Racconto finalista – Quinta Edizione – 2022

IL CAVALLINO A DONDOLO

di Tiziana Monari

 

Tra i silenzi della pianura la vita stava lasciando il posto alla morte.

La chioma di due alberi mossi dal vento, il fumo di un comignolo, il campanile  storto della chiesa, un lampione che di lì a poco si sarebbe acceso, questo era tutto quello che Teresa riusciva a vedere al di là del vetro, scostando le tendine lise della finestra .Se invece spostava lo sguardo all’interno della stanza c’era solo  una fotografia che uccideva il suo sorriso, una ragnatela che penzolava tra una mensola e l’angolo della tv ed i ricordi a tenerle compagnia.

Quella mattina il cielo non era altro che un immenso bagliore di luce. Teresa si sentiva serena. Il giorno prima si era lasciata alle spalle la porta chiusa a chiave dello studio medico. Aveva salutato i colleghi  e abbandonato il viavai di ammalati e famigliari disperati alle spalle. Aveva preso la sua automobile che odorava ancora di pelle nuova, messo in moto per fare il tragitto di sempre. Pochi semafori, nessun insulso panorama d’ammirare dai vetri dei finestrini. Giunta a casa aveva respirato una fragranza di detersivo  ed incenso.

Non riusciva a scorgere nient’altro, sprofondata, come una tartaruga nel mare, su quel divano in eco pelle color senape, invecchiato sotto il suo peso. I fianchi si erano allargati e gli occhi, soprattutto gli occhi erano diversi. “I tuoi occhi ridono” le dicevano sempre. Oggi non c’era più quella luce, c’erano le occhiaie, le palpebre gonfie, le rughe ed il fondo ineliminabile di tristezza che l’ accompagnava nel presente assieme ai fantasmi del passato.

– Mamma, mamma, sei tornata- sua figlia l’aveva abbracciata- e Teresa aveva pensato ad una unica parola- Amore- Da quando l’avevano posata sulla sua pancia , bella come una dea, i capelli biondissimi, due occhioni spalancati  e le dita lunghissime come quelle di un pianista, Teresa aveva avuto  la certezza che da lì in poi la sua vita sarebbe stata ancora più perfetta. Sua figlia occupava il cuore e la  mente. Un  amore profondo, indistruttibile, senza limiti e condizioni. Per l’eternità. -Mamma, sbrigati dobbiamo fare le valigie, domattina presto dobbiamo partire-

Si era trasferita lì fondendosi con i cuscini molti anni prima, in quel paese dimenticato da Dio dove c’erano pochissime botteghe e solo un cimitero con un viale lunghissimo protetto da alti cipressi, e  il tempo che scorreva confuso e incerto, senza alcun scopo. Quando pioveva, le nubi anticipavano i colori del buio e l’aria profumava di muschio e temporale. Poi tornava il sereno e tutto si mescolava con l’azzurro profondo del cielo e col nero della memoria.

Teresa aveva preparato il tutto non dimenticandosi di mettere nella valigia il giocattolino preferito di Lisa, un cavallino a dondolo di legno in miniatura, con le decorazioni rosse e gialle che le aveva regalato il nonno . Il giorno dopo nel cielo non c’era neanche una nuvola. L’azzurro lancinante del firmamento era totale. Totale come l’abbraccio di sua figlia  che le sorrideva. Avevano lasciato la macchina al parcheggio della stazione. Era il due agosto millenovecentottanta  a Bologna.

Teresa però non riusciva a percepire l’azzurro , accompagnata da un esercito di ombre sentiva il senso di inadeguatezza della sua vita crescere ogni giorno di più. Aveva avuto una bella vita Teresa fino a quel giorno d’agosto di tanti anni prima quando il tempo si era fermato. La sua mente aveva cominciato a viaggiare come un vecchio treno a scartamento ridotto. Aveva  abbassato  i finestrini dell’anima per sentire i profumi dei posti che il suo treno stava attraversando sbuffando pian piano, per godere del vento che le sferzava il viso e che le  accarezzava i capelli. Ma non sentiva nulla. Nessuna sensazione. Si era trovata ad abitare un luogo di spirito e di tempo, un posto illusorio, approssimato. Il dolore che la consumava dentro e ritornava a quel giorno.

Erano scese dalla macchina ammirando le aiuole molto curate e piene di splendidi fiori che ornavano la stazione. Accanto alla biglietteria faceva grande sfoggio della sua bellezza un rovo di profumate rose gialle.

Nessun profumo oggi. Solo il dolore. Sempre. L’accompagnava fedelmente nell’incedere fiacco dei suoi passi, celando il suo sguardo rivolto sempre in basso. L’aria abbattuta e spaurita di un uccellino che ha perso lo sprone della mamma e non sa più come alzarsi in volo. Ed insieme al dolore, ogni giorno, vecchi, crudeli  fotogrammi si facevano spazio  fra il silenzio della notte, strappavano l’ancora al buio, prima del risveglio.

– Mamma, tra poche ore saremo al mare. Sono felice, Felice!!!!! Teresa aveva pensato allo sciabordare dell’acqua sulla riva, ad un leggero alito di vento che muoveva le canne sulla linea della sabbia, alla baia fatta a conca che rifletteva i colori del mare, allo stridio dei gabbiani sulla riva. Quel mare fedele a se stesso come sempre, calmo al mattino presto, profumato di vita, accogliente. Si erano poi sedute nella sala d’aspetto ad attendere il loro treno. Avevano visto quei giganti di ferro fermarsi, la gente che saliva sulle carrozze precipitosamente inciampando per la fretta sugli scalini, alcuni che quando il treno partiva tenevano il viso schiacciato sui finestrini e i loro occhi raccontavano la gioia che avevano nel cuore per la partenza.

L’eco di un tuono. Vide la pioggia cadere leggera, come a coprire il suo dolore e fondersi con le sue lacrime.
Quella pioggia che l’aveva avvolta come una coperta di una notte di mezza estate. Pensò alle strade contorte che aveva preso la sua vita riportandola al punto di partenza. La meta in realtà era  forse solo l’origine.

-Mamma, mamma ho sete, posso andare al bar a prendere un’aranciata?- Il caldo era asfissiante, Teresa aveva acconsentito e aveva visto sua figlia che si dirigeva verso il bancone . Poi aveva provato un brivido dentro e gli occhi si erano spostati per un attimo soffermandosi su un quadro che era all’interno della stazione: un quadro violaceo su una parete bianca. Una barca sinuosa di guerrieri galleggiava su un mare grigio con delle sfumature bluastre e c’era un raggio di sole che filtrava dalle nuvole ed andava a colpire una donna incinta posata sul fondo della barca. Nella mente un presagio, il battito del cuore accelerato. C’è sempre un momento nel quale ci si sente sopraffatti da un segnale esterno che ci riporta ad un malessere interno. Sempre. Teresa quella mattina, pochi attimi prima dello scoppio della bomba si era sentita un neonato che, istintivamente, cercava di respirare. Perché voleva vivere. Non avrebbe mai immaginato quanto sarebbe stato meglio accogliere la morte nel suo grembo.

Era tornata lì dove ogni angolo celava un ricordo e una voce, in quella casa piena di situazioni perdute. Ma quella casa non era riuscita più a viverla. La sua bambina l’avevano appoggiata con cura come fosse un neonato nel cimitero lì accanto. I raggi splendenti del sole cadevano obliqui accendendole il viso. Teresa stava col capo chino e le mani incrociate, in silenzio, ferma come un statua di pietra. Il sole  e le nuvole dorate erano alti, non tirava un alito di vento, gli occhi stanchi erano quasi corrosi dalla luce. Una folata calda si mescolò al profumo dolce dei fiori. Addio Lisa.

Poi  era stata sopraffatta da un rumore fortissimo di vetri che si infrangevano, frammenti ovunque, urla, calcinacci e sangue. Prima di perdere conoscenza Teresa vide la sua bambina  correre dalla casa rossa fino alla spiaggia, dove il maestrale soffiava libero, la vide allargare le braccia e lasciarsi investire dalle folate tiepide che le sollevavano le ciocche bionde. Poi il buio.

Si svegliò in un letto d’ ospedale.  Riusciva a malapena ad aprire gli occhi  gonfi. In fondo al letto due carabinieri che parlavano con  un medico. Sentiva bruciare il viso, la mano destra era bendata e la testa le stava scoppiando. Aveva tutto il corpo dolorante e varie fasciature che le  stringevano i fianchi. Guardando i carabinieri negli occhi capì che l’estate di sole era finita. All’orizzonte il mondo si era chiuso in una morsa grigia cambiando i colori della sua vita.

Il tempo aveva solo in parte consumato le cose. Invisibile ospite di quella casa Teresa si ritrovò esule, in fuga dalla vita. Si chiese se il tempo avesse il potere di cambiare i ricordi. Rifugiata nel suo piccolo mondo senza guerra e senza amore, Teresa quella sera pensò ai treni, ai loro suoni cadenzati ed acuti che si inseguivano nell’aria, al loro rumore graffiante e stridente quando frenavano sulle rotaie.

Pensò ai confini molto labili tra la vita e la morte. Alla stanchezza che vinceva facilmente su tutto, ai lievi colpi della pioggia sul vetro che ormai non la cullavano più come aveva sempre sperato. Anche la stanza era piombata nell’oscurità, e il vetro rigato dalla pioggia appariva come una parete divisoria di luce fioca tra buio e buio. Qualcosa di quel bianco si rifletteva sul pavimento della stanza, e Teresa  guardava i piccoli ruscelli iridescenti formati dalle gocce che cadevano trasversali sulla lastra di vetro per poi scomparire dopo qualche secondo. Aveva intuito che quello era il momento. Avevo disteso le gambe e adagiato le braccia lungo i fianchi della poltrona.

Un altro piccolo brivido e, finalmente, solo  il nulla.

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