Racconto finalista – Quarta Edizione – 2021

IL RAGAZZO IN PIU’

di Sandra Puccini

 

Il cortile della scuola traboccava di un’orda di studenti ignavi. Ammassati gli uni agli altri, compressi nello spazio tra il cancello e il portone, ce ne stavamo fermi, in attesa dell’inevitabile. Dei predestinati dalla schiena curva e le spalle schiacciate sotto il peso di zaini troppo carichi di una cultura che, probabilmente, non ci sarebbe mai appartenuta. Al suono della campanella il portone si spalancò lasciando che quel fiume fatto di corpi potesse rompere i propri argini riversandosi, con tutta la sua dirompenza, dentro l’atrio, lungo i corridoi, su per le scale. Cercai di oppormi agli scossoni e di resistere alle spinte di chi mi invitava, senza troppe lusinghe, ad andare avanti. Rimasto tra gli ultimi, le mani strette alle fibbie sfilacciate della mia sacca, fissai per l’ultima volta l’edificio che si stava, mio malgrado, animando. Qualcosa sembrava trattenermi su quei sampietrini: come se la parte più profonda di me avesse già capito che, quell’anno scolastico, mi avrebbe cambiato per sempre.

L’estate appena trascorsa aveva prodotto alcuni sperabili miracoli: alla Lombardi erano spuntati due seni enormi e i baffi che prima appartenevano alla povera Giordano, erano fortunatamente migrati verso il più consono Martinelli. Io avevo beneficiato di diversi centimetri in altezza, ma questo aveva fatto sì che ereditassi l’intero guardaroba di mio cugino che aveva quindici anni più di me riportandomi, visibilmente contro la mia volontà, direttamente negli anni ’70. Sotto la congiunzione di una serie non precisata di astri, ero riuscito ad avere un banco nell’ultima fila ed essere a fianco alla Rossetti: sogno proibito fin dalla prima media, il suo corpo diafano non mostrava il benché minimo segno di contatto con i raggi solari rendendola, se mai fosse stato possibile, un essere ancora più etereo, impalpabile, desiderabile.

Fatto voto al santo del giorno, stavo pianificando un incendio doloso ai danni del mio armadio quando, senza annunciarsi, il preside entrò nell’aula: al suo fianco un ragazzo mai visto prima. Non era più grande di noi ma lo sembrava, non tanto per la sua fisicità che comunque si mostrava matura, quanto per quel suo sguardo pronto, acuto, insolente. Non mi aveva neppure guardato, eppure la sua presenza mi faceva sentire a disagio, nudo, indifeso, come se niente per lui fosse un segreto. “Quest’anno avrete con voi un ragazzo in più – disse laconico il preside – Il suo nome è Alberto Martino. Sono certo che sappiate come ci si comporta in questi casi”. La Rossetti emise un sibilo: dare alle fiamme il mio corredo non sarebbe stato sufficiente.

Non so se esistano il paradiso o l’inferno. Ma io passai dall’uno all’altro nel momento esatto in cui il professore chiese al nuovo arrivato dove avrebbe voluto sedersi. “Accanto a lui” – disse sollevando il mento nella mia direzione mentre mi guardava, sprezzante e cinico, dritto negli occhi. Eravamo ventiquattro ragazzi. Avrebbe potuto affidarsi agli spessi e rassicuranti occhiali da secchione dell’Arrighi, fare branco con il più affine Ghezzi o, semplicemente, tirare la lenza alla quale era appena rimasta appesa la Rossetti, pronta a portargli lo zaino per tutto l’anno scolastico e anche oltre, se fosse stato necessario. Invece no. Lui non aveva detto “vorrei sedermi là”, “preferirei l’ultima fila” o “decida lei”. Aveva detto “accanto a lui”. Aveva scelto me. Aveva nominato la sua vittima.

“Ma il tuo nome è Alberto o Martino?” – chiesi quando mi fu accanto, in un timido e maldestro tentativo di instaurare un qualche tipo di rapporto con lui. “Non importa: tanto tu non mi devi chiamare. Sono io che devo chiamare te. Qual è il tuo nome?” – chiese. “Luigi” – risposi. “Luigi?” – domandò stupito. Feci cenno di sì alzando le spalle. “Che gran nome da stronzo!” – sentenziò. Il guardaroba di mio cugino, di colpo, divenne l’ultimo dei miei problemi.

Stabilì che oltre ai miei compiti avrei dovuto svolgere anche i suoi. Anzi, prima avrei dovuto fare i suoi e poi i miei. Convenne, inoltre, che i nostri lavori non potevano, per ovvi motivi, essere identici. Quindi, avrei dovuto mettere qualche errore qua e là, sempre nei miei. Mi ci vollero settimane per avvicinarmi il più possibile alla sua calligrafia: riusciva ad essere originale ed inimitabile anche in quella. Non ero colui che si può definire un tipo scaltro, ma neppure così stupido da non capire che se non puoi combattere il tuo nemico, allora devi diventare il suo migliore amico. E lui lo sapeva. Mi aveva scelto per questo. Perché ero un debole. Non un idiota.

Così come ogni medaglia possiede due facce, essere il prescelto aveva portato con sé benefici tanto inaspettati quanto auspicabili: gli altri balordi della scuola mi mostravano rispetto e si guardavano bene dal lanciarmi insulti e oltraggi di varia natura; i miei compagni di classe si rivolgevano a me animati da un sentimento a metà tra la compassione e l’invidia per il ruolo ingrato, ma indubbiamente di primo piano, che stavo rivestendo. Persino i professori sembravano avere un occhio di riguardo nei miei confronti e spesso mi usavano come messaggero delle loro velate richieste verso il nuovo arrivato. Per una sorta di proprietà transitiva, di cui ignoravo la genesi, avevo acquisito rispetto e stima unicamente per il fatto di essere strettamente al fianco di quella figura dominante, impavida e, dannatamente, scomoda.

Masticai mesi chiedendomi se ciò che si era creato tra me e Alberto potesse avvicinarsi ad una forma, seppur malata, di amicizia: la risposta arrivò un pomeriggio durante una pausa al campo scuola. Il professore di educazione fisica lo aveva supplicato di partecipare come rappresentante della nostra classe alla campestre, ignorando le sue doti atletiche, ma rassicurato dal fatto che nessun avversario sano di mente avrebbe osato ostacolare la sua vittoria. Ce ne stavamo noi due immersi in un silenzio irreale, sdraiati lungo le tribune deserte. Soli. Lui stava fumando una sigaretta che si era procurato non so come, mentre io contemplavo il cielo sopra di me fiducioso di trovare una risposta al perché mi sentissi predestinato ad una vita da incompreso. Una calamita umana di sciagure e disgrazie. All’improvviso, parlò. “Se tu dovessi scappare e fossi costretto a fuggire molto lontano, dove andresti?” – chiese solo apparentemente annoiato mentre due rivoli di fumo uscivano dalle sue narici. Mi stava sfidando, questo mi era chiaro: non ne capivo il motivo ma dovevo comunque stare al suo torbo gioco. “Non saprei – risposi cercando di prendere tempo – sicuramente non in un paese piccolo come questo”. La mia risposta lo incuriosì al punto tale da farlo alzare su un fianco, così da potermi guardare dritto in faccia “E perché non in un posto così?” – la sua insistenza mi fece capire che quella era una questione che gli stava a cuore. “Perché nei paesi piccoli chiunque sa tutto di tutti, la mia vicina di casa per esempio: ecco, lei conosce esattamente quando devono venire le sue cose a mia sorella” – risposi sollevandomi a mia volta nella sua direzione in modo da fargli capire che tenevo a quell’argomento almeno tanto quanto lui. “Se proprio volessi far perdere le mie tracce – continuai dando la sensazione di essere sicuro delle mie parole – allora, credo che fuggirei in una grande città dove posso semplicemente diventare una delle milioni di persone che ci vivono”. Fece un cenno di approvazione con la testa e tornò a sdraiarsi rivolto al cielo.

Quella risposta mi valse la sua fiducia. “E cosa vorresti fare da grande?” – chiese mostrando un insolito interesse verso la mia esistenza. “Chi? Io?” – risposi incredulo. “Vedi qualcun altro, idiota?”. Mi affrettai a rispondere per non perdere la stima appena conquistata e che già vedevo svanire. “Vorrei fare il giornalista”. Dissi tutto d’un fiato. “Come mai?”. “Perché i giornalisti vanno alla ricerca della verità e mio padre, che fa il poliziotto, dice che sanno sempre le notizie prima di tutti. Persino della polizia”. Non ebbe la benché minima reazione. Un anello di fumo bianco uscì dalla sua bocca ed aleggiò per qualche istante sopra la mia testa dove formò una fragile aureola che, un attimo dopo, si spezzò. “Allora, caro il mio giornalista, ti do una notizia che non sa nessuno: domani non verrò alla campestre”.

Il giorno dopo fui costretto a presentarmi alla gara al posto suo. Fortuna volle che i miei avversari fossero talmente impauriti al pensiero di incappare nella sua ira funesta, da lasciarmi vincere a mani basse. Ma sugli spalti era tutto un complottare sul perché Alberto non si fosse presentato. Quando fui vicino ai miei compagni, mi limitai ad ascoltare. La Giordano sosteneva senza ritegno che Alberto avesse qualcosa da nascondere: sua nonna, che abitava vicino a lui, le diceva sempre che la sua famiglia non aveva legato con nessuno del vicinato e che, anzi, avevano cercato in tutti i modi di isolarsi. “E allora? Che c’è di strano?” – chiese impassibile il Ghezzi – “Anch’io manterrei le distanze da una come tua nonna”. La Giordano gli mollò un calcio sugli stinchi e gongolando rispose “Scherzate pure quanto volete, ma stanotte il vostro amico Alberto è venuto a prenderselo la polizia”.

Con le parole della Giordano che continuavano a girarmi per la testa, mi ritrovai all’ora di cena. L’unico momento della giornata in cui la mia famiglia si trovava contemporaneamente nella stessa stanza. Per questo mia madre esigeva che tutto fosse perfetto, a dispetto di ogni indiscutibile prova. Mio padre, incapace di smettere i suoi panni di poliziotto, ci passava tutti in rassegna con le sue domande sulla giornata appena trascorsa, non tanto con l’obiettivo di dimostrare interesse verso ciò che eravamo o facevamo, quanto per farci sentire ben chiaro che niente poteva sfuggire al suo meticoloso controllo. Mi ero già perso nelle infinite lagne di mia sorella quando, ignorando che non fosse il mio turno, me ne uscii con l’interrogativo da cui tutto ebbe origine. “Papà, se tu dovessi scappare, dove te ne andresti?”. Chiesi ignorando la potenza di quelle parole. Rimase bloccato nel gesto di portarsi il cucchiaio alla bocca. “Perché mi fai questa domanda?” – chiese con fare interrogatorio riportando il cucchiaio nel piatto. “Così papà. Tranquillo” – presagendo il suo stato d’animo – “Me lo ha chiesto ieri Alberto e io ora lo chiedo a te”. Lo vidi cambiare di colpo espressione ma la sua, più che collera, era preoccupazione. “E cos’altro ti ha detto Alberto?” – chiese con fare concitato. “Niente di importante papà. Davvero. Mi ha solo detto che oggi non sarebbe venuto alla campestre. Tutto qua”. Non dimenticherò mai lo sguardo di mio padre dentro al mio: quegli occhi liquidi di animale impaurito mentre con le mani mi aveva artigliato la maglia e la tirava forte a sé. “A chi lo hai raccontato? Dimmelo! A chi lo hai raccontato?” – ripeteva ormai fuori di sé. “A nessuno papà. A nessuno. Ma a scuola la Giordano si è inventata che la polizia stanotte lo ha portato via”. Mi lasciò andare di colpo, ributtandomi sulla sedia come si fa con un sacco vuoto dal quale hai già tirato fuori ciò che ti serviva e se ne andò sbattendo la porta, senza dire una parola.

Quando tornò, stravolto, diverse ore dopo, bastò guardarlo per capire che era consigliabile sgattaiolare nelle nostre camere e lasciare libero il posto in salotto. Mandando al diavolo tutta la sua etica, quella sera mio padre bevve, sfinito sulla sua poltrona. Lo avevo visto farlo solo altre due volte nel corso della mia vita: quando era morto mio nonno e quando avevamo perso la semifinale dei mondiali. In entrambe le occasioni, alla mia domanda sul perché lo avesse fatto, aveva risposto “Perché non accetto di non poterci fare nulla”.

Se fino a quel giorno avrei giurato che la notte durasse il tempo di un sogno e di un ultimo pensiero sul cuscino, quella che avevo davanti si stava presentando come una processione infinita di interminabili assilli. Là fuori stava succedendo qualcosa che esulava dal mio controllo, ma di cui mi sentivo responsabile, e questo mi consumava i pensieri. Avevo perso il conto di quante volte mi fossi girato e rigirato alla ricerca della posizione che, ero sempre meno convinto, mi avrebbe aiutato a prendere sonno. All’improvviso, sentii dei colpi alla finestra. Balzai giù dal letto e corsi ad aprire. Alberto era lì. Mai e poi mai avrei creduto che vederlo mi potesse provocare una sensazione di sollievo e liberazione. “Sono venuto a salutarti” – disse senza tradire la fretta e l’emozione – “È saltato tutto. La polizia deve trovarmi un altro posto. Un posto sicuro, lontano da chi mi sta cercando”. Ci guardammo come due vecchi amici che non hanno niente da dirsi perché già si sono detti tutto. Mi aveva scelto per questo. Perché sentiva che avrei saputo lasciarlo andare senza chiedere niente di più di quanto lui non fosse disposto a dire. “E dove te ne andrai?” – domandai sapendo già che non avrebbe potuto rispondermi. “In un posto dove nessuno sa quando devono venire le sue cose a tua sorella” – rispose con quel suo fare irriverente mentre mi puntava addosso quei suoi occhi maledettamente vivi che qualcuno voleva chiudere per sempre. Sorrise e fece per andarsene. Riuscii solo a dire “Alberto!”. Si voltò un’ultima volta e, facendo un cenno di saluto con la mano, rispose “Luigi, mi chiamo Luigi”.

Lo guardai allontanarsi lungo il marciapiede con le mani in tasca e quella camminata sfacciata che lo rendevano inconfondibile. Lo fissai a lungo fino a quando di lui non rimase che un flebile tremolio nell’aria ferma e pungente di quella notte infame. E quando il buio e il freddo se lo portarono via per sempre pensai che sì, Luigi era proprio un gran nome da stronzo.

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