Racconto finalista – Terza Edizione – 2020

Un autentico distanziamento

di Giuseppe Muscardini

 

 

Alzai gli occhi sull’orologio a muro, appeso sopra il tavolo del personale della Biblioteca. Mi lisciai il viso, riflettendo sul da farsi. Terminare la seconda parte del Dottor Živago o tornarmene a casa, dove mi aspettavano le incombenze di ogni giorno? Ma quel legame non comune fra Jurii e Larissa, la cui intensità sgorgava dal libro spandendosi all’interno delle pagine che scorrevo, era così coinvolgente da modificare i miei progetti.

Con movimenti lentissimi e cadenzati sfogliavo le pagine fitte, preso dalla storia letta e riletta di quell’ardore saldo e delicato che neppure il tempo, gli eventi e le convenzioni, erano riusciti a scalfire. Nella trama del romanzo lei era rintanata in un paesino russo nel periodo post-rivoluzionario, lui la incontrava per puro caso dopo anni di fughe nello sconfinato territorio divenuto dei Soviet, ed entrambi capivano quanto fosse stato grande il loro amore. La fulminazione di quell’incontro tra un uomo e una donna che fino ad allora avevano creduto di essersi perduti, ridestò in me interessi profondi. Dunque gli amori esistono, mi ripetevo. Dunque non è vero che tutto ha un decorso, terminato il quale si ha maggior bisogno di autonomia, di libertà, quasi un ritorno alla vita dopo un periodo di abitudini scontate, di noiosi impegni quotidiani richiesti dalla vita di coppia. Esiste, dunque, fuori dalle occupazioni ordinarie, qualcosa di grande che permane, un punto fisso che fa in ogni modo sperare nell’eternità e nell’infinito. Se due individui, schiacciati dagli eventi di una spietata rivoluzione politica che tutto sommerge ma lascia intatto il ricordo, a distanza di anni ancora si pensano, e proprio nella sventura il ricordo si fortifica nell’uno e nell’altro fino a far maturare il desiderio dell’incontro, e se quell’incontro alla fine avviene nel modo più casuale, quando niente e nessuno lo fa presagire, allora si è prossimi all’infinito e all’eternità. Perché quel sentimento può sopravvivere a tutto, anche alla morte.

L’orologio emetteva quel ticchettio che induce a lanciare il pensiero lontano, anche solo per liberarsi dell’idea di una ripetizione di fatti uguali, scanditi dal tempo, dai secondi e dai minuti. A questo pensavo quando il ticchettio prese a scavare dentro di me, e realizzai che tutto scorreva a sfavore del mio tempo libero, che inesorabilmente si accorciava, lasciandomi solo davanti alla tirannia dei prossimi cinque minuti. Era ciò di cui potevo ancora disporre. Dopo sarei tornato a quel mondo concreto che pareva opporsi all’idea di una perennità dei sentimenti, o dei nostri più intimi modi di sentire, che diventavano perpetui se sospinti dall’amore. Cinque minuti ancora. Le lancette correvano.

Abbassando lo sguardo incontrai qualcosa che prima non c’era. Esattamente sotto l’orologio, come quando s’impressiona una pellicola fotografica, percepii per un attimo una sembianza umana, con capelli, occhi, naso e bocca. Focalizzai il viso di una donna che emergeva dal mio spaesamento, e quella donna mi guardava. Sostenni lo sguardo finché mi fu possibile, poi calai gli occhi sul libro e spuntò dalle righe, che ora scorrevo con più nervosismo, il volto sorpreso di Lara nel momento in cui Živago entrò nella piccola Biblioteca di Jurjatin, presso Varykino. I due si guardavano attoniti, in preda a chissà quali idee sulla divinazione… Anch’io fissai la bibliotecaria, ma senza lo stupore che dovette provare Živago. Questa volta fu lei ad abbassare le palpebre. Provai ad insistere ancora, ma senza esito. Inseguendo più il senso dell’eternità che altro, guardai l’orologio, e sotto trovai ancora gli occhi chiarissimi della bibliotecaria, che senza sorridermi perforava ogni idea possibile di sopravvivenza dello spirito, a vantaggio di una provocante e più che mai terrena malizia. Era provocazione bella e buona, di quelle che tendono a comunicare desiderio, passione, o curiosità. Non era ciò che provavano Larissa Fëdorovna Antipova e Jurij Andrèevič Živago? Se Boris Pasternak avesse visto tutto questo, se fosse vissuto nel mio tempo, un tempo contaminato dal Coronavirus, con città malate, dai borghi fino alle metropoli, un tempo dove era consolatorio leccarsi le ferite, con risorti nazionalismi, malversazioni e mille altre piaghe divenute insanabili, un tempo infine in cui lo spirito raramente trionfa sulla materia, forse avrebbe descritto l’incontro fortuito fra Lara e Živago in modo diverso.

Eppure fra le persone le cose ci sono o non ci sono. E se ci sono in un dato momento, possono mancare in un altro. Fra me e la bibliotecaria c’erano, eccome. Sentivo crescere l’interesse per le sue dita e per le unghie smaltate che sfioravano i dorsi dei libri alla ricerca di un titolo, per come si rivolgeva alla collega, per come usava il telefono, per i documenti antichi che dava in lettura a barbosi ricercatori di notizie. La sua gentilezza verso gli altri, e le occhiate rapide che mi rivolgeva, riuscivano a scuotere il mio essere ora non più proteso all’infinito. Dedicava il suo tempo agli utenti servendoli con devozione, porgendo loro tutto ciò che desideravano consultare e, come Lara, provvedeva a me gettandomi sguardi eloquenti. Se mai dovesse figurare un simile termine sul Dizionario, si potrebbe dire che comprovvedeva. Uno spirito e un’attitudine che nel romanzo di Pasternak dimostrava di possedere anche Lara, dedicandosi con anima e cuore a soccorrere feriti e moribondi al fronte, con il ruolo di crocerossina.

Se Boris Pasternak avesse scritto il suo romanzo in tempi più vicini a noi, gli espedienti letterari sarebbero stati, sì, diversi, ma solo per riconoscere le consuete e ritrite modalità delle relazioni umane. Me ne accorsi quando la bibliotecaria fu raggiunta, poco prima della fine del suo turno di lavoro, da un uomo non più giovane, che le sorrise come si sorride solo ad una persona con cui si condivide una stretta affinità, un complice accordo, ancorché imposto. Nell’aspetto quell’uomo mi ricordava Victor Ippolìtovic Komarovskij, l’equivoco avvocato che nel romanzo aveva abusato di Lara, condizionandone l’esistenza anche nel periodo in cui lei si legò a Živàgo. Nella finzione letteraria, Lara gli aveva anche sparato un colpo di pistola durante un ricevimento pubblico. Non si può volere tutto, e non avevo speranze che la bibliotecaria in quel momento potesse liberarsi del suo attempato spasimante – magari in modo meno cruento – per continuare a lanciare a me le sue occhiate espressive.

Avrei voluto vedere Pasternak, a fronteggiare il nuovo che avanza, se davvero c’è del nuovo in quest’epoca in cui i politici godono di privilegi e fruiscono di vantaggi che ai più non sono concessi. E qui il cerchio si chiude, perché Komarovskij nel romanzo si ricicla ed ottiene, come spesso accade, una carica importante nel regime sovietico. Tanto da persuadere Lara e Živago a separarsi, adducendo come motivazione l’incolumità personale di entrambi. Lara è incinta e Živago non lo sa. Né lo verrà mai a sapere.

Guardavo la bibliotecaria e il suo ragazzo allontanarsi dalla sala. Lei aveva indossato un lungo cappotto rosso, con martingala e spalline, che le conferiva un aspetto marziale, simile a quello dal partigiano rosso Pavel Antipov, marito di Lara, soprannominato Strelnikov nell’efficace simulazione concepita da Pasternak. Lei sbirciò nella mia direzione, e fu uno sguardo rapido, di chi lascia malvolentieri un proposito maturato da poco. Gli esiti di quella storia sbilanciata, con lui molto più vecchio di lei – Komarovskij e Lara, per intenderci – ai tempi nostri l’autore non avrebbe potuto prevederli. Oggi è facile, grazie alla prova del DNA stabilire la paternità di un bambino. Che nel caso in specie non era di Komarovskij ma di Živago, ignaro di tutto perché proprio negli stessi anni le storie private di un popolo intero furono sconvolte da eventi epocali.

Uscita di scena la bibliotecaria, provai a scorrere le ultime pagine del romanzo, nel punto in cui Živago, ormai in avanzata età, dal finestrino di un autobus riconosce in una strada di Mosca la figura famigliare di Lara. Scende in affanno per poterla fermare ma è colto da infarto e si accascia per terra, mentre lei, che prosegue a passo veloce, non si accorge dell’accaduto. Chissà? Oggi Pasternak avrebbe potuto salvare il suo protagonista, pensai. Se soccorso in tempi brevi, Jurii sarebbe stato trasportato nel più vicino ospedale e sottoposto ad angioplastica, con decorso clinico normale e una degenza di cinque giorni, al massimo. Nella lettera di dimissione avrebbe trovato la diagnosi: Infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) in sede anteriore. Coronaropatia plurisegmentaria sottoposta a PTCA e impianto di stent riassorbibile (BVS) del ramo diagonale. Ma vuoi mettere il fascino che esercita sul lettore una morte improvvisa, anche se meno eroica, sopraggiunta nel vano tentativo di avvicinare dopo molti anni la donna che più hai amato nella vita?

Nella mia farneticazione ormai parlavo con Pasternak come se fosse il mio vicino. Grande Pasternak! Hai colto nel segno, dissi sottovoce. Hai concentrato la tua storia su un amore impossibile, di quelli che non concedono tregua al lettore. E visto che esiste un approccio fisiologico alla lettura, scrivendo la tua entusiasmante storia hai fatto in modo che nella mente di chi apre il tuo libro e prosegue di capitolo in capitolo, prevalga sempre l’idea, costante e tenace, della regalità dell’amore. Non sarà per questo che il tuo libro fu rifiutato nel 1956 dalla rivista «Novyi Mir» (Nuovo Mondo)? Perché parla di amore mettendo in secondo piano la figura degli intrepidi eroi sovietici? Il privato sul sociale? E non sarà per questo che ancora negli anni Ottanta nelle case-alveare volute dal socialismo reale del tuo Paese la gente trascriveva a penna su fogli volanti i singoli capitoli dell’edizione clandestina del romanzo, per poi scambiarseli, farli circolare a brani e leggerli segretamente in successione? Questo avrei voluto chiedere a Pasternak se fosse stato il mio vicino, che invece era un tipo occhialuto, curvo su un dizionario e con la mano appoggiata alla fronte per sorreggere il capo.

Richiusi il libro e lo posizionai al centro del tavolo. Mi guardai attorno. Valicando i vetri della finestra con lo sguardo fisso, non un accenno alla neve abbondante caduta di notte sulle lunghe distese della steppa siberiana, né al proverbiale disgelo che in Russia annuncia da secoli l’avvento della primavera e l’apertura alle novità. Ma solo l’idea di un sogno ad occhi aperti. Un sogno dentro al sogno, risoltosi nella convinzione di aver asseverato un’idea, se ancora ce ne fosse stato bisogno: il romanzo di Pasternak, anche se riscritto oggi, era la riprova indiscussa che la letteratura è vita.

Abbandonai così la velleità dell’eterno, perché l’eterno era lì, in quei pochi minuti ancora a disposizione per riconsegnare il libro, nei modi garbati e nella malizia della bibliotecaria da poco dileguatasi, ma che ogni giorno impastava l’infinito con il quotidiano. E capii, per la prima volta, che nell’uso dell’anima passato e presente non esistono.

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