Racconto 1° Classificato – Prima Edizione – 2018

 

Ragazza del ’99

di Debora Silvestri

 

Quando nella primavera del 1917, Piero Maffei, diciotto anni da compiere ad agosto, ricevette il foglio d’ordine che lo spediva in prima linea a frenare l’avanzata dell’esercito austro-ungarico in Val Padana, la prima reazione di Teresa, diciassette anni da compiere a Natale, fu di ridere forte.

Era fatta così Teresa, gambe lunghe e l’atteggiamento di chi cela la disperazione dentro un sorriso, abdicando al dolore con quel folle gesto di distacco. Piuttosto che martoriarsi il petto al pensiero di doverlo lasciar partire per il fango delle trincee, Teresa, che l’amava più di ogni cosa, rise di un riso tragico per quell’orribile strazio. E fu un atto quasi violento, un desiderio di rivalsa all’urto con quella realtà ineludibile, una ribellione all’ingiustizia di quella grande guerra che trasformava una intera generazione di vita nuova in gagliarde pile di cadaveri.

Tutto questo, le avevano spiegato, avveniva perché un giovane bosniaco, tre anni prima, dopo aver fallito il suo primo tentativo di uccidere l’Arciduca Ferdinando, ebbe per puro caso modo di ritrovarselo di nuovo a tiro nello stesso giorno. Una fatalità che aveva cambiato le vite di tutti.

Teresa accompagnò Piero alla stazione alle due del pomeriggio del 10 maggio 1917, un gran sole illuminava le rotaie.

La banda musicale suonava allegre note dalla cima del primo binario ma la tristezza nell’aria era una tempesta negli animi che nessuna melodia poteva placare.

Si salutarono con un cenno della mano perché altro, nel mezzo della folla, non si poteva azzardare.

E guardandolo salire sul vagone con la divisa grigioverde e gli occhi disperati per l’angoscia di doverla abbandonare, Teresa provò una rabbia lacerante, come non ne aveva mai sentita.

Guardò le mani di Piero sollevarsi accanto al suo viso, le sue dita gentili aprirsi e muoversi in un saluto fanciullesco, come di un bimbo lasciato solo sulla soglia della classe a scuola.

Ebbe voglia di corrergli incontro, di strapparlo via dal predellino in cui stava ritto, mescolarsi con lui annusandogli il profumo nel petto, prendere dalle labbra sue quel bacio che lui le aveva promesso per il giorno in cui sarebbe tornato a casa da lei.

Invece stette immobile a guardalo partire e si impose di sorridere mentre lui spariva nel vagone e, raggiunto il finestrino, prese a fissarla da dietro il vetro con commozione profonda.

Teresa restò rigida sulla banchina, mentre la folla spingeva per restare vicina al treno in partenza, tanto duramente ferma che il suo corpo vivo non gli pareva più neppure organico ma fatto della stessa imperturbabile roccia di montagna che Piero era chiamato a difendere.

Mentre le altre donne attorno a lei si misuravano in lacrime e lamenti per il destino di quei giovani che vedevano partire, Teresa si impose di rimanere sorridente, di lasciare negli occhi di Piero una immagine lieta, colma di bellezza e speranza. Continuò a fissare le labbra di lui, perfette e piene, tenendo la sua bocca dischiusa, come per un lento bacio ideale.

Quando il treno sparì nel primo tunnel e fu impossibile continuare a seguire il suo percorso, Teresa si sentì investita da un freddo improvviso.  Si voltò e si incamminò lungo i binari rabbrividendo. Strinse le braccia sul petto, le sembrava che qualcosa le scavasse in mezzo ai seni con una furia sconosciuta. Le mani strette sulle magre scapole le impedivano di dare sfogo a quel furore gelido che sentiva montargli dentro.

Si fermò all’uscita della stazione, nel chiarore di un angolo di sole. Batteva forte i denti.

All’inizio di giugno del 1918 la brigata di Piero, che era sopravvissuto a tutti gli attacchi e le battaglie in cui lo avevano spedito, fu impiegata nella difesa disperata della linea del Piave.

Teresa si aspettava ogni giorno un telegramma dal fronte, scendeva in Comune dopo il lavoro per controllare se ci fossero notizie.

La madre cercò di proibirle di avventurarsi da sola per le vie pattugliate dagli invasori, ma Teresa, le gambe lunghe, sfuggiva a tutti i controlli.

La sera del 15 giugno Teresa si incamminò verso la parte centrale del bosco, dietro le macerie del paese distrutto dalle bombe, la via più breve per scendere a valle da casa sua.

Sul finire della collina resisteva ancora un fantasma di faggeto, un bosco incenerito in cui le fiamme avevano consumato la memoria dell’ombra. Lo scheletro degli alberi era rimasto muto di ogni creatura. La vita era scappata a riprodursi altrove.

Teresa camminava svelta avvertendo la crudeltà di tutta la bellezza che la primavera, ignara, aveva ammucchiato nei prati.

Pregò che ci fosse un telegramma. Poi sperò che non riportasse la notizia che Piero fosse morto o ferito. E qui le parve di osare troppo. Sperò che dicesse che era vivo. Almeno vivo. Era tutto ciò che le sembrava giusto sperare.

Un plotone di soldati sbucò da un lato del prato e le fece segno di fermarsi.

Teresa si bloccò. Le spighe le frusciarono addosso alle gambe con un bisbiglio maligno.

Lei si voltò in direzione dei campi aperti, prese a correre veloce verso il primo cascinale, le alte spighe verdi le frenavano la corsa frustandole le ginocchia.

Sentì una mano che le afferrava le spalle e un miscuglio di voci concitate.

Quelle che udì pronunciare non le sembrarono neppure parole, solo una pura emissione di suoni eccitati dall’odio.

Non tentò nulla di disperato. Giacette a terra fissando la mutevole iridescenza del cielo ridicolizzando, sprofondata nell’erba nuova, quella parola impronunciabile a diciassette anni. Morte.

La detonazione mentale a quello sberleffo fu la capacità di sospendere la propria esistenza.

Stette così, in quella nudità umana che è l’intuizione del nulla. Inesprimibile.

Le nuvole in alto si muovevano lente.

Quando tutto finì, le sembrò che non ci fosse più d’aver paura di morire ma nemmeno niente in cui sperare. Se anche Piero fosse tornato a casa, vivo e giovane, con la sua bella bocca disegnata come solo un dio buono può disegnarla, non ci sarebbero potuti essere più sacramenti tra loro due.

E quel bacio di lui, tremante di felicità e amore, che lei tanto aspettava non sarebbe potuto più esistere.

Si fece forza Teresa e cominciò a pensare che forse Piero avrebbe compreso che quell’evento tragico che lei aveva appena vissuto non era che un pezzo della battaglia mondiale che li aveva presi tutti. Faceva parte dello stesso conflitto. Era la guerra sciagurata delle donne.

Pensava questo, quando l’ultimo soldato si sollevò da lei e la colpì con uno stilo tra le magre scapole.

Teresa restò sorpresa. Uno. Due. Tre. Smise di contare i morsi nella carne.

Si tenne il petto squarciato mentre la compagnia si allontanava e si rimetteva in marcia.

Con la faccia verso il cielo, Teresa strinse i pugni e pensò a Piero. Pregò che lui fosse vivo, sano e perfetto. E stavolta le riuscì.

Per il solo ricordo di quel suo bel viso volle piegare le labbra verso l’alto e mentre ogni cosa bella scivolava via da lei per sempre, Teresa rise.

Ma non bastava.

Morendo a diciassette anni, dovette ridere più forte.

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