Racconto finalista – Terza Edizione – 2020

Adesso sto sognando

di Silvia Caramellino

 

 

“Una flotta di quasi trentamila paperelle di gomma sta puntando verso le coste dell’Inghilterra. I primi sbarchi sono previsti entro i prossimi giorni dopo ben quindici anni e mezzo. Era, infatti, la fine di gennaio del 1992 quando la nave cargo che trasportava questi “FriendlyFloatees” perse il suo colorato carico di pennuti di gomma in pieno Oceano Pacifico a causa di una tempesta. Tre containers finirono in mare aperto e, rompendosi a contatto con l’acqua, liberarono i trentamila animaletti di plastica e gomma che di solito fanno compagnia ai bambini durante il bagnetto e che da allora stanno, invece, vagando per il globo seguendo le correnti marine.”

 

L’odore di benzina si mischia al tono pungente della salsedine.

Mark, al timone del suo peschereccio, si guarda le punte degli stivali di gomma, segue i contorni delle pieghe dei suoi jeans e osserva le sue mani che stringono una fotografia. C’è il volto di sua figlia Katy sulla carta lucida. Tra le sue piccole dita stringe una paperella gialla.

È per te se sono in mare, pensa Mark.

Questo è il giorno del suo grande appuntamento: lui le troverà tutte. Troverà prima di chiunque altro tutte le paperelle gialle.

“Promettimelo papà, promettimi che appena arriveranno me le prenderai tutte”. La voce di Katy rimbomba tra le onde calme tutt’intorno.

Glielo chiese una sera di fine estate. L’indomani Mark fu svegliato da un forte trambusto in fondo alla strada. Uscendo dal vialetto aveva visto una macchina rovesciata e aveva avvertito un tonfo inspiegabile al petto.

Era l’auto di sua moglie: quella mattina stava portando lei Katy a scuola.

Già quella volta Mark era sicuro di star sognando. Non poteva essere vero. Presto avrebbe sentito suonare la solita sveglia di tutti i giorni e si sarebbe svegliato con le spalle di sua moglie accanto.

Invece era vero. I vigili del fuoco lo trattennero lontano. Fu un pompiere anziano, solo due ore più tardi, ad andare verso di lui con il volto di chi non vorrebbe mai dover dare notizie simili.

Era stato molto difficile estrarre i corpi di sua moglie e di Katy.

Le avevano trovate abbracciate.

 

L’odore di piscio copre tutto.

Baba ha smesso di coprirsi il naso già da tempo e anzi, quando per qualche minuto non avverte quel fetore, proietta la testa all’insù e spalanca le narici. Sentire quel puzzo è l’unico modo per constatare di esser ancora vivo.

Sua madre è stata buttata in mare ormai da più di ventiquattr’ore. Il suo corpo, avvolto in un telo sporco e intriso di sale, era caduto senza far alcun rumore o almeno così era sembrato a Baba.

Solo in quel momento aveva realizzato: era rimasto solo.

Baba pensa che sia finita. Non crede più alle parole dell’anziana signora che gli sta accanto e che ogni ora gli bagna la bocca con uno straccetto inzuppato d’acqua salata. Non sente nemmeno più i crampi e i dolori alla schiena e alle natiche.

Avverte solo tanta stanchezza addosso.

Stringe tra le mani il sacchetto ricolmo della sua terra natia, l’ultima pagella conseguita a scuola e un anello che era stato di suo padre.

Tiene tutto pronto per quando accadrà.

Moriranno tutti. Come la madre, come il giovane prima di lei, come la bambina prima di lui e così via.

Anche lui, dopo tutti, verrà inghiottito dalle onde.

 

Quando Mark la vede pensa di star sognando.

È quasi notte e sul pelo dell’acqua scorge una piccola luce gialla che si muove in modo buffo e dinoccolato. Mark punta la grossa luce del peschereccio nella sua direzione e la osserva. È una paperella gialla.

Prende veloce la retina per raccoglierla e portarla dentro.

È più piccola di come la ricordava e ha gli occhi sorridenti. Il suo colore è simile a quello del grano maturo.

Mark è felice. L’ha trovata. Ci è riuscito. Pensa che anche Katy adesso starà sorridendo da qualche parte, portando gli spigoli delle labbra in alto con il lucidalabbra rosa al gusto di fragola.

Si sporge veloce. È convinto che attorno ce ne siano altre. Le cerca. Cerca ovunque tra le pieghe delle onde.

Dal nero profondo dell’acqua intravede muoversi qualche ombra.

Altre paperelle gialle, pensa.

E sente gonfiarsi e sgonfiarsi il petto ancora più forte.

 

Non le dividono che tre metri l’una dall’altra. Tre metri fatti soltanto di acqua e di sale.

Baba e i suoi compagni su di una barca ormai piegata dall’acqua, Mark e la paperella gialla sul peschereccio.

Dondolano entrambe le barche come in un tango improvvisato nella notte tra un senzatetto ed una principessa.

Mark guarda i loro volti. Sono sfigurati dalla stanchezza. Gli occhi sbarrati dalla paura trattenuta per troppo tempo, tanto da lasciare l’iride pietrificato in un ultimo sguardo che ormai racconta soltanto di assenza.

La schiera di uomini sullo scafo non ha più voce, le richieste di aiuto spente nella gola.

Eppure gli sembra di sentirlo un suono. Qualcuno sta dicendo Siamo salvi, ne è certo.

Mark vorrebbe dire loro che c’è un errore. Lui è lì per le paperelle, lui è lì per la sua Katy.

Poi scorge la scocca di un piccolo corpo fantasma tra quei volti, gli abiti consunti e macchiati di guerra e morte che non dovrebbero abitare mai la pelle di un bambino.

Baba lo guarda a sua volta e Mark non può far altro che pensare che i suoi occhi siano i soli occhi ancora vivi su quella barca.

Affianca il peschereccio allo scafo degli uomini. Posso aiutarvi?, chiede. Nessuno risponde ma prima un piede, poi una gamba, poi un ginocchio e poi più piedi e poi più gambe e più ginocchia sorpassano i bordi della barca e si fanno largo sul suo peschereccio.

I corpi prendono posto ovunque: sul cassone, a terra, dentro alla cabina, sulle frange del peschereccio. Coprono tutto.

Quegli uomini occupano ogni posto in cui Mark aveva immaginato appoggiare tutte le paperelle gialle che avrebbe trovato.

 

È piena notte e prima di ripartire verso la costa Mark si sdraia in mezzo agli uomini.

Sorride un po’: li immagina come una quarantina di paperelle gialle.

Accanto a lui c’è Baba che ora si volta nella sua direzione, comprime gli occhi ad una piccola fessura e gli stringe i polsi. Un ragazzo al suo fianco inizia a parlare: è l’unico che conosce un po’ d’inglese.

“Ti sta ringraziando. Da noi c’è un’usanza per cui si fa così. Per ringraziare qualcuno non si stringono le sue mani ma i polsi. Perché è da lì che scorre la vita. E per ringraziare l’altro, si ringrazia la sua vita.”

“Non c’è alcun bisogno”, dice Mark.

“Le nostri madri ci hanno ripetuto centinaia di volte un’unica cosa per quando saremmo arrivati nel vostro Paese. Ringraziate sempre.”

Mark si lascia stringere i polsi ancora e ancora, poi cerca gli occhi di Baba. Una coltre leggera di umido gli imperla il contorno dell’iride, tipica di quegli occhi che piangono senza lacrime.

Mark porta lo sguardo al cielo e spalanca le narici.

Gli uomini attorno a lui puzzano. Il sudore è uno dei prezzi che quei corpi pagano per esser ancora vivi. Sente di puzzare anche lui del loro stesso sudore.

Sto sognando, pensa. Ora sto sognando davvero.

Ma adesso le mani di Baba sembrano lasciargli addosso una nota dolce che gli appare familiare. La sente troppo nitida per non apparirgli vera. È profumo di fragole.

Ora Mark non saprebbe proprio dire se quei puntini luminosi che vede sparsi in mezzo a tutto il cielo siano paperelle gialle. O stelle.

 

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