Premio Speciale della Giuria – Quarta Edizione – 2021

SEGUENDO IL GIALLO

di Gabriella Olivieri e Sandra Becker

 

 

Come tutti i pomeriggi, il parchetto di Square Marguerite è affollato e chiassoso.

Di solito, dopo la scuola, ci si trova in questa piccola area giochi, compressa tra abbaglianti palazzi di vetro che fanno da specchio al cielo e maison di un’altra epoca che rifiutano di cedere alla modernità.

Ce n’è un po’ per tutti i gusti: i più grandi improvvisano partite di calcio, qualcuno ascolta musica sui gradini di cemento, i più piccoli si arrampicano sui giochi o sfrecciano su pattini, biciclette e skateboard.

Mamme e papà chiacchierano in piccoli gruppi.

Parliamo un po’ in tutte le lingue, noi adulti, arrancando tra francese, inglese e spagnolo, poiché siamo tutti forestieri in terra straniera.

A sera il parco si svuota. Possono essere le cinque di un notturno pomeriggio invernale, oppure le nove di una serata assolata di giugno come oggi, quando le giornate diventano lunghe, anzi lunghissime ed è un peccato tornare a casa.

È così che passano i nostri pomeriggi a Bruxelles, più o meno sempre uguali.

Siamo appena arrivati e già Andrea corre via, mescolandosi agli altri bambini. Ogni tanto intravedo la sua maglietta rossa che sfreccia sul monopattino.

Dopo un po’ lo vedo, fermo, guardarsi intorno: forse mi sta cercando.

Finalmente mi intercetta e mi viene incontro correndo e agitando le braccia, le guance accese e gli occhi eccitati. «Mamma vieni, ho trovato qualcosa!»

Lo seguo fino all’altalena, dove già si è radunato qualche bambino incuriosito, sbircio dall’alto e vedo uno zainetto giallo con la cerniera aperta, abbandonato come se non appartenesse a nessuno.

«Chiamiamo la polizia?» grida una vocina tutta eccitata.

«Mamma dice di non toccare le cose per terra» ribatte serioso un piccolino di cinque, forse sei anni.

Quella madre ha ragione, penso io, meglio non impicciarsi, ma già dal basso mio figlio di dieci anni mi tira la maglietta chiedendomi: «Che si fa mamma?»

Come spiegare a un bambino il conforto dell’indifferenza, senza tarpare le ali del suo altruismo?

«Magari possiamo dare un’occhiata più approfondita a questo zaino» gli rispondo rassegnata.

Mi avvicino cautamente seguita da piccoli sguardi curiosi, ma Andrea già si precipita ad afferrare lo zaino e lo svuota per terra senza riguardo né prudenza. All’interno ci sono solo una felpa gialla  luccicante di paillettes dorate, un panino mangiato a metà e reincartato alla meglio nella stagnola e un mazzo di chiavi attaccate a una palla da tennis giallo fosforescente con sopra delle frasi scritte con un pennarello: suivez le jaune! follow the yellow!

«Dobbiamo seguire il giallo, mamma?» chiede Andrea.

«E che giallo dovremmo seguire secondo te?» chiedo io.

«Tipo quello, per esempio….» risponde lui indicando un nastro annodato su un lampione. «Oppure quell’altro…» stavolta il nastro giallo è legato al cancello del parco.

«Potresti avere ragione… ma tu li avevi mai notati questi nastri colorati?»

«Si mamma, stanno sempre qua. Però ogni tanto cadono per terra o volano via e la volta dopo ci sono di nuovo.»

«Allora, dai, seguiamo questo benedetto giallo!»

Ci prendiamo per mano e usciamo dal cancello. Aldilà della strada, notiamo subito un palloncino legato a un semaforo. Lo raggiungiamo. Più in là c’è una grossa X di scotch appiccicata sopra una griglia per le biciclette.

E così via, di giallo in giallo, incappiamo in nastri adesivi, cavigliere fosforescenti da ciclista, lacci, lacciuoli e laccetti, palloncini e pezzuole.

Andrea spinge come un pazzo il monopattino: un piccolo Indiana Jones lanciato alla ricerca del giallo, che vuole arrivare sempre per primo al segno successivo e, quando lo intercetta, grida di gioia. «Siamo dieci a zero, mamma! Ma possibile che tu non ne trovi neanche uno?» e riprende la corsa lasciandomi indietro.

Le tracce gialle ci portano verso il quartiere di Diamant. Oltrepassiamo Place des Gueux dove il mercato pomeridiano del venerdì già si affolla di gente in cerca di spesa e aperitivi.

Infine ci ritroviamo in una strada taciturna su cui si affaccia una lunga fila di antiche maison strette strette l’una all’altra per sorreggersi a vicenda, con i loro tetti puntuti e i bovindi dai vetri colorati. Ogni porta d’ingresso è dipinta a colori vivaci, ma solo una è gialla.

Ci fermiamo indecisi. Certo, questa caccia al tesoro è stata un po’ come un film di avventura, ma adesso, d’un tratto, ho un po’ paura. Qua intorno non c’è anima viva e io non mi sento affatto un’eroina da pellicola cinematografica.

Rimango ferma davanti all’uscio giallo, valutando se sia il caso di girare i tacchi per tornare da dove siamo venuti, quando Andrea, stanco di aspettare, prende l’iniziativa e suona il campanello. Dopo pochi secondi ci viene ad aprire un uomo, bello e un po’ stropicciato, con un’orrenda maglietta gialla sui jeans scoloriti, i piedi nudi sul parquet.

Alle sue spalle la casa è inondata dalla luce calda che viene dal giardino.

Ci guarda incuriosito senza parlare, poi si accorge dello zaino che tengo in mano, allora sorride, si volta e chiama a gran voce una certa Elsa.

Ci presentiamo: «Piacere, sono Lucilla e questo è mio figlio Andrea» dico un po’ imbarazzata. Lui invece, si chiama Erik. Me lo dice con un sorriso che forma mille increspature intorno agli occhi di un castano dorato. Parla un inglese da straniero, potrebbe essere olandese o tedesco o giù di lì. D’altronde in questa città abbondano i forestieri, come i monopattini elettrici, le biciclette e gli alberi. E in autunno le foglie colorate sui marciapiedi.

L’uomo sorride e ci invita a entrare, ma: «No, grazie, preferiamo rimanere fuori».

Mentre ci sta ringraziando per avergli riportato lo zainetto della figlia, arriva lei. È bella Elsa, avrà undici, forse dodici anni.

Ho un tuffo al cuore guardando i suoi occhi che non riescono a posarsi su di noi neanche per un attimo, il continuo dondolio del busto e le mani irrigidite in una posa innaturale.

Andrea mi toglie di mano lo zainetto e lo porge alla bambina. Lei allora si ferma, sorride e per un momento gli occhi si allacciano a quelli di mio figlio. Poi afferra lo zaino e rientra in casa come un fulmine.

«Il giallo è l’unico colore che la mette in contatto con il mondo circostante» ci spiega il padre.

Elsa, ci racconta, adora il parchetto di Square Marguerite e vuole andarci tutti i pomeriggi, così lui ha organizzato un percorso che la guida da casa al parco e ritorno.

Proprio oggi, però, la baby sitter ha avuto un problema e sono rientrate a casa talmente in fretta che hanno dimenticato lo zaino.

«Temevo che non lo avrei più trovato, grazie per avercelo riportato.»

«Perché non l’ho mai vista al parco, se ci viene tutti i giorni?» chiede Andrea un po’ triste.

L’uomo si piega sulle ginocchia e lo guarda negli occhi: «Lei non gioca come voi. Non può andare in bicicletta o su un monopattino bello come il tuo.»

«Ma con il giallo può riconoscere gli amici?» chiede Andrea.

«Si, infatti la sua classe ha le pareti gialle e i suoi compagni di scuola indossano sempre qualcosa di quel colore. E anch’io, come vedi» conclude indicando sorridente la sua buffa maglietta.

Mio figlio sembra rinfrancato e comincia a sbirciare dentro casa senza ritegno.

Erik ci invita ancora una volta a entrare: «Così Elsa avrà compagnia… e anche io» aggiunge guardandomi negli occhi. Poi si rivolge ad Andrea: «Sai giocare a dama? Elsa adora quel gioco, ma attento, perché è molto brava». Ride e sembra sollevato quando finalmente mi decido ad accettare l’invito e a entrare in casa.

Il salone è inondato dalla luce violenta di un sole ancora alto, che si magnifica nel giallo del divano e delle pareti. La sagoma di Elsa è china sulla scacchiera vicino alla portafinestra del giardino. Andrea la raggiunge, si siede davanti a lei e le chiede se può giocare. La bambina non risponde e non dà segno di accorgersi della sua presenza, ma comincia a muovere la prima pedina gialla.

Erik si sposta in cucina per preparare un caffè e io lo aspetto guardando le decine di foto ammassate sul mobile del salone. Erik ed Elsa. E sempre il giallo: dei vestiti, delle cornici, del costume di entrambi su una spiaggia con il mare turchese all’orizzonte, della tuta da sci circondati dalla neve accecante, del maggiolino d’epoca, del sole disegnato su un foglio a quadretti. Erik ed Elsa, solo loro due. Nessuna donna, nessuna moglie, nessuna mamma…

Il pomeriggio passa in fretta, è quasi ora di cena anche se il sole rimane alto nel cielo.

«È ora di andare via» dico più a me stessa che a Erik. Nei suoi occhi passa un lampo di delusione, o almeno è quello che mi sembra di percepire.

«Certo, tuo marito ti starà aspettando» replica lui con tono sommesso, così distante dalla spensieratezza con cui abbiamo chiacchierato fino a poco fa.

«Nessun marito» dico io sorridendo, «solo un cagnolino da far passeggiare».

Sembra sollevato, di nuovo sorride con disarmante sincerità: «Allora la prossima volta porta anche lui».

Lungo il ritorno, io e Andrea camminiamo silenziosi, stavolta fianco a fianco. Realizzo solo ora che ho appena passato un pomeriggio meraviglioso e che ho voglia di rivedere quell’uomo, quella bimba che con il suo giallo ci ha attirati fin lì e quella casa immersa nel colore del sole e in una gioia inaspettata. Il mio cortometraggio è diventato un film romantico.

«Mamma sono ancora aperti i negozi?» mi chiede Andrea strappandomi dai miei pensieri.

«No amore è troppo tardi. Cosa vorresti comprare?»

«Una bella maglietta. Tutta gialla. E una anche per te!» e di nuovo corre via a tutta birra col monopattino.

Erik blocca il computer soddisfatto. Sul save screen appare il primo piano di Elsa che sorride sotto un cappellino giallo, gli occhi fissi nell’obiettivo, la bocca socchiusa che mostra il posto vuoto di un dente da latte. Non è stato facile cogliere uno dei suoi rari sorrisi che durano meno di un battito di ciglia ma finalmente, dopo tanti scatti ce l’ha fatta e quella foto, per lui, è la più cara. Quasi un miracolo, pensa. Come un miracolo è stato l’incontro con Lucilla e Andrea, catturati dal giallo e trascinati fin là. Ma adesso sente di avere qualcosa di importante da scrivere, un messaggio da recapitare l’indomani, insieme a un enorme mazzo di girasoli. Prende uno dei tanti bigliettini che tiene nel cassetto della scrivania e pensa brevemente mordicchiando la penna. Poi sorride, china la testa e inizia a scrivere, con la certezza che Lucilla capirà: Segui il giallo.

 

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