Racconto Finalista – Prima Edizione – 2018

 

Caffè Mediterraneo

di Elena Panzera

 

Avevo all’incirca diciotto anni quando percorsi a piedi la lingua di cemento che, allungandosi sull’acqua, conduce all’estremità del pontile, al Caffè Mediterraneo.

Sui cioccolatini che mettevo in ogni piattino da caffè era scritto Caffè Mediterraneo, dal 1933, e anche a me, a fine giornata, sembrava di essere lì dal 1933. Invece lavoravo in quel posto da soli otto anni, un’eternità molto più misera.

Il Caffè, passato negli anni di gestione in gestione, era al tempo nelle mani di Sandro, il mio simpatico titolare determinato a farne un ritrovo cool per quella che lui chiamava “la gioventù bene” della città, ossia per ventenni magri e belli, preferibilmente iscritti alla facoltà di design o di legge. Non era stato semplice, ma ormai mi ero abituata alle sue megalomanie e riuscivo quasi a conviverci.

La sera lanciavo un’occhiata all’orizzonte. Pensavo ad Andrea, il mio ragazzo, ed ero felice quando le giornate si accorciavano e lo riportavano da me. Andrea faceva il cuoco sulle navi e stava via sei mesi all’anno.

Per il resto, al Caffè Mediterraneo le giornate si somigliavano pigramente, con le loro folate di folla. Alle cinque e trenta in punto arrivavano immancabilmente Armando e Alba, diretti al solito tavolo, sempre libero perché il più esposto al vento, proprio sul fondo del pontile. Piccolo e magro, Armando spingeva adagio la carrozzina su cui sedeva la moglie Alba, ancora bella nonostante i suoi novant’anni e l’ictus che qualche anno prima l’aveva colpita, impedendole di camminare e di parlare. Ogni giorno Armando le serviva il caffè un cucchiaino alla volta, soffiandoci sopra per non scottarla. Restavano appena un’ora, lo sguardo rivolto verso il mare e le mani intrecciate sul tavolo, e per tutto il tempo le loro figure sottili, di spalle, erano come una parte dell’orizzonte.

Forse per questo rimasi di sasso il giorno in cui sentii Sandro comunicare seccamente loro che avrebbe tolto il tavolo per installare un piccolo cocktail bar e che avrebbero dovuto scegliersi un altro posto. Armando, serafico, rispose che il tavolo era in quella posizione da più di cinquant’anni, e che Sandro poteva continuare a deturpare il locale qualche metro più in là.

Più tardi, quando chiesi ad Armando come mai tenesse tanto a quel tavolo, lui mi prese la mano con un gesto gentile e indicò un puntino lontano. “Vedi laggiù? Quella è la costa settentrionale dell’Isola d’Elba, e quella che sembra una piccola collina è Capo d’Enfola. Un tempo era sede di una grande tonnara che fino alla fine degli anni Cinquanta dava da mangiare a tutta quella parte dell’Isola.”

“Ora, cara, si dà il caso che il padre di Alba fosse un acconciatore di reti. Quando l’ho conosciuto, all’inizio del 1942, avevo vent’anni. L’esercito mi aveva spedito sull’isola per riparare un pezzo di strada danneggiata dalle bombe sul dorso occidentale del promontorio. È una strada cosparsa di un rosmarino profumato che arriva fino all’estremità della scogliera, dove fanno il nido i gabbiani reali.”
“Un pomeriggio, a pochi metri dall’Arsenale, iniziò il bombardamento. Io ero completamente esposto. Il padre di Alba mi afferrò trascinandomi giù per una botola all’ingresso della tonnara, e quando ne uscii vidi un cratere ovale proprio nel punto dove mi trovavo.”
“Le aveva salvato la vita” dissi.
Armando annuì. “Non solo: ha cambiato tutto il corso della mia vita. Quando uscimmo dalla botola, io tremavo come una foglia. Giovanni disse che non dovevo farmi vedere così scosso dagli altri soldati. Mi portò a casa sua, mi fece sedere al tavolo di castagno del cortile e disse di aspettare lì una mezz’ora.”

“Non feci in tempo a riavermi che vidi due manine piccole e bianche che poggiavano una tazzina di caffè sul tavolo. Proprio queste qui” disse sollevando la mano della moglie per baciarne velocemente il palmo. “Alba aveva diciotto anni, ed era la ragazza più bella che avessi mai visto. Da allora ogni giorno cercavo una scusa per scendere il promontorio alla stessa ora e andare a bere il caffè da lei.”

“E poi?” domandai.
“Beh, io e gli altri costruttori siamo stati richiamati qui” disse in tono amaro. “Prima di ripartire, però, portai Alba alla scogliera dei gabbiani, con le falesie piene di nidi. Il giorno addietro aveva piovuto, e il vento spandeva l’odore del rosmarino giù, fino all’istmo.”
“Le chiesi di sposarmi. Non avevo idea di come né quando. Sapevo solo che quando stavo insieme ad Alba avevo voglia di vivere.”

“Un giorno, al ritorno dall’isola, venne a chiamarmi un ragazzo dicendo che il suo capo aveva bisogno di una piccola riparazione e che mi avrebbe pagato bene.”
“Il suo capo era il signor Ferdinando, il fondatore del Caffè Mediterraneo”.
Sorrisi, mentre Armando riprendeva il racconto.

“Riparai una piccola perdita in cucina, ma uscito fuori tra i tavoli quasi mi sentii male. L’aria fresca e l’odore del caffè erano gli stessi di quel pomeriggio nel giardino di Alba. Stravolto, raccontai la storia a Ferdinando. Lui mi portò qui e disse che questo era il luogo, in tutto il litorale, da cui l’Isola si vedeva meglio, e che avrebbe fatto mettere un tavolo apposta per me, perché ogni giorno alle cinque e trenta potessi prendere il caffè e ricordarmi che ero vivo, e che finché ero vivo lo erano anche tutte le mie speranze.”
“Tre anni dopo io e Alba tornammo qui per sposarci e Ferdinando fece aggiungere una sedia,  affinché ogni caffè bevuto insieme davanti a questo braccio di mare ci ripagasse dei tanti presi da soli quando eravamo distanti.”

“Questo tavolo è la storia della nostra vita. Capisci?”

Annuii.

“E tu, bambina?” disse Armando. “Cosa ci fai in questo posto dopo tutti questi anni?”
Mi misi a ridere, arrossendo. “Io non ho nessun talento, Armando.”
Passarono tre giorni prima che mi venisse l’idea. Andrea sarebbe tornato di lì a una settimana con Giorgio, armatore della nave e fondatore di un’agenzia internazionale di bartending, nonché idolo indiscusso di Sandro. Di fatto, due giorni dopo l’attracco Giorgio si presentò al Caffè e andò a sedersi dritto al tavolo di Armando e Alba, indicatogli accuratamente da me. Sorseggiò sereno il suo aperitivo, finché, con tutta calma, chiese a Sandro se avesse nuovi progetti per il Caffè.

“Mi scusi se mi permetto” disse dopo averlo ascoltato, “ma, da manager a manager, l’ideale sarebbe installare il suo cocktail bar sull’altro capo del pontile, in modo che sia ben visibile dai ragazzi che frequentano le spiagge. Qui servirebbe solo a ostruire la vista di questo panorama mozzafiato, che, mi creda, è davvero la punta di diamante di questo Caffè.”

Sorrisi guardando Giorgio allontanarsi sul pontile a passo tranquillo, e seppi che sarebbe andato tutto bene.

“Sapete” dissi un pomeriggio ai miei due amici. “Forse ho capito qual è il mio talento.”
Armando mi prese la mano come aveva già fatto una volta. Così iniziai a scrivere. Scrissi la loro storia, la storia di tutti gli amori che trovano la strada di casa. Scrissi di un soldato e della figlia di un acconciatore di reti che si baciarono tra i nidi di gabbiani, e del caffè che li tenne uniti attraverso una guerra e una pace ai due lati del mare.

L’ho chiamato Caffè Mediterraneo.

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