Racconto finalista – Terza Edizione – 2020

Utopia 2020

di Marta Boccalini

 

Ho scoperto che mi piace viaggiare.

Ho assorbito, muovendomi veloce, la soffocante umidità dell’aria di Hong Kong, zigzagando tra le blatte che brulicano in ogni strada e l’acqua che cade dai milioni di condizionatori appesi fuori da qualsiasi micro-appartamento, incastrato in grattacieli impercettibilmente oscillanti, avveniristici, ma rigorosamente ossequiosi ai precetti del fengshui. Ho passeggiato a SheungWan per vie modernissime, che poi svelano, all’improvviso, con un incredibile salto temporale, templi tai dietro l’angolo, animati da monaci colorati, piccini piccini, raggrinziti come tartarughe, quasi nascosti da immense spirali d’incenso,il cui profumo si confonde con quello nauseabondo del pesce essiccato venduto per strada. Sono rimasto stordito dai colori fluo di centinaia di insegne danzanti in ogni via, ho visto offrire cibi impensabili, e sono salito con una ripidissima cremagliera al Picco, per ubriacarmi delle luci notturne della città vista dall’alto.

E allora, stupefatta da tanta bellezza, si è accesa in me la curiosità di vedere il mondo.

Controllo passaporti.

A Berlino c’era Gunter. Eravamo scesi all’Hilton, su Gendarmenmarkt, a un passo da Bebelplatz, dove i Nazisti bruciarono 25.000 libri ritenuti pericolosi per il Terzo Reich, ho sentito dire. In questa città si respira ad ogni angolo, insieme al profumo dei tigli, la bestialità dell’uomo, e insieme la sua grandezza, cristallizzate per sempre nei pezzi colorati di muro o nei memoriali ebraici e nelle immense opere d’arte dell’Isola dei musei. La città delle contraddizioni, in cui bene e male si chiamano e si respingono incessantemente, inseparati e inseparabili.

Penso a quanto sia mai strano e curioso l’essere umano, capace delle più basse nefandezze e delle azioni più nobili. L’imbianchino e l’avvocato indiano appartengono alla stessa specie. Himmler e Antigone. Quante cose si imparano ascoltando i discorsi altrui.

Gunter era alto e allampanato, con uno sguardo blu che ti dissezionava;quella sera al pub indossava un giaccone nero di una taglia di troppo, credo eredità del fratello maggiore. La Berliner weissemischuss, birra di grano con sciroppo di asperula, che le dà un colorito verde brillante per nulla attraente, non era un granché –diceva-, anche se brezel e bratwurst erano la morte sua. Rideva ed era felice,in quella fredda sera tedesca, mentre, accanto a noi, una coppia discuteva animatamente riguardo alle prossime vacanze sugli sci nelle Dolomiti: lui avrebbe preferito non lasciare la Germania con quello che stava succedendo, ma lei, una giovane ed elegante italiana con mani veloci e modi spicci,insisteva per approfittare del ponte lavorativo e tornare in patria qualche giorno.

Check-in.

L’Italia, lo dicevano tutti, era bellissima, e le Dolomiti, addirittura Patrimonio UNESCO, non potevano mancarmi. Faceva freddo, sì. Ma i panorami erano strepitosi, e mi hanno dato la forza di resistere alla temperatura poco incoraggiante. Salendo in bus da Canazei, ho preso la funivia del SassPordoi, seguendo accalcati turisti di ogni nazionalità: all’arrivo in cima, da ogni lato,azzurro, roccia e neve a perdita d’occhio, da togliere il fiato e accecare lo sguardo e resettare i pensieri.

Il giorno dopo mi sono rintanato con molti vacanzieri anzianotti e pigri alle Terme di Pozza, dove lo scontro tra l’acqua bollente e l’aria di neve crea nuvole di fumo che rendono ancora più suggestivo il panorama, come emergente dal gigantesco pentolone di un sabba. Mi sentivo in pace con il mondo, stavo imparando tante cose.

L’Hotel Sul Catinaccio di Moena, dove mi avevano portato, è posto un po’in alto rispetto all’abitato, e da lì la vista può scendere e allargarsi su tutto il paese; l’Avisio si stende attraverso il centro, placido e distratto da mulinelli di neve e da bambini vocianti, attorniato da sculture di ghiaccio.

La mia attenzione era stata attirata subito da una cameriera particolarmente simpatica. Mi appostavo casualmente in corridoio quando pensavo che sarebbe passata a rifare le stanze, ridicolo come un quindicenne innamorato, ma Maria era inavvicinabile, sempre di corsa, con cesti enormi di biancheria che le cadeva dappertutto, il carrello con le lenzuola pulite, e i guanti e quella strana mascherina in faccia. Capisco i guanti, ma la mascherina a che le serviva, oltre a farle risaltare gli occhi? Maria era piccola e magra, ma scattante ed energica e diceva sempre alle colleghe che doveva stare più attenta a disinfettare tutto, perché vive con una bimba e un papà anziano. La sua bambina non andava a scuola in quei giorni, si vede che in Italia era festa, e non sapeva come fare, perché non poteva lasciarla sempre al nonno. Era un bellissimo esemplare di essere umano, con i capelli biondi sulle spalle e quegli occhi fiordaliso; mi piaceva persino il suo strano modo di parlare, a volte, una lingua locale che non capivo.

Un giorno non è più venuta a lavorare. Ma io sapevo dove stava. Ho lasciato l’hotel e, non visto, sono riuscito a entrare in casa sua, con la scusa della spesa con consegna a domicilio. La sentivo dire al padre che era in gabbia, che non poteva uscire, ma non capivo, non vedendo nessuno che glielo impedisse. Maria mi incuriosiva. Era molto nervosa, e alzava la voce per un nonnulla. Sembrava spaventata. Poi ha cambiato atteggiamento. Ha detto alle amiche che bisognava scuotersi, che in fondo i loro vecchi sono stati in guerra e a loro si chiedeva solo di stare in casa al sicuro;ha riordinato e pulito tutto, maniacalmente, ha telefonato, ha scritto mail, letto libri, giocato. In quella stasi di giorni tutti uguali ha riscoperto le cose scontate, diceva, come l’importanza della libertà, ora persa, di fare scarpinate per raggiungere il rifugio Re Alberto, o il lago d’Antermoia, di inerpicarsi su sudate ferrate che poi ti rendevano distrutta ma felice, per essere stata davvero a contatto con la natura, lontano dai turisti chiassosi sempre alla ricerca di souvenirs di legno, polenta con i porcini e strauben con marmellata di mirtilli rossi. Era bello tornare a casa e non avere più la forza di stare in piedi, i muscoli doloranti e lo zaino troppo pesante per fare un altro metro, ma non se n’era mai accorta. Aveva imparato che mettere un vestito colorato, o avere il tempo di cucinare,avevano il potere magico di risollevarle l’umore, e aveva capito anche quanto fosse bello poter riflettere su ogni minimo dettaglio della sua vita passata, per metterlo finalmente a fuoco con la lente di ingrandimento, e farci pace.

Avrei voluto più di ogni cosa condividere con lei le sue  emozioni, poterle comprendere senza che fosse necessario che le spiegasse, andare con lei d’estate su quelle cime per vederle diventare rosa al tramonto, quando il giardino di Re Laurino, come raccontava alla sua bimba, si mostra ancora per un attimo agli gnomi e agli umani;avrei voluto camminare con i suoi piedi, scorrere nelle sue vene, respirare con i suoi polmoni. Avrei voluto che mi portasse a Carezza all’ora precisa in cui il Latemar si specchia dentro il lago, in modo da duplicarsi esattamente, tanto che girando una foto non si distinguerebbe l’immagine vera dal riflesso.

Eppure, non sono mai riuscito ad avvicinarla. Non mi ha mai visto, ma sembrava che sapesse che ero lì e facesse di tutto per evitarmi. Mi ha tenuto a distanza come un criminale. E dire che sarebbe bastato così poco…bastava un respiro perché mi impossessassi di lei, e potessi vivere  attraverso i suoi occhi.

I giorni si sono succeduti rapidamente, Maria ha ripreso ad uscire con la bambina, e io, rassegnato a non averla mai, e destinato a un’esistenza da spettatore immaginario di quelle avventure, mi sono lentamente spento.

Non sono mai più uscito da quella casa.

Avrei voluto soltanto poter viaggiare ancora, e vedere ancora, e ancora, tutte le meraviglie che l’uomo e qualche dio hanno creato sulla terra, perché io, prima, dentro un uomo non ero mai stato, ma solo in pipistrelli, o altri animali senza anima, e non sapevo cosa ci fosse fuori, e quanto fosse meraviglioso poter vivere immerso in tanta abbagliante umana bellezza.

Sogno più di ogni cosa, in un’altra esistenza, se davvero è programmata per tutti almeno un’altra vita, in cui ci è dato di incarnarci in forme diverse,di rinascere come uno di quegli esseri, così strani e ambivalenti, che sembrano tanto fragili e sciocchi che non sanno curarsi del loro mondo, ma sono capaci di una forza immensa quando sono minacciati, e all’improvviso, girandosi con un movimento perfetto, riprendono il vento e ricominciano a sollevarsi verso l’alto.

Check-out.

 

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