a cercare. Mi era apparso davanti come una figura eterea e sfuocata mentre il sole lo illuminava da dietro e un rivolo di sudore caldo mi scendeva dalla tempia fino al collo. Mi aveva passato una mano leggera tra i capelli umidi, poi si era tolto il cappello dalla testa e lo aveva calzato bene sulla mia con una premura pura e innata.

“Credo che questo serva più a te che a me” – aveva detto accennando un sorriso mentre mi guardava dritto con quei suoi occhi neri e vivi.

Si chiamava Luigi Donati e tra noi c’era un patto: a lui non importava che mio padre fosse un ambulante e a me che il suo fosse un ebreo. A lui piaceva leggere e studiare, a me pescare e cantare stornelli. Lui non mangiava il maiale, io odiavo il fegato. Lui mi raccontava che voleva diventare un avvocato, io gli promettevo che non sarei mai finito in galera. Avevamo passato così la nostra adolescenza, tormentandoci le unghie, scambiandoci merende e condividendo pensieri seduti su quell’argine fresco come i vetri di casa in inverno e cocente come un tetto di lamiera in estate. Lontani quanto basta per sentirci vicini, eravamo due frutti acerbi messi a maturare al sole dentro allo stesso barattolo.

Avevamo in testa centinaia di futuri mutevoli, ma in ognuno di questi eravamo insieme. Lui era sempre quello venuto su meglio, con l’ufficio in piazza Ciompi e la libreria traboccante di volumi, mentre io ero la parte sghemba, quello che aveva ereditato la bancarella del padre e aspettava la domenica per fregiarsi di invitare a pranzo l’amico avvocato. Immaginavo Luigi percorrere a piedi le strade del centro tenendo per il fiocco giallo il vassoio delle paste. Avremmo svuotato la dispensa e festeggiato a dovere. Poi, seduto sulla poltrona dai disegni in rilievo, io avrei fumato il sigaro che mi aveva portato, mentre lui si sarebbe preso gioco di me raccontando ai miei figli di quando il babbo lasciava solo il nonno a vendere lumi per andare a pescare scarpe bucate in Arno.

Quei futuri scomparvero insieme a tutte le possibilità che contenevano il giorno in cui Luigi si era svegliato nel suo letto come un ragazzo qualunque e la sera stessa era andato a dormire in un ghetto come un ebreo esiliato. Le nostre strade si erano allontanate, ma questa volta era toccato a lui finire dalla parte sbagliata. Io mi ero ritrovato a crescere da solo in quello stesso barattolo che ora sentivo troppo stretto e sotto un sole che non mi scaldava più. Con un documento falso in tasca e la convinzione di cambiare il corso della storia, mi ero ritrovato sul Monte Morello insieme a un gruppo di partigiani. Nascosto tra vecchi ruderi in un bosco di abeti e cipressi, la vita di prima mi appariva come un ricordo lontano e indistinto. Tra una rappresaglia e un tentativo di fuga, ripensavo a mio padre e al suo fare asciutto e ruvido: chissà se qualcuno lo stava aiutando al posto mio. E ripensavo a mia madre, al suo fare dimesso, alla sua tristezza concreta: chissà se mi aveva dato per morto e si era già vestita di nero.

E poi pensavo a Luigi: non conoscere il suo destino mi consumava molto di più che ignorare il mio. Fu così che tutti i sabati mattina decisi di andare a cercarlo alla sinagoga. Scendevo da Cercina che ancora era buio inciampando nelle radici che sporgevano da terra e lottando con i rovi che mi si attaccavano addosso. Poi, una volta in città, sgattaiolavo per San Frediano fino a via Farini e mi nascondevo dietro le colonne dei portici fino a quando non lo vedevo arrivare. In fila, mescolato al resto del gruppo, teneva la testa bassa e un libro infilato in tasca. Mi sollevava constatare che, nonostante tutto, Luigi aveva conservato un’immutata avidità di sapere, mentre in me la guerra aveva alimentato solo un rancore sordo e profondo e mi era sembrato legittimo vivere alla giornata rimpiangendo le occasioni perdute. Lasciavo che quella colonna silenziosa e ordinata lentamente si inabissasse dentro la chiesa poi, quando di lui non era rimasto più niente, mi allontanavo tornando nel nulla da dove ero venuto. Nel tragitto di ritorno, arrancando tra una salita e un fosso, ripensavo ai nostri pomeriggi sull’Arno, alle promesse che ci eravamo fatti e a tutti i fascisti che avevo ucciso, felice di averli accoppati. Forse in galera ci sarei finito davvero. Alla sera, appoggiato al tronco di un albero, mentre il silenzio veniva squarciato dal suono delle sirene e le bombe illuminavano la città, mi ripromettevo che un giorno gli avrei raccontato tutto, che avevo infranto la giustizia perché quella giustizia non era la mia e insieme avremmo deciso di metterci una pietra sopra come si fa con le cose passate che, a guardarle da lontano, non feriscono più.

Non fui ferito nemmeno quel sabato pungente di inizio novembre,  quando mi ero sentito agguantare da dietro mentre un colpo di manganello mi piegava le gambe. Un tedesco più scaltro degli altri doveva aver capito che anche il partigiano Bruni aveva un punto debole, e lui lo aveva trovato. Avevo immaginato quel momento molte volte e in molti modi diversi: mi ero visto crollare in ginocchio sui sampietrini di via Gioberti colpito al petto dopo una rappresaglia dura e serrata, o saltare in aria tra l’erba fresca del Monte Morello dopo che ci avevano teso un’imboscata. Avevo dovuto soccombere, era vero, ma non prima di aver svolto il mio dovere. Invece ora me ne stavo lì, su quel mezzo vecchio e consunto, ferito più nell’animo che nel corpo. Dalla fessura a lato della camionetta, Firenze era una striscia sconfinata e sottile. Davanti e dietro di me decine di blindati stracolmi di uomini, donne e bambini. Avevano aspettato che la sinagoga si fosse riempita, poi erano schizzati fuori come topi dalle fogne e li avevano caricati a forza sui loro mezzi.

Quella mattina la stazione di Santa Maria Novella era una cartolina deserta. Ci fecero scendere dalle camionette tra gli insulti e le minacce e, a forza di calci e strattoni, arrivammo al binario 16. In fondo alla rampa, su un binario rettilineo e morto, stazionava un treno che a me pareva infinito. In quella folla di teste nervose e respiri affannati intravidi, poco più avanti, Luigi. Iniziai a spingere per farmi largo in quel mare di corpi. Sapevo che qualche soldato mi avrebbe potuto sparare credendo che volessi fuggire, ma avevo in mente solo di raggiungerlo. Quando finalmente gli fui accanto, lo afferrai per la giacca e lo strattonai per assicurarmi che mi avesse visto. Ma lui non sembrava stupito di trovarmi lì.

“Mi ero accorto, sai, che venivi a trovarmi alla sinagoga” – disse quasi sollevato cercando il mio sguardo complice.

“Come anni fa ti eri accorto che ti fissavo sul lungarno?” – risposi sforzandomi di sorridere.

Da ragazzo avevo bramato le sue attenzioni arroventandomi al sole, crescendo lo avevo aspettato per mesi dietro una colonna, ora che eravamo di nuovo dentro allo stesso barattolo nessuno ci avrebbe più divisi. Nel frattempo, negli animi saliva un’inquietudine profonda.

“I cappelli, prendete i cappelli”- bisbigliavano voci indistinte.

Mescolati ai tedeschi, approfittando della concitazione del momento, dei ferrovieri in borghese cercavano come potevano di aiutarci a scappare. Avevano ragione i miei compagni spersi sui monti: la resistenza era arrivata fin dentro alla stazione.

“I ferrovieri non hanno la divisa. Hanno solo i cappelli come distintivo. Se ne prendete uno sarete salvi”

Mi sentivo un animale braccato il cui unico istinto era quello di rimanere aggrappato al proprio amico: semmai un cappello avesse potuto salvarmi la vita, in mezzo a quella folla che mi toglieva l’aria, io non sarei mai riuscito ad averne uno. Dov’era finita tutta la forza che credevo di avere? Luigi, invece, sembrava ancora il ragazzo seduto sullo scalino davanti al negozio di suo padre. Era l’unico, nell’assurdità di quegli attimi, a riscattarsi dalla meschinità di quel luogo. Lo vidi darmi le spalle e afferrare di colpo un cappello che veniva passato di nascosto da un ferroviere. A quel punto si era voltato nuovamente: la sua figura ora mi era sembrata impalpabile nel freddo pungente di quella stazione, mentre una goccia di sudore freddo dalla tempia mi scendeva fino al collo. Mi aveva passato una mano leggera tra i capelli umidi, poi aveva preso il cappello e me lo aveva calzato bene sulla testa con una premura sentita e viva.

“Credo che questo su quei monti serva più a te che a me” – aveva detto accennando un sorriso mentre mi guardava dritto con quei suoi occhi neri e vivi.

Sentii una mano decisa strattonarmi e portarmi via da lui. Un attimo dopo ero dalla parte opposta del binario sottobraccio a un ferroviere che mi raccomandava di seguirlo e di non dare nell’occhio.

Li caricarono come bestie ad uno ad uno su dei carri piombati in un frastuono di urla e colpi di fucile. Poi, quando la banchina fu vuota, il treno scomparve lasciando dietro di sé un fumo denso e sporco. Se fino a quel momento avevo creduto che diventare grandi volesse dire ritrovarsi a fare cose difficili, ora capivo che crescere significava arrendersi a vedere andare via senza poter far niente. Di tutti i futuri che avevamo immaginato, quello era l’unico in cui ci avevano divisi per sempre.

Si chiamava Luigi Donati e tra noi c’era un patto: io avevo ucciso per salvare altre vite e lui era morto per salvare la mia.

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