Una famiglia da sogno
di Donato Prencipe
La porta continua a cigolare. La finestra è rotta ormai da tempo. Non c’è più legna nel camino e il vento, che furtivo entra dalla finestra, spegne il debole fuoco del camino.
Non puoi riparare la finestra perché hai le mani consunte, rotte dal freddo. Con una maglietta logora indosso, che sembra non scaldarti affatto, ti trascini al tavolo di legno posto al centro della stanza, per cercare di sorseggiare quel mezzo bicchiere di vino rimasto.
Cala di nuovo il buio, torna a cadere la neve. Alcune foglie ballano nella stanza e come duellanti i rami di quell’albero si sfidano all’ultimo sangue. Dal tavolo casca l’ultima sigaretta, raggrinzita, ma pensi ancora utile per cui ti chini a raccoglierla finendo tuo malgrado per stramazzare al suolo, proprio di fianco a lei. Le rimani vicino, la guardi mentre poggi la guancia cosparsa di barba incolta sul pavimento ghiacciato. Poi sollevi gli occhi in cerca di qualcosa o di qualcuno.
Ora il tetto divide il cielo con te, è robusto il legno che lo compone ma non abbastanza. Con le dita accarezzi i riccioli di polvere che danzano a terra. Finisci col prendere la tua sigaretta, la porti alle labbra e inizi a credere di poterla fumare senza accenderla. Fantastichi su di essa e sorridi accarezzandola con le labbra.
D’un tratto il vento cessa di spirare, quel tetto manca di esistere, non sei più sdraiato a terra ma sei seduto su di un divano di pelle nera. Le tue mani sono pulite, curate, intatte. Senti squillare il telefono, ti alzi confuso. Lo trovi poggiato su una piccola colonnina di cristallo. Ora non suona più. Ti avvicini al lavandino sistemato nel cucinino che hai di fronte, fai scorrere l’acqua, ne riempi un bicchiere e lasci che la freschezza del liquido incolore raggiunga le tue fauci. Poi torni a sederti sul divano, reclini la testa all’indietro e osservi il soffitto dipinto di bianco. Rialzi il capo e fissi la foto che hai davanti; ha una cornice argentata ed è in piedi su un mobile laccato di bianco a pochi metri dal divano: una bella casa, un giardino, un grande albero di fronte, un’altalena, due bambini che si strattonano, una donna bellissima che li guarda giocare e un uomo in camicia con una sigaretta tra le dita che sorride alla vita.
La zona era di quelle residenziali, c’erano un mucchio di case a due piani con il loro ampio giardino e il cortile recintato di bianco. Di fianco ogni abitazione vi era un grande garage e per i più amanti del bricolage anche un capanno per gli attrezzi; difatti in molti si dilettavano a costruire case sugli alberi, gazebo o altalene rudimentali. La strada separava una casa decrepita da una perfetta situata proprio di fronte, in cui l’armonia e la gioia trionfavano beate. Un signore trasandato, vestito di stracci, con una barba folta e una sigaretta tra i denti, osservava dal suo arido giardino quella famigliola intenta a divertirsi sul prato. Scrutava con occhi stanchi quella felicità sfrenata. D’un tratto vide che la donna iniziò a sventolare le braccia come per catturare la sua attenzione. Dapprima fece finta di niente, poi ricambiò il saluto di quell’amabile figura.
« Senta! − disse la donna − le dispiacerebbe scattarci una foto, per favore? »
Lui ci pensò su, poi uscì dal suo triste recinto, attraversò la strada ed entrò in quel giardino gioioso.
« La ringrazio, è molto gentile. » Disse la donna, passandogli la macchina fotografica.
« Non si preoccupi. » Rispose laconico lui.
Intanto i bambini lo scrutavano senza dire una parola, come se avessero avuto di fronte un mostro, ma un mostro di quelli familiari. Alla fine distolsero lo sguardo e ripresero a rincorrersi.
« Bambini venite qui dobbiamo farci la foto, muovetevi! »
Si avvicinarono ma non c’era verso di farli smettere di strattonarsi. « La faccia comunque, non importa. » Affermò la donna.
Scattò quella foto riuscendo a racchiudere quel quadretto famigliare all’interno di un obiettivo… insano.
« Signor Marvin, si svegli signor Marvin. » L’uomo con il camice bianco e uno stetoscopio sul collo provava a spronarlo dalla catalessi in cui era caduto.
Erano seduti l’uno di fronte all’altro. Il tizio, con indosso solo un camicione verde, aprì gli occhi e sollevò leggermente il capo farfugliando parole incomprensibili.
« Signor Marvin, si ricorda perché è qui? » Gli chiese l’uomo col camice.
« No! » Rispose scuotendo la testa.
« Non ricorda proprio nulla? » Ribadì ancora il medico.
« No… io ricordo, nulla! Perché sono qui? » Chiese a sua volta al suo interlocutore.
« Ha ucciso i suoi vicini di casa. »Affermò lapidario il medico.
Questo causò un ulteriore shock nel paziente che indietreggiò di scatto con la sedia e sbarrando gli occhi esclamò: « Che cosa? Io non ho fatto niente! »
«Ha assassinato un’intera famiglia: padre, madre, e i due figli piccoli a colpi di martello. Poi, quando ha finito è caduto in una catalessi profonda, come se avesse preso coscienza di quello che aveva fatto, subendo uno shock. È stato ritrovato svenuto sul divano. »
Inorridito da quel racconto si portò le mani sulle tempie per cercare di allontanare un’immagine persistente che aveva iniziato a balenargli in testa: una figura femminile, bellissima, che ricopriva di baci due bambini.
« Gli sta sognando, non è vero? »
« Chi sto sognando? »
« Quella famiglia, la sta sognando! »
« Io vedo delle persone, felici. » Intanto scuoteva la testa come se così facendo riuscisse ad allontanare quell’immagine che non voleva abbandonarlo.
« Mi dica che altro vede signor Marvin, si sforzi. »
« Lei… è bellissima, perfetta. E i bambini, dolcissimi. »
« E cosa fanno? »
« I piccoli si strattonano. Lei invece… è in posa. »
« In posa? »
« Sì in posa, come in una fotografia. »
Il dottore aprì una cartellina che aveva sul grembo e cacciò fuori una serie di foto, poi ne prese una in particolare e la consegnò al signore vestito di verde, dicendo: « Per caso, è simile a questa la famiglia che le appare in mente? »
L’uomo la prese in mano. La fissò, poi indietreggiò ancora con la sedia facendola stridere sul pavimento. « Come… come faccio a sognarli. Chi sono? Io non li conosco! »
« Come le dicevo prima signor Marvin, questi sono i componenti della famiglia che ha ucciso con un martello. Erano i suoi vicini di casa. »
« Io non ho fatto proprio nulla, nulla! » Gridò alzandosi in piedi, con la schiuma ai lati della bocca.
« Si calmi, signor Marvin, e si segga. » Il medico prese delle altre foto e gliele passò. Le istantanee ritraevano una casa immersa nel sangue, con quattro cadaveri che sostavano sfigurati sul pavimento. Piccoli e grandi corpi con i crani fracassati che galleggiavano in quel mar rosso, dove la vita se n’era andata per sempre. Il tizio, che nel frattempo si era di nuovo accomodato sulla sedia, non poteva credere ai suoi occhi. Prese a sfogliare quelle foto freneticamente come se volesse andare alla ricerca di un epilogo felice. Ma mentre negava e cercava di discolparsi di quell’accusa iniziò ad avvertire un odore strano, molto particolare, simile al metallo… o al sangue. E in quel preciso momento gli affiorò in mente una scena terribile: lui che impugnava un martello e a piccoli passi camminava in casa pestando sangue e materia cerebrale ovunque. Cominciò a gridare « No! No! Perché? Perché? »
« Si calmi signor Marvin, si calmi! » Provò a tranquillizzarlo il dottore.
« Cosa ho fatto? Non è vero, non posso crederci! »
« Gli sta riaffiorando tutto alla mente. Non lo respinga! »
« Mio Dio cosa ho fatto, cosa? Un massacro! Ho commesso un massacro. »
« Su, adesso provi a calmarsi e cerchiamo di venirne a capo signor Marvin. »
« Ho ammazzato tutti, tutti! I bambini, il sangue, mio Dio cosa ho fatto! »
« Non era in grado di intendere e di volere. Non è colpa sua! Ora mi dica, lei prendeva dei farmaci signor Marvin? »
« Farmaci? Non… non saprei, non ricordo! »
« Beh, dagli esami che le abbiamo fatto pare di si, che prendesse degli psicotropi, in particolar modo antipsicotici. »
« Psico che? »
« Antipsicotici. Dei farmaci per curare patologie psichiatriche. »
« Ma io non so di cosa sta parlando. »
« Ha mai manifestato la volontà di uccidere qualcuno signor Marvin? »
« Uccidere qualcuno? No, mai! »
« Perché li ha uccisi, perché ha ucciso quella famiglia signor Marvin? »
« E che ne so, io non volevo uccidere nessuno e poi perché continua a chiamarmi signor Marvin, chi diavolo è questo signor Marvin? »
Di colpo sgranò gli occhi. Era tutto sudato e ansante si mise a sedere sul letto, guardandosi intorno. Un fascio di luce entrò dalla finestra della sua camera. Tornò a poggiare la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi. Aveva fatto un brutto sogno. Poi un rimbalzo sul letto fece scuotere le sue gambe. Una bambina si avvicinò carponi sul suo petto e con le piccole dita gli tastò il naso. « Papà, sveglia! »
Riaprì leggermente gli occhi trovandosi di fronte una bambina bionda che gli sorrideva beatamente, sua figlia. « Ehi! » Le disse.
« Papà dormiglione è proprio un puzzettone. Ahahah. »
Sorrise, cercava di distogliere le immagini di quell’orrendo incubo che aveva appena fatto. Prese la bambina con due mani e la mise sdraiata sull’altro lato del letto, facendole il solletico. « Allora chi sarebbe il puzzettone, chi? »
« Tu, solo tu, ti prego basta, basta, ti prego! » Lei cercava di divincolarsi senza riuscirvi quando a un certo punto arrivarono i rinforzi: un altro piccolo nano della casa saltò sul letto e prese a tirare le braccia al padre per salvare la sorella dalle sue grinfie. « Ti salvo io Chiara. Grrrr »
« Oh guarda chi c’è, un altro mostriciattolo. Vieni qui! » Il padre si girò e catturò anche lui tra le sue braccia facendolo sdraiare accanto alla sorella. Una donna bellissima comparve sulla soglia della camera da letto con una mano sulla pancia. « Amore, mi daresti una mano? Mi fa troppo male. »
Lui fece accomodare subito la moglie sul letto. « Dov’è che ti fa male? »
« Qui, tra lo stomaco e la pancia. »
« Sarà qualcosa che hai mangiato ier… »
Con una mossa felina lei lo fece rivoltare sul letto, esclamando: « Tutti addosso! » Si mise a cavalcioni bloccandolo con la schiena sul letto e i due bambini fecero lo stesso. « No, vi prego basta, basta! » Proferì lui.
« Ti arrendi? Ti arrendi? » Domandarono i tre avversari.
« Sì, mi arrendo. Abbiate pietà di me. »
« Siiii abbiamo vinto! » « Yeah! » Strepitarono in coro i bambini e la moglie. « E adesso tutti a fare colazione! »
Una volta scesa dal letto la donna sbirciò fuori della finestra. « Ma la casa di fronte è ancora abbandonata? »
« Mah, per venderla dovrebbero prima darle una bella sistemata. È una catapecchia, cade a pezzi. » Baciò la moglie sul collo e uscirono dalla camera da letto.
Quando ebbero finito di fare colazione la moglie chiese se gli andava di montare le mensole nel salotto. « Me l’avevi promesso! »
« D’accordo! » Rispose alzando gli occhi al cielo. Andò nel salotto arredato con un divano in pelle nera, un mobiletto ai suoi piedi e una colonnina di cristallo con un telefono sopra. Prese una matita e iniziò a disegnare sulla parete bianca dei piccoli segni dove avrebbe fatto i buchi. « Amore, sai per caso dove ho messo il trapano e il martello? »
« Dovrebbero essere come sempre nella scatola di metallo su in soffitta, la usi solo tu! »
« Ok! Vado su allora. » Si recò al piano di sopra, tirò giù la cordicella che fece scendere una piccola scala in legno e ci salì. Rovistò tra le tante cose ammassate in soffitta; tra abiti, libri di scuola, attrezzi vari, compreso un tapis roulant, trovò quello che andava cercando: la scatola di metallo. L’aprì e recuperò sia il trapano che il martello. Poi vide qualcosa che lo agghiacciò. C’era una foto sul fondo della scatola. Raffigurava una famiglia felice composta da un uomo, una donna e dei bambini che si strattonavano: era la sua famiglia. Una grossa croce fatta con un pennarello rosso la marchiava. La girò sul retro. C’era una scritta: prima o poi vi ucciderò! Firmato semplicemente, Marvin.