Racconto finalista – Quarta Edizione – 2021

LUIS E LA STRADA

di Mariagabriella Licata

 

 

Gianluigi amava la strada. Gli piaceva sedersi al sole, respirare le atmosfere, gli odori dei centri abitati, osservare i vestiti delle giovani donne e il modo di muoversi -come un branco vociante- dei ragazzini in gita scolastica. Scrutava i segni dei tempi; e intanto disegnava. Era quello il suo modo di raccontare di sé e del suo mondo.

Qualche volta un passante si fermava a guardare:“Ma sa che lei è bravo? con due tratti è riuscito a creare una precisa atmosfera, ma come fa?”

Gianluigi, o meglio Luìs, come lo chiamavano tutti, ringraziava, anche per la manciata di monetine che ritrovava nella scatola di cartone a fine giornata.

Ma, tra tutti, prediligeva i commenti dei bambini. Loro sì che riuscivano a vedere, tra le linee, quello che lui aveva davvero rappresentato.

“Mamma, guarda. Una ragazza bionda coi fiori nei capelli. Che bello il suo vestito verde; vedi come si gonfia al vento?”

“Ma cosa dici, Miki, quello è un campo pieno di papaveri. Non vedi?”

Così Luìs, da molti anni, stava in strada. Si spostava da riviera a riviera, a seconda della stagione, ma lo trovavi soprattutto nelle città d’arte.

Raggranellava pochi soldi, è vero, ma ci faceva – più o meno- la giornata, quel tanto che basta per mangiare. Riguardo al dormire sin dall’inizio, e ancora adesso che non era più un ragazzo, si sistemava in un angolo dei giardini comunali con una piccola canadese, uno zaino, una cassetta di gessetti, anche se qualche volta optava per un letto alla Casa della Carità.

Con l’arrivo di ottobre tornava a Milano e, se le giornate lo consentivano, si sceglieva un cantuccio del sagrato di Santa Maria delle Grazie.

Certo, il tempo passava e quella non era un’occupazione che potesse tirare avanti ancora chissà per quanto, ma Luìs non voleva lasciarla quella vita e, quando glielo dicevano, lui rispondeva che prima o poi sarebbe successo qualcosa.

Era come se aspettasse. Non avrebbe saputo dire cosa, ma sapeva che, a tempo giusto, quella inquietudine si sarebbe placata. Il tempo è galantuomo soleva ripetere come un mantra.

Intanto le stagioni si susseguivano, e lui, a guardarlo, avresti detto che andava per la china dei cinquanta.

Così negli anni Luigi era diventato un esperto in zone turistiche. Conosceva con precisione le condizioni climatiche di ogni località ed era in grado di definirne tipo di villeggianti, vie e piazze di maggior passaggio.

Ma soprattutto, vantava una competenza unica riguardo alla natura del selciato: conosceva perfettamente i vari tipi di asfalto – a grana più o meno fine -, la porosità di certe pietre chiare, la resa cromatica dei mattoni e dei basalti lavici, l’effetto mosaico che offrivano i sanpietrini. Tutti terreni molto diversi.

E i suoi disegni cambiavano, non solo perché si ispiravano all‘architettura o all’aspetto naturale del luogo, ma anche perché si adattavano a ciò che la materia prima -il selciato- suggeriva.

Luìs creava dei piccoli capolavori. Molti curiosi si fermavano ammirati, li catturavano con i cellulari, li condividevano diffondendoli a centinaia di chilometri.

Oh, sì, gli faceva piacere; ma spesso si sorprendeva a domandarsi se i suoi estimatori capissero davvero ciò che voleva esprimere.

Quelle macchie di colore sembravano nuvole evanescenti riflesse sul mare, canestri di pesci dalle squame colorate, strade affollate di passanti con vetrine e lampioni in prospettiva. Molto spesso raffiguravano Madonne attorniate da angeli in volo.

Ma, a un occhio più attento, quei disegni, lasciavano intravedere sempre una stessa figura.

Certo bisognava non fermarsi alle apparenze. Occorreva avere la capacità di scendere nel profondo, lì dove neppure Luìs sapeva guardare. Perché una cosa era certa: lui stesso non era consapevole di ciò che linee e colori nascondevano.

Quell’agosto Gianluigi si trovava a Firenze, nella piazza più nota dove c’è il selciato migliore e lì, in un pomeriggio assolato, sentì dei turisti parlare tra loro.

Si lamentavano dell’afa incessante, cercavano una nuova meta. A un certo punto uno di loro, sfogliando una guida, aveva pronunciato il nome di Sirmione; poi aveva letto una citazione in latino. E nel parlare, aveva usato alcuni vocaboli dal suono delizioso anche per Luìs: lago, acque limpide, fre-scu-ra.

Sirmione. Non l’aveva mai vista. Ne aveva sentito parlare soprattutto a scuola in riferimento a un grande poeta latino, l’unico che gli fosse arrivato dritto al cuore perché era riuscito a esprimere, come nessuno, la natura dell’amore.

Ricordava ancora certi incipit fulminanti:”Odi et amo”. Per la prima volta la lingua latina, gli era sembrata viva, incisa nella carne.

Sirmione, fiore delle penisole. Perché no? Su due piedi decise di andarci.

Vi arrivò che era tarda sera. Del paesaggio, col buio, non vide granché; si sentiva accaldato, aveva bisogno di mangiare qualcosa e di stendere le gambe. Inoltre, la presenza della solitudine non gli dava tregua.

Che strano! Credeva di averci fatto l’abitudine, dopo tanto tempo. Come al dolore al ginocchio con cui conviveva dall’incidente in moto che, molti anni prima, l’aveva portato a quella vita, e che non si accorgeva quasi più di avere.

Come credeva di aver cancellato un viso di donna che aveva conosciuto in ogni più minuto particolare.

Un viso che invece, inconsapevolmente, affiorava, nascosto ora in un dettaglio ora in un altro, in ogni volto che tracciava sulla pietra grigia o sull’asfalto della strada.

Giunto a Sirmione, Luis si concesse un piatto caldo, poi piantò la tenda tra gli alberi di un giardinetto.

La mattina seguente uscì all’aperto. Dopo le prime vie chiuse da condomini, sbucò in una piazzola e gli si aprì davanti la vista del lago.

Non credeva di poter provare ancora un tale stupore nel vedere un paesaggio, lui che ne aveva visti e dipinti tanti: la varietà dei colori, il movimento dell’acqua, il verde splendente dell’erba e, più lontano, la presenza animata del borgo medievale.

Si incamminò e, superando il punto più stretto della penisola, si ritrovò nella parte che si spinge – come una spada – nel grande lago di Garda finché, addentrandosi per le strade, non vide una chiesa piccola e raccolta.

Dopo un cortile ombreggiato, entrò nel portico dell’antica pieve di Santa Maria della Neve pregustando l’ombra e il silenzio che lo avrebbero accolto.

Avanzando lo colpì il leggero odore di chiuso e la frescura che gli richiamarono Venezia, certe sue basiliche nascenti dall’acqua, la loro atmosfera che avvolge e rinfranca come un ventre accogliente.

Luìs si inoltrò affascinato dagli affreschi di antica fattura, dalle tele che si intravedevano nella penombra. Tutto nella piccola chiesa suggeriva spiritualità, più ancora: introspezione, ritorno all’essenza di sé.

Fu nel voltarsi indietro, verso l’uscita, che la sua attenzione venne richiamata da un piccolo dipinto. In una cappella laterale, in una cornice di cotto, un antico affresco affiorava dal muro, ritraeva una madonna col bambino. La veste scura, il manto color porpora, la Vergine – il viso giovanissimo rischiarato dalla luce tremolante delle candele – sedeva su una seggiola collocata tra l’erba dei campi; l’orizzonte era chiaro, forse quello di una giornata all’aria aperta.

Ma era lo sguardo della Madonna a colpirlo: sembrava posarsi su di lui eppure guardava lontano! Gli occhi della vergine, luminosi e amorevoli, gli apparivano seri, pieni di compassione e di dolcezza. Luigi senza sapere perché lo facesse, trascinò uno sgabello di fronte all’immagine e si sedette. Contemplò qualche minuto quell’ovale poi, a capo chino, mormorò due parole: Ave Maria.

Sgorgarono da sole, affiorarono da memorie remote, dai giorni della dottrina in un’infanzia spensierata e lontana trascorsa al sole di un oratorio, tra scherzi ingenui con gli altri ragazzini e calci a un pallone che si nascondeva nella sottana di un prete.

Dopo quelle corse in cortile – nei pomeriggi abbaglianti dell’estate – tra le voci dei compagni e il rimbalzo della palla sui mattoni – si entrava accaldati nel silenzio e nel fresco della cappellina. Allora don Diego cominciava: Ave Maria …

Gianluigi uscì. Si ritrovò nel presente: nel sole e nella brezza; continuò a perlustrare il luogo.

Intorno a mezzogiorno cercò sul lungolago un posto che avesse i requisiti adatti: la giusta luce, una buona grana di selciato, il passaggio assiduo dei villeggianti.

Girato l’angolo del Castello trovò una piazzola con dei sampietrini lisci e compatti di un bel grigio chiaro. Disegnò subito qualcosa.

La sua solita Madonna, quella che sapeva di poter realizzare con pochi tratti, quasi a occhi chiusi. La abbozzò in fretta e presto fu attorniato da un capannello di turisti, di pensionati e bambini.

Ma fu nelle ore del primo pomeriggio quando i passaggi si erano fatti più radi e il silenzio più profondo, che, accanto alla Madonna dell’Aiuto, Luìs cominciò a tratteggiare un disegno di grande respiro.

Fu come se – alla presenza del lago nell’esplosione della luce sull’acqua – qualcosa si aprisse per dar voce a emozioni che Luigi aveva sepolto da tempo.

Senza pensarci, delineò un’immagine che sembrò formarsi da sola sul selciato. La mano correva sulla pietra senza sapere dove avrebbe concluso la sua corsa; tracciava linee, inventava volumi, creava ombre.

Ci fu un istante in cui un pensiero gli attraversò la mente: Cosa sto facendo?, ma svanì veloce, trascinato dal fluire del gessetto.

Sarebbe stato facile cancellare tutto. Un bel colpo di spugna, tutti i rosa, gli azzurri e i grigi si sarebbero mischiati in un marroncino che uno sbuffo di minerale avrebbe trasformato in un rivolo lungo il marciapiede.

Ed era proprio questo il bello del disegnare sulla strada: il non lasciare traccia.

La carta, la tela – dopo – sarebbero state ancora lì, a dar testimonianza, a raccontare. Lui invece dei suoi disegni – della sua vita, forse – voleva che non restasse nulla, neppure una scia. Voleva che il suo lavoro fosse effimero: Non è così anche la nostra esistenza?

Andò avanti finché, sullo sfondo di quel lago, non apparve un volto. Di scorcio, come di sfuggita, come visto da chi si sta girando indietro e non riesce a voltarsi del tutto.

Quel volto che, confuso tra altre linee, avresti riconosciuto in ogni immagine che Luìs rappresentava, che avresti colto – mischiato ad altri dettagli – in tutti i suoi disegni. Un viso di donna. Sempre lo stesso.

Finì il lavoro che l’ombra della sera aveva raggiunto anche quell’angolo di strada e già si accendevano i lampioni. Curiosi e passanti, usciti per la cena o per godere la passeggiata della sera, si fermarono ammirati. Monete, persino alcune banconote, caddero nella scatola di cartone. Si fece notte.

Gianluigi si avviò verso una pensioncina, era stanco ma si sentiva bene come non gli accadeva da tempo.

Avvertiva una profonda sensazione di pace, gli sembrava di essere dolcemente cullato dallo sciabordio delle onde, abbracciato dalla frescura che saliva dal lago. Pensò che quella notte avrebbe fatto buoni sogni; l’indomani sarebbe tornato a casa e sarebbe andato a costituirsi.

In quell’angolo di piazza rimase un disegno a gessetti che rappresentava una moto in corsa. In primo piano, alla guida, un giovane uomo che si girava indietro verso un volto ridente di ragazza a guardare i suoi occhi sognanti, i suoi capelli al vento, la sua pelle luminosa offerta al sole di un’estate di tanti anni addietro.

Il viso di Arianna, nell’ultimo pomeriggio della sua breve splendida vita. Prima che Gianluigi lanciasse la moto giù dal ciglio di quel pericoloso tornante, folle di gelosia dopo averla vista baciare Mauro, in piedi contro il muro della ferrovia.

Con uno strattone lui l’aveva staccata da sé ed era riuscito a saltare; prima che la moto precipitasse e avvenisse lo schianto.

Quel disegno a gessetti rimase lì, sul marciapiede del lungolago, finché il vento, la lava-strade, le suole di innumerevoli scarpe di varia foggia e numero, poco alla volta, non se lo portarono via; e sul selciato non rimase alcuna traccia.

 

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