Racconto 3° Classificato – Terza Edizione – 2020

Short Story Sogno

di Nunzio Mario Tritto

 

Ci fu un tempo nel quale venni invitato a parlare in pubblico.

Tutti gli occhi erano puntati su di me.

In effetti, essere il vincitore del famoso premio letterario che quell’anno aveva come tema “Sogno: tra irrealtà e desideri” era stato un bel successo.

Riuscire a fissare su fogli A4, carattere 12 Times New Roman ed interlinea 1,5 i miei pensieri aveva sorpreso tutti. Me, per primo.

Solo che io, in quel momento, non sapevo proprio come iniziare.

Avrei dovuto conquistare l’uditorio con parole forbite ma allo stesso tempo divertenti, strizzando l’occhio alla parte disincantata di ognuno, con la nonchalance tipica di un grande autore.

Ma non sapevo da dove cominciare.

Provai a chiarirmi le idee, mentre emettevo un suono gutturale che avrebbe voluto simulare lo schiarirsi la voce, prima di iniziare finalmente la mia pubblica allocuzione.

Sogno: tra irrealtà e desideri.

Bel tema.

E il mio racconto, o short story come continuavano a chiamarlo tutti quanti, era riuscito in pieno a centrare l’obiettivo.

Forse avrei dovuto raccontare a voce ciò che avevo fissato sul foglio di carta?

No, non era una buona idea.

Di sicuro qualcuno tra tutti i presenti aveva dato una lettura alle mie pagine, quindi avrebbe trovato alquanto noiosa una ripetizione, magari con parole diverse, dei concetti che avevo espresso nel racconto.

Del resto, pure i componenti della giuria dovevano averlo letto, altrimenti non si spiegava perché il premio mi fosse stato assegnato.

Sogno: tra irrealtà e desideri.

Bell’argomento.

Più i secondi passavano e più sentivo la pressione crescere.

Mi guardavano tutti, impazienti di sentire la mia voce.

Ero sicuro che ognuno si fosse fatto un’idea del tono e della consistenza delle mie parole.

Tutti pensavano di sapere come fosse la mia voce.

Acuta? Gracchiante? Impostata? Asfittica? Baritonale? Pastosa? Roca? Debole? Fastidiosa? Calda? Bassa? Nasale? Sgradevole? Squillante? Limpida? Suadente?

Be’, anche questa era cultura delle parole.

Un momento, però.

Questo era culto e non cultura.

No, dovevo cambiare registro.

Magari avrei potuto esordire raccontando una storia.

Sì, esatto.

Il pubblico si aspetta che l’autore premiato sia un affabulatore. E cosa c’è di meglio che inchiodare l’uditorio con una storia che riveli la sagacia e la cultura dello scrittore?

Benissimo.

Avevo stabilito un primo punto fermo.

Un racconto.

Ora dovevo frugare nella mia memoria alla ricerca della short story – ecco! anch’io stavo entrando nel mood giusto – più adatta a quel contesto.

L’unica storia che mi veniva in mente in quel momento era quella che mi aveva raccontato centinaia di volte mio nonno.

Di quando, a causa della sua goffaggine, in un ristorante aveva versato addosso ad un nobile russo che viveva in esilio a Parigi una zuppa rovente, rovinandogli pantaloni e… chissà cos’altro.

Il focoso espatriato aveva chiesto soddisfazione, sfidando il nonno a duello l’indomani all’alba, nei pressi di Placedes Vosges, porgendogli il suo biglietto da visita.

Mio nonno, più scaltro dell’esitante nipote, non era un granché né con la sciabola, né con la pistola. Pertanto, avendo poche chance di uscire integro dallo scontro con il russo, lo aveva pregato di attendere, in modo da dargli il tempo di recuperare il proprio biglietto da visita dal guardaroba all’ingresso del ristorante.

Arrivato lì, aveva colpito con un sonoro sganassone il primo arrivato, rimasto sconcertato dal comportamento del nonno.

Ma questi, furbo come una volpe, gli aveva immediatamente consegnato il biglietto da visita del russo, ricevendone in cambio quello dell’ignara vittima.

Concordato il duello per l’indomani alla medesima ora e posto suggeriti dal nobile espatriato, il nonno era corso in sala consegnando l’agognato biglietto da visita alla parte offesa, confermando l’appuntamento già fissato.

Poi con tutta calma era uscito dal ristorante, non avendo saputo più nulla di quanto fosse accaduto l’indomani tra i duellanti.

In effetti, era una storia interessante. Ma dov’era il sogno? Dov’era l’irrealtà e dov’erano i desideri?

Dov’era il gancio?

Cultura dei nomi. O italica arte di arrangiarsi, forse. Di sicuro, né sogno, né irrealtà, né desideri.

Questa short story non poteva andar bene.

Bisognava trovare altro.

Ancora un’occhiata nei cassettini della memoria. Una confusione tremenda. Nulla di utile. Cianfrusaglie sparse qua e là.

Un momento!

Ecco, sì!

Come avevo fatto a non pensarci prima?

La storia che veniva in soccorso di tutti i conferenzieri smemorati o, peggio, rimasti a secco. Come me.

Mi schiarii ancora una volta la voce.

Stavolta avrei iniziato a dar fiato alle trombe, narrando le gesta di un mio collega dei tempi che furono.

Già mi immaginavo il pubblico rapito dal mio folgorante inizio.

Si dice che Gilbert Keith Chesterton, il creatore dei famosi racconti di Padre Brown, una volta si trovò a tavola con numerosi ammiratori.

Tutti insistevano affinché il famoso letterato tenesse un discorso, ma questi sembrava alquanto riluttante, finché il padrone di casa non gli confessò che gli estimatori là convenuti sarebbero rimasti molto delusi qualora Chesterton non li avesse “premiati” raccontando qualcosa.

Così il nostro decise di accontentarli. Anche perché le continue interruzioni del banchetto lo stavano irritando.

Si alzò in piedi, mentre il silenzio scendeva sulla tavolata.

Tutti gli occhi erano puntati sul famoso romanziere.

Il quale esordì raccontando che ai tempi dell’antica Roma, era prassi far divorare i poveri cristiani dalle belve feroci.

Così, durante uno di quei truculenti spettacoli, dieci uomini di varie età vennero lasciati liberi di vagare al centro dell’arena.

Ad un tratto, da uno dei sotterranei, sbucò un leone.

Il felino iniziò a guardarsi intorno, alla ricerca della preda migliore. Ma venne incuriosito da un vecchio che, invece di scappare urlando come tutti gli altri, era fermo al centro dell’arena,

Il leone gli si avvicinò, pronto a divorarlo, ma il vecchio, con grande naturalezza, si fece incontro e iniziò a parlargli all’orecchio.

Il felino restò immobile e quando il vecchio ebbe finito di parlare, si girò su sé stesso e tornò nei sotterranei.

Tutto il pubblico dell’arena era allibito.

Mai avevano assistito a nulla di simile.

La regola di quegli spettacoli era tuttavia molto chiara: qualora la belva non avesse divorato i cristiani, quelli avrebbero avuto salva la vita.

Così, tutti si voltarono verso il rappresentante del potere politico, che sedeva al centro degli spalti. Questi, secondo la regola, alzò il pollice in alto, salvando la vita a tutti i malcapitati. Prima di congedarli, però, volle che il vecchio fosse portato al suo cospetto, così da chiedergli cosa avesse detto al leone, per farlo desistere dal divorarlo.

Il vecchio non sembrò sorpreso dalla domanda e con grande naturalezza ammise di aver riferito al felino che, qualora l’avesse divorato, alla fine il pubblico gli avrebbe chiesto di tenere un discorso.

Detto questo, Chesterton riprese il suo posto e ricominciò a mangiare. Nel gelo completo della tavolata.

In effetti, forse raccontare questa storia mi avrebbe fatto apparire alquanto snob. E non avrebbe sicuramente contribuito a consolidare quella cultura delle parole che il mio mirabile racconto, pardon short story, aveva contribuito a creare.

Così abbandonai l’idea di utilizzare quell’aneddoto.

A quel punto non sapevo davvero cosa fare.

Magari simulare un malore? Non era da scartare.

Avrei suscitato compassione nel pubblico, di solito assai empatico in questi casi.

Eppure ero sicuro di sapere esattamente cosa dire, come fare e – soprattutto – in quale quantità erogare le giuste parole per quell’occasione.

Solo che, come il famoso blocco di marmo di Michelangelo, la mia grandiosa opera era nascosta nei meandri della mia mente e non si degnava di venire a galla.

A questo punto decisi di provare il tutto per tutto.

Cultura delle parole.

Il senso ultimo era che le parole possono cambiarci la vita.

Così avrei raccontato quella che mi sembrava potesse essere la storia che meglio racchiudeva in sé quelle caratteristiche.

La storia del branco di sardine che all’inizio di maggio, mentre migravano dalle acque fredde del Capo alle correnti calde di Durban, in Sudafrica, si erano trovate a fronteggiare la minaccia della rete di un peschereccio.

Due sardine erano rimaste impigliate nel marchingegno mentre le altre si erano affollate intorno alle malcapitate, per consolarle del triste destino che le attendeva.

In effetti, le sardine continuavano a ripetere alle prigioniere di darsi pace e di smettere di dimenarsi, in quanto ormai non c’era più nulla da fare.

Una sardina accolse l’invito e smise di muoversi, lasciandosi andare, mentre l’altra continuava a mordere furiosamente la rete, per cercare di liberarsi.

Le altre sardine urlavano di smetterla, in quanto così non solo non avrebbe risolto nulla, ma anzi sarebbe morta di fatica.

La sardina, però, non sentiva ragioni e continuava frenetica la sua attività.

Ad un certo punto, la maglia della rete cedette e, come d’incanto, tutti i pesci che erano prigionieri si gettarono nel mare, liberi di nuotare.

Le sardine si fecero tutte intorno alla loro eroina per chiederle le ragioni che l’avevano spinta a continuare a mordere la rete, invece che lasciarsi andare come aveva fatto l’altra sardina.

Questa, con grande naturalezza, disse di non aver inteso le parole delle compagne, anzi, di aver creduto che la stessero incitando a non mollare e, per questo, aveva dato il meglio di sé.

Ecco, questa storia partorita sul momento dalla mia mente era sicuramente quella che meglio avrebbe potuto rappresentare la potenza delle parole. La cultura delle parole.

Ero finalmente pronto a tenere il mio discorso.

Avevo raggiunto l’illuminazione, lo stato ultimo del narratore. Pronto a condividerlo con gli altri. Pronto a regalare il mio successo al mondo là fuori.

Diedi un’occhiata all’uditorio.

Erano tutti in attesa che cominciassi.

Iniziai a pronunciare la prima parola, ma proprio in quel momento veniva comunicato al pubblico che per uno spiacevole errore il nome del vincitore non era il mio.

Ritornai a sedere.

Alla fine avevo compreso l’essenza del sogno, dell’irrealtà e dei desideri.

 

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