Premio Speciale dell’Associazione – Terza Edizione – 2020

Dove finisce un sogno

di Daniela Quadri

 

 

Il patio illuminato dal sole è caldo e accogliente, a differenza della casa: troppo grande e vuota, anche se non è stato sempre così. Scendo i gradini che portano alla spiaggia; la barca è ancora lì, con gli scalmi corrosi dalla salsedine e la vernice azzurra ormai sbiadita. Apparteneva a mio padre, lui era un pescatore e, quando compii otto anni, mi portò con sé a vedere i grandi banchi di sardine che si muovevano come enormi ventagli d’argento intorno a Capo Torre. Mi tolgo scarpe e calze, voglio sentire il brivido freddo dell’acqua sulla pelle accaldata salirmi su per le caviglie. Ne ho bisogno per tornare a vederlo curvo sul motore diesel della lampara, mentre cercava di farlo partire e gli scoppi secchi riempivano la prua, e a risentire la sua voce quando gridava agli uomini di calare le reti nel punto esatto dove la luce aveva illuminato il banco più numeroso. Sarebbe così facile arrendermi al desiderio di dimenticare, ma mi blocco. Con le scarpe in mano seguo la linea del bagnasciuga e torno verso la vecchia barca. Il sole è a picco nel cielo senza nuvole, fa troppo caldo per restare vestito. A schiena nuda mi appoggio alla fiancata della barca: il legno consumato dalla salsedine mi pizzica le reni. E tutto è come allora.

***

Pesci. Pesci piccoli e odorosi di alghe e sale. Pesci ovunque. Riempivano le ceste e la cucina dove mamma li passava nel sale che prendeva a manciate da grandi sacchi di iuta, e li adagiava dentro botti di castagno, sale e pesci a strati, fino alla bocca che poi chiudeva con un coperchio, sul quale poggiava una grossa pietra. Pesce e sale: il profumo della mia infanzia. I capelli neri di mamma, raccolti a crocchia sulla nuca, che sprigionavano l’odore del mare, come la chioma di una sirena resa infelice dal suo amore per un essere umano. Mamma vestita di scuro, con gli abiti dalla lunga fila di bottoni sul davanti aperta solo un po’ sotto il ginocchio. Mamma e le sue mani  ruvide che avevano indossato solo la fede del matrimonio e non se l’erano più tolta; mani che non stavano mai ferme le sue, e che mi regalavano sempre una carezza la sera per farmi addormentare. Mani che non avevano mai conosciuto desideri o se li erano visti strappare via dal mare. Mamma con un velo nero sui capelli e il rosario stretto tra le mani dalle nocche bianche; dentro la bara aperta l’unico uomo per il quale aveva pregato dio, perché glielo lasciasse accanto. Ma la voce del mare era arrivata più forte delle sue preghiere alle orecchie di dio.

Pesci. Pesci ovunque nel mare che sa di sudore e paura. Fluttuavano leggeri come immense nuvole attraverso un cielo spazzato da correnti misteriose. Pesci benedetti dentro le reti gonfie e pesanti. Pesci maledetti dopo un’intera nottata con la faccia sferzata dal vento, gli occhi bruciati dal sale e le mani scorticate sulle cime bagnate. Stivali pesanti che uscivano di casa la sera dopo che mi ero addormentato e facevano ritorno quando ero già a scuola. Cassette piene o mezze vuote caricate sulle spalle di mio padre, ogni mattina all’alba al mercato del pesce. Mani abbronzate e callose che mi sollevavano in aria e mi tenevano a cavalluccio sulle ginocchia per vedere i miei occhi brillare di felicità. Mani che ho stretto troppo poco per paura che tra di noi si creasse un’intimità alla quale non avrei saputo come rispondere. Mani che, se desideri hanno avuto, non l’ho mai saputo. Mio padre con il vestito buono da sposo dentro una bara aperta. Le sue mani bianche intrecciate sul petto come un nodo da marinaio sono quello che mi è rimasto di lui.

***

Un’ombra scura sugli occhi mi costringe ad aprirli. Ha capelli lunghi biondi e occhi chiari come solo le donne di questa terra possono ereditare da antenati di secoli fa.

«Ciao, posso sedermi qui vicino a te?» La sua voce è una risacca dolce che accarezza la riva del mare.

«Certo, fai pure.»  La invito con un gesto della mano, poi restiamo in silenzio a fissare l’orizzonte perfetto davanti a noi.

«Non  mi hai riconosciuta, vero? Cioè scusami se non mi sono presentata prima. Sono Angela, la tua vicina di casa. Di quando eri bambino, intendo.» Dice e il suo sorriso non pretende nessuna spiegazione.

«Scusami tu, Angela, ma sei così… così…» Farfuglio, imbarazzato e inebetito senza un perché.

«Hai ragione. Sono passati tanti anni… venti? Da quando giocavamo insieme qui sulla spiaggia e sì, devo essere un po’ cambiata da allora. Tu, invece… ti avrei riconosciuto ancora anche in mezzo a una folla! Gli stessi capelli scuri e ricci, gli stessi occhi che guardano e non vedono… Ma, come mai sei tornato qui al paese?»

Sono tornato perché non riesco più a sognare, anzi ho paura di farlo, vorrei risponderle. Ma come faccio a spiegarlo, quando io per primo mi do del matto? Eppure non sarebbe impossibile, ci vorrebbero solo poche parole, quelle giuste per dirle che sono qui per capire dov’è il confine tra un sogno e un desiderio e per scoprire se e quando si può abbandonare un sogno. Perché se ci fossi riuscito, a uscire da quel sogno, lui non sarebbe morto.

«Sono tornato perché devo vuotare la casa di mio padre, ora che anche mamma non c’è più. Ti va di restare un po’ con me, Angela?»

***

Rossa fiammante, con le ruote grandi e la sella piccola come le bici dei veri ciclisti, rimanevo incollato alla vetrina a guardarla per ore. La vetrina era quella del negozio di Don Ciccillo, nella piazza grande del paese, proprio davanti al sagrato della chiesa e accanto al bar dove i vecchi passavano il tempo a giocare a carte, bere vino e a commentare i culi delle femmine che spicciavano le loro faccende. Volevo quella bicicletta, la desideravo con tutto me stesso al punto che pur di averla avevo promesso qualunque cosa: prendere buoni voti in tutte le materie, aiutare mamma a zappare l’orto e seminare le melanzane, accompagnare papà a pescare la domenica mattina quando il mare era calmo. La desideravo così tanto che avevo persino giurato in confessione a Don Antonio che avrei servito la messa dei Vespri come chierichetto per due mesi di fila.  Quel desiderio mi stringeva come un’armatura che irrigidiva i pensieri e costringeva tutte le mie richieste in un’unica direzione, ed era tanto forte da starci male. La notte mi rigiravo nel letto e a tavola mangiavo poco o niente.

«Cosa c’è? Ti senti mali, figghiu miu?» Chiedeva mamma, quando mi vedeva con lo sguardo perso e il piatto pieno ormai freddo davanti a me. Finché una sera non ce la feci più e le parole sgorgarono d’un tratto insieme alle lacrime.

«La bicicletta. A bicirìetta rossa, mamma. A vogghiu!» Non so cosa mi stesse succedendo. Non avevo mai chiesto né preteso niente in vita mia, ma era come se sentissi che quella bicicletta avrebbe potuto cambiarmi e, in sella a quella meraviglia, mi sarei sentito più grande, sicuro, migliore.

Mamma non rispose. Mi passò una mano ruvida sulla testa, senza asciugarmi le lacrime, e fissò mio padre che non aveva smesso di mangiare la minestra di broccoli.

Quando mio padre sollevò la testa, i suoi occhi erano spenti come due lampare quando le barche rientravano in porto dopo una notte di pesca sfortunata.

«Nun avemu i sordi, picciriddu.» Disse e riprese a mangiare la minestra.

***

Mio padre, il mio eroe, aveva distrutto il mio primo sogno. Avevo nove anni e di lui mi fidavo; da quel momento non avrei più creduto a nessuno. Mi aveva mentito ogni volta che aveva detto di volermi bene. Come poteva essere altrimenti, dal momento che si era rifiutato di comprarmi la bicicletta rossa? L’unica cosa al mondo che mi avrebbe reso felice. Quell’uomo mi aveva tradito e io non l’avrei mai perdonato. Andai in camera e mi stesi sul letto. Tremavo tutto ma non era freddo. Non avevo mai provato tanta rabbia come in quel momento.

«Ti odio!» Gridai con la testa che mi scoppiava come dentro un sacchetto chiuso stretto. E lo ripetei fino a non avere più voce, finché il buio che mi circondava mi accolse. Non fu un sonno pacificatore quello nel quale scivolai, ma un’esplosione di immagini che mi fecero sussultare e rigirare fino all’alba.

Un mare nero e gonfio urlava sollevato da un vento fortissimo di libeccio, sballottando la barca che rollava sulla linea dell’orizzonte come un guscio di noce. La prua dipinta d’azzurro appariva e scompariva sulla cresta e dentro il ventre di onde che inghiottivano il cielo. E quel vento turbinava anche dentro la stanza, battendo implacabile contro i vetri della finestra, dove tamburellavano dense gocce di pioggia, dita impazienti di entrare. Lampi abbaglianti si accendevano nel buio, colorando di fosforescenza le radici del cielo, quando mi apparve curvo sul motore diesel della lampara, mentre l’aria intorno a lui si riempiva di scoppi. Si alzò e puntò verso di me occhi stanchi e dolenti. Perché io ero lì con lui, seduto in fondo alla barca accanto alle reti aggrovigliate, dove di solito mi accucciavo quando uscivamo insieme a pesca. La tempesta ringhiava, scagliando acqua e saette tutt’intorno, ma io rimanevo immobile, rigido e pesante come le pietre che mamma sistemava sopra le botti di pesce e sale.

«Aiutami, picciriddu!» Gridò la voce di mio padre colpendomi in pieno viso.

«No, no, no!» Urlai più forte del mare, mentre un fulmine illuminava a giorno la stanza e il boato del tuono scuoteva i vetri della finestra.

«No, no, no!» Stavo ancora ripetendo, quando mia madre si sedette sul bordo del letto e mi asciugò le lacrime.

***

Indossavano cerate scure gli uomini che vennero a bussare alla porta prima dell’alba. Mia madre andò con loro e io rimasi rannicchiato nel letto, con la testa che rimbombava di no infilata sotto il cuscino. Lo ritrovarono due giorni dopo vicino a Capo Torre. Ce l’aveva portato la corrente quando il mare si era acquietato, ed era rimasto così a galleggiare tra gli scogli come un fiore appassito. La barca, invece, sembrava aver trovato da sola la strada di casa, arenandosi sulla spiaggia.

«U miraculu!» Mormoravano i vecchi al bar, facendosi un segno di croce, ma solo io sapevo come erano andate le cose quella notte. Mio padre era morto perché io non l’avevo aiutato in mezzo alla tempesta, perché, in fondo, volevo davvero che morisse per quel desiderio inesaudito. Avrei voluto gridarlo a tutti nella piazza grande del paese e, soprattutto, a Don Ciccillo. Gli avrei chiesto di togliere la bicicletta rossa dalla vetrina perché, quando la vedevo, mi sentivo stranire. E avrei voluto che mia madre lo sapesse e che, comunque, mi stringesse tra le braccia e mi dicesse che non era colpa mia, perché io da solo non ce la facevo a perdonarmi. Ma quando la vidi con il velo nero sui capelli e il rosario stretto tra le mani dalle nocche bianche china a pregare sulla bara aperta, sentii un’esplosione di buio, un peso caldo che colava dentro il mio vuoto. Non glielo avrei mai confessato, l’avrei solo fatta morire un’altra volta. Quel dolore, intenso e acuto che non immaginavo ancora sarebbe diventato cronico col tempo, apparteneva solo a me. Un giorno avrei imparato a conviverci, ma non mi avrebbe mai abbandonato, come uno spasmo che stringe il cuore senza mai arrivare a uccidere.

***

Pesci. Pesci ovunque nel mare, nella cucina di mia madre e nella barca di mio padre. Mi sembra quasi di sentirne l’odore, mentre Angela, coi fianchi abbronzati nell’acqua trasparente, mi fa cenno di raggiungerla. M’immergo accanto a lei e mi lascio scivolare sotto il pelo dell’acqua. Vorrei affondare, farmi trascinare via dalla corrente e restare a galleggiare per sempre, come dopo una tempesta. Ma la sua mano si stringe alla mia e il confine tra sogno e desiderio si fa liquido. Sono loro, di mio padre e di Angela, le mani che mi sorreggono, mentre l’aria profumata di sale e di pesce mi riempie di nuovo i polmoni. E posso quasi sentirlo accanto a me, il corpo fluido che si confonde con i banchi argentei di sardine intorno a Capo Torre; mio padre si allontana a grandi bracciate nel mare aperto, finalmente libero.

«Tornerai ancora qui?» Mi chiede Angela.

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