Träumen
di Daniele Chiari
Il passeggino procedeva a singhiozzo lungo il viale di tigli. Demetrio faceva soste continue sotto l’ombra poderosa degli alberi e ripartiva solo quando il bimbo si metteva a frignare. Di tanto in tanto un leggero vento gli accarezzava la fronte imperlata di sudore e gli concedeva un briciolo di freschezza. Il viale profumava di fiori e la gente intorno a lui era di buon’umore.
Una signora anziana distratta, con più rughe che capelli e dal passo lento e acciaccato si stava guardando in giro quando per poco non finì contro il passeggino.
– Oh, mi scusi, – disse. – Che sbadata.
– Non si preoccupi, – rispose bonario Demetrio.
– Accidenti, che bella creatura! Come ti chiami?
– Ehi, – disse Demetrio sporgendosi in avanti – saluta. Fai ciao con la manina.
Dal passeggino non ci fu risposta e l’anziana signora se ne andò dicendo che non era nulla ma in realtà ci rimase un poco male.
Demetrio riprese la marcia, direzione casa. – Potevi salutare, – disse.
Giunto a casa, si apprestò a sistemare nel box il piccolo e ricordò che era una bambina.
– Che strano, – si disse.
Guardò la casa e la trovò diversa. Poi guardò meglio la bambina e capì che non poteva avere più di due anni, perciò anche se avesse voluto, difficilmente sarebbe riuscita a salutare in maniera dignitosa la vecchietta incontrata prima.
– Ma che diavolo…
Una bella doccia tiepida era quello che ci voleva a Demetrio per rimettersi in sesto.
A quel punto comparve la moglie, Francesca. – Tesoro, tutto bene?
– Temo di aver preso un’insolazione, cara. Avevi ragione sul portarmi dietro un cappello. Ho qui la testa che scoppia, e ho dei tali vuoti di memoria…
– Ti avevo o no avvisato che faceva troppo caldo per portare a fare un giro… come… come caspita si chiama?
– È una bambina, – disse Demetrio.
– Lo so, per chi mi hai preso?
Demetrio si fece imbarazzato e arrossì. – Bè, io nemmeno quello ricordavo.
Francesca scoppiò a ridere. – Ma che razza di genitori siamo? Uff, è questo caldo… piccola, qual è il tuo nome?
La bambina si alzò e si appoggiò al bracciolo del box, e con dei suoni gutturali provò a suggerire il suo nome ai genitori. Tentativo inutile. Demetrio si massaggiò la nuca. Ce l’aveva sulla punta della lingua, oppure non l’aveva mai saputo? Respinse con disgusto quell’ultimo pensiero nauseabondo.
Dal volto di Francesca si spense l’ultima smorfia di sorriso, e si tinse di serietà. – Dì un nome, – suggerì al marito.
– Io? Davvero? Così su due piedi non…
Francesca era in preda a una crisi emotiva. – Spara. Su, svelto – disse, e si girò verso la figlia.
– Stefania, Alessandra, Francesca… no, quella sei tu. Luisa, Valeria…
– Luisa? Ma che ti salta in mente! Non mi sognerei mai di chiamare mia figlia Luisa. O Valeria. Santo cielo, Demetrio!, – esclamò, e si mise le mani nei capelli. – Come è possibile? Ho dimenticato il nome di mia figlia! L’ho portata in grembo nove mesi, e…
Proruppero le lacrime. Il pianto, dapprima silenzioso, si trasformo in un dolore straziante e Francesca lasciò che le guance si rigassero senza avere la forza di asciugarle. Si gettò tra le braccia sudate del marito quando la crisi di pianto stava già svanendo, e lì rimasero stretti l’uno nell’altro con una sensazione di impotenza. Dal box, la bambina li guardava affascinati coi suoi occhioni marroni.
– Chiamo papà, – si convinse Francesca.
– Sarà umiliante.
– Non importa.
Si fiondò sul telefono e digitò il numero. – So a memoria questo, e non il nome di mia… Hey, ciao papà! Come va, lì? Tutto bene, eh? Meglio così. Sì, sì, anche qui va alla grande. No, non passarmi la mamma, ho solo bisogno di una cosa veloce. Una cosa… imbarazzante. Mettiamola così. Io e Demetrio non rammentiamo il nome di nostra figlia. Che assurdità, eh? Come? Chiamarla come mamma? No, papà, mi hai frainteso, non sono incinta. Una figlia basta e avanza. Come “quale figlia?” Ma di che stai blaterando?
Demetrio strappò il ricevitore dall’orecchio della moglie e riattaccò.
– Ma che fai? – disse lei. – Non stare lì impalato, va’ a controllare i documenti di nascita! Oh, siamo i peggiori genitori del mondo!
– No, amore. Calmati. Non ricordi? Tuo padre è morto due anni fa. Ho portato la sua bara, la tenevo in fondo sul lato destro.
Francesca lo guardò stranito. – Allora con chi…
Il marito, fino a un secondo fa agitato tanto quanto lei, ora le si rivolgeva con un’espressione pacata, al limite della rassegnazione.
– Che vuoi dire? – continuò la donna. – Siamo forse morti? Siamo fantasmi? Quindi è per questo che ho potuto parlare con mio padre? – disse lei con voce affranta.
– No, – rispose Demetrio e indicò la bambina – guardala. E poi guarda la casa. Ti sembra familiare? A me per niente. Guarda quelle foto sul davanzale. Non siamo noi, quella gente non ci assomiglia nemmeno. Ricordi come è fatta la nostra casa? Non è neanche la metà di questa. E poi quel box, noi mica ce l’abbiamo! Ci possiamo permettere a malapena due pasti caldi. Guarda i nostri abiti! Eleganti, troppo eleganti.
Francesca si avvicinò al davanzale. Le persone raffigurate in quelle cornici erano dei perfetti sconosciuti. Guardò il soffitto, alto tre metri, e le scale che portavano al piano di sopra. Era una villetta graziosa, non alla loro portata a livello economico. Si osservò riflessa nello specchio. Il prendisole che aveva indosso non era certo uno di quelli che si acquistavano nei grandi magazzini, e quel taglio di capelli! Che diamine le era successo ai capelli? Ce li aveva sempre arruffati e acconciati alla bell’e meglio, mentre ora erano curati e morbidi.
– Allora, che mi vuoi dire? Che siamo dei rapitori, dei… ladri di identità, o cose simili? Perché abbiamo tutte queste cose? Siamo diventati ricchi? Ti prego, spiegami perché sto impazzendo! Come mai non ricordo nulla? Ho preso qualche pasticca che non dovevo? Noi… noi non ce l’abbiamo nemmeno un bambino!
– Ma lo vogliamo.
Francesca era al limite della pazzia. – Che stai dicendo? Che diavolo vuol dire?
– Credo siamo finiti in un sogno. Forse stiamo sognando entrambi, e siamo addirittura capitati nello stesso. Come quel racconto di Marquez che ti ho fatto leggere qualche tempo fa, ricordi? Oppure siamo entrati di straforo nel sogno di qualcun altro e l’abbiamo cacciato via a calci, facendolo svegliare. Chissà.
Francesca si calmò. Davanti a lei comparve magicamente la bambina, ormai cresciuta di qualche mese. Stava sulle sue gambine, si muoveva incerta. La piccola si lanciò di corsa contro la mamma e sprofondò il faccino paffuto nel ventre di lei, e Francesca ne approfittò per carezzarle i capelli.
– Piccola mia, – disse infine, coi lacrimoni agli occhi.
– Avanti, dalle un nome.
– Non posso, – mugolò Francesca. – Ci farebbe solo più male. A meno che…
– Cosa?
– E se ci fosse un modo per ingannare il tempo e restare qui dentro per sempre?
– Avremmo dovuto pensarci prima di caricare la sveglia alle otto, – rispose Demetrio rassegnato.
– Chissà che ore sono nel mondo normale.
– Già.
– Sai, – disse infine Francesca – Alessandra è proprio un bel nome. Ti piace, Ale?
La piccola allargò le labbra compiaciuta.
– Credo le piaccia, – constatò Demetrio, con gli occhi umidi.