Premio Speciale dell’Associazione – Quarta Edizione – 2021

IL VELO DEL TEMPO

di Samantha Falciatori

 

Una parte di noi vorrebbe dimenticare la vita che avevamo prima, ma non ci riesce. Le cose che amiamo sono come perle di una collana: spezzato il filo, si sparpagliano dappertutto, rotolando nei recessi più bui, impossibili da ritrovare. Eppure le cerchiamo, rifiutando di voltare pagina, di dimenticare che aspetto avessero. Passiamo il resto della vita a cercarle, persi nella nostalgia, rivedendo le immagini di quelle perle perdute, come un film, ogni giorno della nostra vita.

Deve voltare pagina. Quante volte glielo avevano ripetuto. Per il suo bene, insistevano. Il suo, di bene, l’aveva perso da un pezzo, da quell’alba maledetta che aveva inghiottito ogni cosa; non era più riuscita a guardare il sorgere del sole da allora. Come poteva voltare pagina senza sapere?

Afferrando le chiavi, l’occhio le cadde sulla fotografia sul comò. Era l’ultima foto che si erano scattati insieme, al sedicesimo compleanno di Liros, poco prima che le loro vite si disintegrassero. Admir le cingeva la vita, mentre i ragazzi ridevano all’obiettivo. Al centro il festeggiato, che stringeva la sorella Leonora, abbracciata a lui, mentre il fratello maggiore, Agron, gli teneva un braccio sulle spalle, con fare protettivo.

Tanti auguri a te, tanti auguri a te

Il coro di voci le giunse da lontano. Nesrete chiuse gli occhi per reprimere le lacrime. Respirò a fondo, finché il ricordo non passò e l’eco delle loro voci non svanì. Sfiorò la foto, sorridendo, e uscì.

L’Ufficio delle Persone Scomparse della Croce Rossa era un luogo accogliente e il signor Grey la ricevette con la solita cordialità.

“La ringrazio per avermi chiamata subito” esordì Nesrete.

“Si figuri. Come Presidente dell’associazione Grida delle Madri di Gjakova doveva essere informata subito. Ci sono delle novità: hanno rifiutato la richiesta.”

Le parole schioccarono come una frusta.

“Con quale motivazione stavolta?”

“La solita. Questioni burocratiche, di autorizzazioni.”

“Signor Grey, sappiamo tutti che sono solo scuse.”

Era vero. A volte non era possibile, ma la verità era che spesso le autorità serbe non volevano restituire i resti delle persone che avevano deportato e massacrato durante la guerra in Kosovo. Un tira e molla straziante per le famiglie, che se fortunate ricevevano parti del corpo dei loro cari, altrimenti un secco rifiuto. Fin troppo raro ricevere un corpo intero.

“Insisteremo. In quella fossa comune ci sono i resti di almeno 108 persone e siamo riusciti a identificarne 44, li riporteremo indietro.”

Tra quei 44 ce n’era uno che Nesrete voleva: il cranio del figlio Agron e con esso la certezza che suo figlio fosse morto. Un lusso, pensò Grey. Sapeva che molte famiglie, senza un riscontro del DNA che certificasse la morte dei propri cari, languivano per anni nella dilaniante e irrazionale speranza che in qualche modo, da qualche parte, i loro cari fossero sopravvissuti. Grey sospettava che anche Nesrete nutrisse in fondo quell’assurda speranza nei confronti della figlia e dell’altro figlio.

“Posso chiederle una cosa?” si sorprese a chiederle.

Lei annuì.

“Come ha fatto?” gli uscì in un sussurro. “Come ha fatto ad andare avanti? A sopportare un dolore così immenso? Lo so, non dovrei chiederglielo, ma ho un figlio e se penso… – fece un gesto vago, che comprendeva tutto quello – Non penso che sopravvivrei”.

Occhi indecifrabili lo fissarono per qualche secondo.

“Infatti non sopravvivi” rispose lei sottovoce. “E non vai avanti. Rimani intrappolato in un passato perenne, senza futuro, perché solo il passato è esistenza.”

“Eppure lei sta andando avanti. Sta combattendo, ha fondato un’associazione per ritrovare le persone scomparse.”

“Quello glielo dobbiamo. È nostro dovere, il dovere dei sopravvissuti. Non a tutti è concesso di invecchiare, ma se sei tra questi allora lo devi a chi non ce l’ha fatta. Chiedere giustizia, raccontare le storie di quanti hanno condiviso la vita con noi, finché hanno potuto, e dargli una tomba in cui riposare.” Il suo sguardo si addolcì. “Solo allora potremo provare ad andare avanti.”

Grey ricambiò quello sguardo, limpido come la superficie di un lago nelle cui profondità scorrevano le correnti torbide del dolore.

“Farò di tutto per aiutarla, Nesrete. Glielo prometto.”

 

Quella sera, Nesrete sedette davanti al camino, il silenzio interrotto solo dal crepitio del fuoco. Si avvolse in una coperta e prese la copia della lettera delle sue grida inascoltate. Fece scorrere il dito su ogni riga, vagando con lo sguardo tra le fiamme, lasciando che il buio là fuori riempisse il vuoto che aveva dentro. E pronunciando ogni nome come per evocarli, cominciò a compiere i primi passi all’indietro, attraversando lo spazio vuoto e buio fino a raggiungere quelle voci, che erano in sua attesa.

***

Aveva piovuto durante la notte. Le tende si gonfiavano sull’alito freddo di un vento che faceva sbattere il tralcio di rose gialle sulla finestra aperta. Fu quel rumore a svegliarla. Admir la sentì muoversi e di riflesso se la strinse al petto, ancora addormentato. Nesrete sorrise, godendosi il calore di suo marito. La luna era tramontata e un orizzonte celeste saliva sempre più su, inseguendo le stelle che impallidivano in ritirata. Si abbandonò al mormorio del vento per farsi cullare nel sonno. Un sonno che non arrivò più.

Lo schianto fu terribile, come le urla feroci che inondarono la casa. Sobbalzarono entrambi sul letto, col cuore in gola. Un’occhiata e un pensiero che li folgorò entrambi: i ragazzi! Admir balzò giù dal letto, afferrò il randello che teneva dietro la porta e si lanciò di sotto, mentre Nesrete sfrecciava verso le camere dei figli. Incrociò Agron e Liros, ma non fece in tempo ad aprire bocca che Agron l’afferrò per le braccia.

“Mamma, va da Leonora, nascondetevi in soffitta e per l’amor di Dio non fate rumore!”

Leonora.

Si precipitò in camera della figlia, cercando di ignorare le urla e i colpi della colluttazione al piano di sotto. Leonora era vicino alla finestra con un tagliacarte in mano.

“Mamma che facciamo?” farfugliò tra le lacrime. Non c’era tempo; passi pesanti stavano salendo le scale. Le fece cenno di tacere e la prese per mano, ma non arrivarono mai alla porta.

“Bene, bene, cosa abbiamo qui?” disse una voce serba entrando nella camera.

L’uomo era alto, robusto e armato. Le squadrò con il divertimento negli occhi. Nesrete spinse la figlia dietro di sé e ricambiò lo sguardo del militare con tutto il coraggio che le riuscì. Di sotto le urla erano cessate, lasciando il posto alla cacofonia del saccheggio. Altri due uomini piombarono nella stanza, gli occhi sfavillanti di anticipazione.

“Non avvicinatevi” sibilò Nesrete nel suo serbo incerto, mentre con lo sguardo ispezionava la stanza in cerca di un’arma. Lo sgabello forse, oppure… non ne ebbe il tempo. Si mossero insieme e le separarono in un abbraccio letale.

Il suo urlo si perse in quello della figlia, i suoi occhi in quelli terrorizzati di lei mentre la trascinavano di sotto. Nesrete lottò finché non riuscì a mordere l’uomo che la teneva, che però si riebbe subito e la colpì con forza in pieno viso.

“Puttana! Adesso te lo faccio vedere io!”

E chiuse la porta con uno schianto rabbioso.

***

Si risvegliò in un bagno di sudore, annaspando per un po’ d’aria. Abbandonò il caminetto e si precipitò sul balcone, cercando di buttare l’aria notturna nei polmoni. Si aggrappò alla ringhiera, osservando la luna, radiosa su quel manto di velluto nero, sopra i tetti innevati.

Era da tanto che non succedeva. Era da tanto che non aveva quell’incubo, in cui la parte peggiore della sua vita le scorreva davanti agli occhi come un film e ogni volta sperava che lo fosse, che potesse spegnerlo in qualche modo come se fosse la storia di qualcun altro, di un personaggio in balia delle decisioni di un regista cui piaceva sconvolgere. Ma era la sua storia, la sua vita; e si sa, la vita sa essere ben peggiore della fantasia e la sua lo era stata. Chi ne era il regista? Il destino? Dio? Se l’era chiesto tante volte, pensando perché fosse capitato proprio a lei, alla sua famiglia, ma non era mai riuscita a trovare una risposta. Forse semplicemente non c’era. Era riuscita ad aggrapparsi ai ricordi più belli, a convivere con i suoi fantasmi, lasciandoli camminare accanto a sé, a sostenerla in quella battaglia di verità e forse, un giorno, giustizia. Credeva di aver incatenato i suoi demoni in qualche angolo buio del proprio cuore, quanto bastava per tenerli a bada, ma a volte spezzavano le catene e riprendevano ad artigliarle il cuore, a infestare le sue notti. Doveva affrontarli.

Trasse un respiro profondo e strinse la presa sulla ringhiera. Alzò lo sguardo verso le stelle e lasciò che quella voce le sussurrasse ancora all’orecchio. Un’eco distante all’inizio, un suono nitido alla fine, così reale che sentì il respiro dell’uomo dietro di sé e i peli sulla nuca le si rizzarono increduli.

Voglio che guardi, mormorò la voce. Voglio che ascolti.

La notte regnava silenziosa attorno a lei, ma il ricordo le pulsava assordante nelle orecchie. Le grida e i singhiozzi di sua figlia dietro una porta chiusa; le urla di Agron dalla cucina; il pianto sommesso di Liros, che si cullava il braccio spezzato sul corpo senza vita del padre. Rimase immobile, lo sguardo perso nelle stelle, cercando di scacciare l’ondata di furia che la invadeva.

Voglio che guardi. Voglio che ascolti.

Non le aveva lasciato scelta. Aveva guardato mentre trascinavano i suoi figli sulla camionetta che glieli aveva strappati via per sempre. Aveva ascoltato le loro grida che la chiamavano terrorizzati, l’eco inumano della propria voce che gli rispondeva, l’esplosione dello sparo che avrebbe dovuto ucciderla e, cadendo, il crepitio delle fiamme dietro di sé, che guizzavano alte sulle pareti di casa, mentre dentro l’incendio ruggiva le sue preghiere per i dannati.

Si portò la mano sul seno sinistro, sfiorando la cicatrice di quel colpo di grazia mancato. Le stelle continuavano a brillare imperturbate e la consolò pensare che i suoi cari potevano aver trovato la strada del paradiso grazie alla luce di quelle stelle.

***

La lettera arrivò inaspettata pochi giorni dopo. Era indirizzata alla “famiglia di Leonora Hoxha”.

Gentile sig.ra,

in riferimento alla sua richiesta la informiamo che in base alle informazioni raccolte e alle analisi sui resti umani recuperati, che sono pronti per esserle restituiti, la Croce Rossa Internazionale ha chiuso il caso di Leonora Hoxha.

Le porgiamo le nostre più sentite condoglianze.

Nesrete rimase a fissare quelle righe per diversi minuti, cercando di assorbire l’enormità di quelle parole che le colavano nell’anima come piombo fuso.

Aveva ritrovato un’altra perla.

Quella sera lasciò le tende aperte quando si coricò; non voleva più avere paura dell’alba. Faceva freddo e la sua mente si perdeva nel dormiveglia, tornando e ritornando a quelle parole.

“Ce l’hai fatta!” le aveva detto Grey quel pomeriggio, con la commozione negli occhi.

Le parole risuonarono nella sua mente insonnolita, ma venivano da un altro luogo, da un tempo più lontano. E per un istante, un istante soltanto, si ritrovò nella sua vecchia cucina, il grembiule sporco di marmellata, con il cuore pieno d’orgoglio stringendo la lettera di ammissione all’università che Leonora le aveva messo in mano, con la felicità negli occhi.

“Ce l’hai fatta!’ aveva urlato abbracciandola. Le grida di gioia avevano attirato anche Admir, Agron e Liros ed era stato un tripudio di abbracci e congratulazioni.

Ce l’hai fatta!

Rimase distesa per un po’, con un pesante groppo in gola, ascoltando l’oscurità e le voci dei suoi cari attorno sé, attraverso il velo del tempo, finché i pensieri si fecero vaghi e il dolore si attenuò. E forse fu solo il sonno che si avvicinava a trasformare l’odore delle coperte nel profumo di rose gialle.

 

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