Premio Speciale della Giuria – Terza Edizione – 2020

La matricola

di Sandra Puccini

 

La corriera trasudava odore di animale fin dalle 7 del mattino, come se una mandria di maiali selvatici l’avesse abitata per tutta la notte. A metà viaggio l’aria era già satura, completamente irrespirabile. Anni dopo scoprii che il deposito degli autobus era a fianco al macello pubblico. Da come stavamo stipati, reclusi in quel vano maleodorante, poteva venire il dubbio che l’autista avesse sbagliato mezzo e stesse portando in giro un carico di bestiame. Il fetore poteva restare nelle mie narici per ore. Era lo scotto da pagare per chi, come me, veniva dalla campagna. Dieci minuti di bici, un’ora di autobus, un quarto d’ora a piedi. Un viaggio della speranza: la speranza di diventare qualcuno.

Che fossi rimasto indietro di almeno un paio di generazioni rispetto ai miei compagni di corso, sarebbe apparso evidente anche al più sbadato degli osservatori. Se avessi girato per il mio paese con gli abiti che loro indossavano per venire in facoltà, in molti mi avrebbero fermato per chiedermi se stessi andando a un matrimonio o a un funerale. A lezione, i loro zaini si mostravano flosci, informi, di un consunto apparente, mentre il mio era gonfio, deforme, di una miseria reale. Anche sedergli vicino mi metteva in soggezione. E non solo per quell’odore pungente di animale che continuavo a sentirmi appiccicato addosso. Avevo deciso, pertanto, che non sarei mai stato io a prendere l’iniziativa, ma avrei aspettato che fosse qualcuno di loro a farsi avanti per primo. Non fu una grande idea. Ci misi poco a realizzare che sarei potuto tranquillamente arrivare alla laurea in medicina senza aver scambiato una parola con nessuno.

Ma, come spesso accade, quando anche l’ultima delle speranze stava per abbandonarmi, conobbi Luigi. Eravamo gli unici a rimanere a fine lezione in quell’aula tetra per consumare il nostro pranzo portato da casa mentre gli altri si dividevano, come in una diaspora, tra mensa e bar. Entrambi avevamo una motivazione nobile: io ero povero e non potevo permettermi un pasto caldo, lui era allergico e non poteva permettersi di morire. Suo padre era odontoiatra e sua madre insegnante. Mi guardai bene dal dire che il mio, di padri, faceva il contadino e mia madre la casalinga. La nostra era un’amicizia che potrei definire a senso unico. Nel senso che Luigi parlava e io ascoltavo. Mi sforzavo di seguirlo e di essere interessato a tutto ciò che usciva dalle sue labbra: aveva dimostrato il desiderio di essermi amico e sentivo di dovergli essere grato per questo.  Un giorno passò l’intera pausa ad elencare tutto ciò che non poteva mangiare associando ad ogni alimento incriminato il relativo effetto collaterale. Amava particolareggiare il tutto con elementi macabri al fine di rendere la cosa più realistica. Mi fece anche vedere l’iniezione per le emergenze estreme che teneva nella tasca dello zaino. Mi affascinava perché avevamo qualcosa in comune: una tara, un difetto di nascita, qualcosa che ci rendeva diversi. Ma mentre io me ne vergognavo, evitando abilmente ogni occasione nella quale potesse venir fuori la mia condizione miserrima, Luigi sembrava aver bisogno di vomitare ogni suo singolo problema ed esibire tutte le sue disgrazie. Per lui parlarne aveva una funzione catartica, purificatrice, quasi esorcizzante. Diversamente da me, non ripudiava la sua essenza, anzi, la esaltava. Ne aveva fatto la sua compagna di vita, perché era ciò che la vita gli aveva dato e doveva farsela bastare. Esattamente come quel panino moscio, di un colore improbabile, che poteva tenere in mano per ore senza dargli nemmeno un morso, facendolo ondeggiare al ritmo regolare dei suoi inesauribili racconti.

L’amicizia platonica con Luigi subì, purtroppo, un brusco arresto sul finire del primo semestre. Durante uno dei nostri pranzi asociali, stava tenendo uno dei suoi interminabili comizi quando, improvvisamente, fu catalizzato dal mio panino con la frittata. Mi interrogò su cosa ci fosse dentro. Avrei dovuto dire la verità, e cioè che nella frittata di mia madre poteva finire buona parte del regno animale e vegetale. Ma non lo feci perché così gli avrei sbattuto in faccia la mia estrazione sociale. Mi limitai ed elencare l’inevitabile: uova, formaggio e cipolla. A malincuore menzionai la cipolla, ma non potevo farne a meno: emanava un odore che avrebbe resuscitato i morti. Lo vidi illuminarsi: mi implorò di fargliela assaggiare. Una goccia gelida mi tagliò la schiena. Cercai in tutti i modi di persuaderlo, di distoglierlo da quel pensiero infausto. In un ultimo disperato tentativo di salvargli la vita, gli chiesi persino che fine avrebbe fatto il suo inseparabile panino.  Tentennò di fronte a quel pensiero. Pensavo di avercela fatta quando, un attimo dopo, repentinamente, si chinò ed addentò la frittata con una voracità che non gli era mai appartenuta. Quando tirò su la testa, bricioli gialli uscivano dalla sua bocca traboccante, mentre gli occhi brillavano di una luce nuova. Almeno, sarebbe morto felice.

Dall’esperienza di quasi morte di Luigi trassi almeno due insegnamenti fondamentali: che ero nato per fare il medico, (la tempestività e la lucidità con le quali gli somministrai l’iniezione salvavita furono decisive), e che non c’è bisogno di qualcuno che risolva un problema se prima non viene generato il problema stesso. Quando raccontai l’accaduto ai miei genitori, omettendo i dettagli che a mio avviso erano trascurabili, mia madre pianse soffiandosi il naso nel grembiule e mio padre mi tirò una pacca sulla schiena di cui porto ancora i segni. Era il loro modo di dirmi che li avevo resi orgogliosi.

Nonostante questo, il secondo semestre per me iniziò in salita. Ero orfano di Luigi per la sua convalescenza e questo mi faceva sentire a metà. Un cane randagio con ancora al collo la medaglietta con inciso il numero di telefono del padrone che lo ha appena abbandonato. In più dovevo sopravvivere all’ interpretazione degli sguardi ambigui che mi destinavano gli altri: chi ero diventato per loro? Colui che aveva salvato la vita al suo amico o il pezzente che voleva far fuori il collega difettoso? A peggiorare il tutto stava per sopraggiungere l’evento che avrebbe sancito, con elevata probabilità, la fine della mia esperienza alla facoltà di medicina: il corso di anatomia umana dell’esimio professore dottore Guido Bettazzi. Su di lui si narravano le vicende più apocalittiche. Compreso che alcuni studenti sarebbero stati visti entrare nel suo studio senza mai uscirne. Su una cosa tutti concordavano. Aveva una missione: frantumare le ambizioni di chiunque, a suo dire, non fosse degno neppure di ambire a diventare medico. E lo faceva con ogni mezzo a sua disposizione: lecito e non.

Alla prima lezione arrivammo in aula puntuali, ma trovammo sulla lavagna un invito a presentarci nella stanza adibita alle autopsie. Una pioggia fitta e tagliente ci bagnò fino alle viscere. Entrammo nella stanza indicata in una sommessa e rigorosa processione. Il capo basso nel tentativo di non intercettare niente che potesse urtare i nostri animi scettici e i nostri stomaci sensibili. Dietro al tavolo di marmo bianco ci aspettava, in camice e guanti bianchi, il professor Bettazzi. Era un uomo che esigeva rispetto e incuteva timore già nel suo aspetto. Ordinò di sistemarci in modo che tutti potessimo vedere bene. Ci muovemmo come le carte di un mazzo da gioco mescolandoci gli uni con altri prima di trovare la nostra posizione. A me toccò la prima fila. A fianco avevo la biondina che generalmente faceva da ombra a Saverio Sforzi Valli, figlio del noto primario, che dal padre aveva ereditato molto, ma non la galanteria: da vero signore, si era defilato nelle retrovie.

Il professor Bettazzi tolse il telo bianco da sopra al tavolo con la stessa rapidità e sicurezza con le quali il torero sventola il suo drappo davanti al toro: la scena che ci si parò davanti fu quella del cadavere di un anziano, o almeno così sembrava. Fui colpito dal suo naso giallo e curvo. Molti fecero un involontario passo indietro. Cercai di rimanere fermo nella mia posizione. La biondina spostò il peso del suo esile corpo sulla mia spalla.

“Quello che state per vedere vi aiuterà molto nel vostro percorso di studi. Se mai ne avrete uno” – disse serafico il professore e, con il bisturi, disegnò una linea sottile sul cadavere che, dallo sterno, scendeva fino all’addome. Il corpo di quel pover’ uomo si aprì come un abito a cui viene tirata giù la cerniera. Alcuni fecero in tempo a mettersi una mano davanti alla bocca e a uscire fuori frusciando via come topi. La biondina non fu abbastanza lesta e mi vomitò sulle scarpe, le migliori che avevo. Il professore infilò i guanti nel corpo del cadavere e iniziò a rovistare alla ricerca di qualcosa. I visceri che si scuotevano dentro all’addome producevano lo stesso rumore delle onde che vanno a infrangersi sulla battigia. Altre vittime abbandonarono la stanza. Quando finalmente ebbe trovato ciò che cercava, lo tirò fuori: una massa rossa, viscida e spugnosa spiccava nella sua mano. La esibì come un trofeo. Dietro di me, sentii il rumore di corpi che cadevano a terra come frutta matura da un ramo troppo carico.

A fine lezione, i pochi rimasti si incolonnarono cercando la salvezza oltre la porta. Stavo per accodarmi a un compagno con la faccia più bianca del tizio adagiato sul tavolo di marmo quando, la voce del professore, mi fece trasalire “Tu, con le scarpe sporche: rimani!” – disse imperativo mentre cercava, in qualche modo, di ricomporre il cadavere che aveva scientificamente dilaniato. Rimanemmo io, lui e il morto. Soli. Il professore e il figlio del contadino. Pensai che fosse arrivata la mia ora. Ci fu un tempo indefinito in cui entrambi restammo in silenzio. Poi, parlò. “Con il dorso della mano o con il bastone?” – chiese. “Cosa?” – replicai balbettando, certo di non aver capito. “Come li uccide tuo padre i conigli? Con il dorso della mano o con il bastone?”. “Con la mano” – risposi. “Tuo padre è un uomo che ha pietà: è il metodo più indolore” – sentenziò – “L’ho capito subito che sei abituato a queste scene. Noi due veniamo dalla stessa scuola”. Ero frastornato: cosa potevamo avere in comune io e il professor Bettazzi? Francamente, dovendo scegliere tra uno dei due, in quel momento mi sentivo molto più affine al cadavere. Continuò, era un fiume in piena. “Da mio padre ho imparato tutto: a far nascere vitellini in parti difficili, a salvare conigli da morte certa, a riconoscere le uova covate semplicemente mettendole controluce. Ma anche a sgozzare il maiale con un taglio netto o a tirare il collo alle galline. Mi ha insegnato che bisogna avere lo stesso rispetto per la vita sia quando si salva che quando si toglie”. Dette queste parole si tolse i guanti imbrattati di sangue e mi porse le sue mani alzandole all’altezza del mio viso. Erano forti e robuste. “Annusale!” – disse. Tentennai spiazzato dal suo gesto. “Annusale!” – ripeté. Non potevo esimermi, quindi mi avvicinai e le annusai. Sapevano di disinfettante e borotalco. Feci un passo indietro. “Che odore hanno?” – chiese. “Un misto di alcool e borotalco” – risposi. “No, annusa meglio”. Mi sentii morire. Mi avvicinai nuovamente accostandomi il più possibile, ma davvero non riuscivo a sentire niente di diverso dalla volta precedente. Lui lo capì. “Ti arrendi?” – disse. Risposi di sì con la testa. “Puzzano di maiale. Per quanto le abbia lavate, per quanti anni abbia studiato ammazzandomi sui libri, per quante mani illustri abbia stretto, continueranno sempre a puzzare di maiale”. Se non fossi stato certo di essere di fronte al professor Guido Bettazzi, avrei giurato che la sua voce, nel pronunciare quelle parole, si fosse rotta. “Non rinnegare mai quello che sei ragazzo, mai. Non serve quanto lontano puoi arrivare se dimentichi da dove sei venuto. Come ti chiami?” – mi chiese mentre copriva il cadavere con rispetto e contegno. “Pietro Fanti” – risposi. “Vai a casa Pietro Fanti. Ti aspetta un lungo viaggio. E poi, devi lavarti le scarpe”.

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