Racconto 3° Classificato – Quarta Edizione – 2021

THELMA & LOUISE

di Massimiliano Albicini

 

 

 

«Che fa papà?»

«Dorme. E della grossa anche.»

Manuel lasciò andare un sospiro di sollievo. Era minuto e alto per la sua età, con grandi cerchi scuri di sfinimento attorno agli occhi. Aveva tredici anni, ma si sentiva molto più vecchio.

«Vorrei che si sbronzasse tanto da morire.»

«Non dirlo», sussurrò Thomas, scandalizzato.

Lui di anni ne aveva cinque in meno, ma questo non lo metteva al riparo dalle ire paterne, tutt’altro.

«Perché no? Sarebbe un sollievo per tutti. Ha le mani pesanti e il cervello leggero, pessima accoppiata.»

«È sempre papà.»

«Il titolo di ‘padre’ andrebbe meritato.»

Thomas fece spallucce. Era troppo piccolo per seguire molti dei discorsi del fratello maggiore. Per lui la violenza faceva parte del normale contesto della vita, non era ancora in grado di fare confronti. Si sedettero sul pavimento, spalla a spalla, condividendo il tablet della mamma. Glielo aveva lasciato prima di andare al lavoro, con l’accordo che lo avrebbero usato solo dopo aver fatto i compiti. I quaderni invece erano ancora nei rispettivi zaini, perché conveniva approfittare del sonno di papà. Se li avesse trovati a bighellonare, poco importava se i compiti erano stati fatti o meno, gliele avrebbe suonate per principio. Lo studio dava loro un fragile scudo di protezione, avrebbero aperto i libri quando lo avessero sentito svegliarsi.

«Cosa vuoi guardare?», chiese Manuel, scorrendo distrattamente i link. «Un cartone animato?»

«No, è roba da bambini.»

«Noi siamo bambini, Thomas.»

«Allora perché non stiamo fuori a giocare come gli altri?»

«Non lo so. Forse mamma e papà non vogliono pensieri. E poi qui non ci sono altri della nostra età.»

«I miei compagni di classe ogni tanto si trovano da uno o dall’altro.»

Il fratello fece un gesto, ad abbracciare la desolazione della loro stanza.

«Vuoi invitarli qui? Con la casa in queste condizioni, e papà che da di matto senza preavviso?»

«Forse no», ammise Thomas, mordendosi un labbro.

«Ecco, allora non pensarci. Vuoi scegliere, o faccio io?»

«Fai tu.»

Manuel scorse le locandine del sito da cui pescavano i film, girando lo schermo quando c’erano banner pubblicitari troppo spinti, per evitare che il fratellino li vedesse. Un’immagine lo colpì. Era il primo piano di una donna dall’aria seria, con la pistola spianata. Sullo sfondo desertico, una fila di auto della polizia all’inseguimento di una decappottabile azzurra.

«Thelma & Louise», lesse. «Ti ispira?»

«No, ma oggi tocca a te decidere.»

«Grazie, rospetto», lo motteggiò Manuel, scompigliandogli i capelli.

«Cra cra.»

Avviarono il video, infilando un auricolare per uno. La storia era forte. Persino Thomas, che ancora faticava a seguire una trama dall’inizio alla fine, ne venne catturato. C’erano queste due amiche, intrappolate in vite deprimenti, che partivano per un viaggio. Volevano solo farsi gli affari propri, ma per difendersi da uno stronzo violento finivano per sparargli e ucciderlo. A corto di soldi, dopo essere state derubate da un altro tizio tanto bello quanto falso, rapinavano un supermercato, per poi minacciare e rinchiudere un poliziotto. Molestate da un camionista, gli facevano saltare per aria il mezzo. Thomas si esaltò.

«Cavoli, sono toste.»

«Già.»

«Secondo me scappano dall’altra parte del mondo.»

«Credo anche io. Ora zitto.»

Tornarono a concentrarsi sul film. Manuel aveva assecondato il fratello, ma non era sicuro che le cose potessero finir bene. Nel frattempo, a bordo della loro cabrio le due eroine fuggivano dalle forze dell’ordine, impegnate nella caccia. La scena conclusiva del canyon li lasciò senza fiato.

«Sono morte», balbettò Thomas, incredulo.

«Sì.»

«Potevano scappare ancora.»

«No, le avevano circondate. Non c’era altra via di uscita, se non volevano arrendersi.»

«Ma non è giusto.»

Manuel scosse il capo.

«No, non lo è.»

Calde lacrime scesero sulle guance del fratellino, e lui lo abbracciò. Si sentiva sull’orlo del pianto lui stesso. Gli venne da pensare a quanto le loro vite fossero simili a quelle delle protagoniste a inizio film, fatte le debite proporzioni, certo. Una strisciante sensazione di ineluttabilità gli si insinuò dentro. Si staccò da Thomas, pescò un fazzoletto, e gli asciugò le guance.

«Basta pianti. È una storia inventata. Bravo a chi l’ha scritta, ci ha fatto commuovere, ma è tutto finto.»

«Ma non credi che siamo anche noi come loro?»

Manuel rimase senza fiato. Sentire Thomas evocare i suoi stessi dubbi lo aveva impressionato.

«Perché?»

«Papà e mamma sono cattivi, come i mariti di Thelma e Louise.»

«Può darsi», confermò Manuel, senza sottilizzare sul fatto che solo una di loro era sposata.

«E quando cercano di liberarsi delle ingiustizie, falliscono.»

«È un modo di vederla», argomentò il fratello. «In realtà, quello che fanno è scappare in modo definitivo. La libertà è più importante di tutto, e alla fine la raggiungono.»

Thomas rifletté, cacciando ancora qualche leggero singhiozzo, poi parve convincersi.

«Credo di capire. È una storia triste, ma bellissima.»

«Già.» Manuel esitò. «Andiamo a smacchinare un po’?»

Il fratellino sorrise. Era una delle loro attività preferite. Salivano sulla macchina di papà, e giocavano a fare i piloti. Ovviamente quando era incosciente, se li avesse trovati sulla sua auto li avrebbe riempiti di cinghiate.

«Sì. Giochiamo a Thelma e Louise.»

«Anche se siamo maschi?»

«E allora? Sono forti, conta solo quello.»

«Giusto. Controlliamo se papà è ancora fuori fase.»

Sgusciarono in corridoio, e si accostarono con prudenza alla camera dei genitori. Il padre era sdraiato nella penombra, russante cumulo di coperte. Mentre si allontanavano in punta di piedi, Thomas urtò sbadatamente una scopa appoggiata al muro. Il rumore della caduta esplose nel silenzio come un colpo di fucile, e loro si immobilizzarono nel corridoio. Dalla camera venne un rumore di molle, un grugnito, poi l’inequivocabile suono di un peto. I bambini si misero le mani sulla bocca per non scoppiare a ridere. In capo a pochi secondi non si mosse più niente. Raggiunsero l’ingresso, aprirono la porta di casa, e uscirono.

Il loro appartamento era al terzo piano. Scivolarono per le scale senza incontrare nessuno, nella quiete pomeridiana della palazzina. In pochi minuti furono nel malmesso cortile condominiale. C’erano più buchi che asfalto, poche auto parcheggiate. L’Alfa 156 grigia di papà era nel solito posto, il muso rivolto verso l’uscita. Aveva discusso con tutti perché in quella posizione ostacolava la manovra di ingresso al cortile, ma da buon arrogante non se n’era dato per inteso. Manuel azionò il telecomando, aprì e salì al posto guida, mentre Thomas si accomodava su quello del passeggero. Chiusero gli sportelli, e per buona misura inserirono le sicure. Nell’auto c’era odore di sporco e trascuratezza, ma ormai c’erano abituati.

«Eccoci», disse Manuel, accarezzando il volante.

«Sei pronta a svignartela, Louise?», fece Thomas, euforico.

L’altro lo guardò, divertito.

«Non me lo faccio ripetere due volte, Thelma.»

Infilò la chiave nel quadro. Era di poco più basso di suo padre, arrivava ai pedali con comodo. Controllò che il freno a mano fosse tirato, spinse la frizione, e mise in folle.

«Quei bastardi non ci prenderanno, Thelma, è una promessa.»

«Unite contro tutti!»

Manuel ingranò la prima, imitando con la bocca un motore in accelerazione, e iniziò a cambiare marcia. Era diventato abile a sincronizzare frizione e cambio, quando avesse raggiunto l’età giusta sarebbe già stato pronto a guidare. Thomas guardò verso il lunotto.

«I poliziotti ci stanno alle costole. Gli sparo?»

«Mira alle gomme. Non uccidiamo nessuno, se non è necessario.»

Mentre fingeva di sterzare a destra e sinistra, Manuel comprese perché amava quel gioco. C’era voluta la visione del film per intuirlo. L’auto era un simbolo di evasione a portata di mano, una via per la libertà. E anche se facevano solo finta, era consolante lo stesso.

Il portone rugginoso del condominio si aprì con un colpo secco, prodromo di sventure. I bambini sussultarono, si girarono all’unisono, e videro quel che non avrebbero mai voluto vedere. Papà era in piedi davanti al portone, in braghe corte e maglietta, e li guardava a bocca aperta. Anche a quella distanza gli occhi erano rossi, iniettati di sangue. Cacciò un grido belluino.

«Piccoli schifosi!»

Si avviò nella loro direzione, traballando e bestemmiando. Manuel lo fissava attraverso il vetro, congelato. Avrebbero dovuto uscire, implorare perdono, sperare che la punizione non fosse troppo severa. Ci credeva poco. Aveva visto altre volte il padre in quelle condizioni, non lesinava certo le botte. Lanciò uno sguardo al volto del fratello, deformato dal panico, e seppe che non poteva permetterlo. Si mosse senza accorgersene. Rimise in folle, la mano gli corse al blocchetto di accensione. Thomas, terreo, fece un cenno affermativo.

«Non fermiamoci.»

«Sicuro?»

«Sì.»

Papà arrivò alla macchina, picchiò con forza contro il finestrino dal lato di Manuel, strattonò inutilmente la maniglia.

«Apri! Apri, cazzo, o te ne do ancora di più!»

Girò la chiave, e il motore si accese con un rombo. La faccia del padre assunse un’espressione stupefatta, prima di distorcersi in un ringhio.

«Che cazzo fai? Spegni! Mi hai sentito? Spegni!»

Manuel lo ignorò. Schiacciò la frizione e inserì la marcia, sordo al tamburellare dei pugni sulla carrozzeria, sordo a ogni cosa che non fosse l’istinto di fuga, la voglia di volare. Non sapeva dove potevano arrivare, ma non aveva importanza. Lasciò la frizione, e l’auto balzò in avanti, schiacciandoli sui sedili. Papà si era scostato, incredulo, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Alcuni curiosi si erano fatti alle finestre, attirati dalla confusione.

Stringendo i denti, e cercando di controllare il panico, infilò bruscamente la seconda. Fu fortunato, il viale di uscita dal condominio era in leggera discesa, per quello il motore non si spense. Si immise sulla strada principale, e di nuovo la sorte fu loro favorevole, perché non arrivarono altre auto. Accelerò ancora, sempre strattonando, ma riuscì comunque a innestare la terza. Thomas guardò indietro. Papà stava cercando di seguirli a piedi, ma perdeva rapidamente terreno. Batté le mani e saltellò sul sedile.

«L’abbiamo seminato! Grande Louise!»

Il fratello non rispose. Aveva il suo daffare a tenere dritta l’auto. Il sudore gli colava sulla faccia, e la paura gli avvolgeva le viscere con dita ferrose. La respinse, affondò il piede destro sull’acceleratore e mise la quarta. La lunga strada periferica era rettilinea, il traffico a quell’ora quasi inesistente. L’Alfa viaggiava sbandando verso i cento all’ora. Quando incrociavano un’altra auto, i guidatori li consideravano con stupore.

Poco lontano, di fronte a loro, Manuel vide una rotonda. Al suo centro campeggiava un’orrenda scultura moderna, cubi di cemento colorato sovrapposti, alti come un uomo. Non potevano fuggire per sempre. Come per Thelma e Louise, era il momento di una scelta. Afferrò una mano del fratellino.

«Thelma…»

Thomas ricambiò la stretta.

«No. Vai.»

Non fu necessario aggiungere altro. Arrivarono nella rotonda a quasi centodieci chilometri orari. Manuel non accennò neppure a sterzare, sarebbe stato inutile. Le ruote volarono sopra il cordolo, e l’auto decollò, urtando il primo cubo di cemento a metà della sua altezza. Gli airbag esplosero, ma i ragazzi non avevano allacciato le cinture, e la forza dell’impatto fu tale che vennero scagliati contro il parabrezza. L’Alfa si sollevò sulle ruote anteriori, fece una giravolta di centottanta gradi, quindi ricadde al suolo, cumulo di rottami fumanti.

Ora tutto taceva, si udiva solo il ticchettio del motore che si raffreddava. Manuel socchiuse gli occhi. Era riverso sul cuscino sgonfio dell’airbag, la testa incastrata tra il parabrezza e il cruscotto. Aveva male ovunque. Qualcosa di liquido gli colava sulla faccia, come se stesse piovendo, ma il cielo era di un azzurro da far male. Ruotò il capo quanto riusciva, e vide Thomas. Era rimbalzato sul sedile, sembrava addormentato.

«Buonanotte, Thelma», mormorò.

Udì le urla lontane di un’ambulanza, e sprofondò nel buio.

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