Racconto finalista – Seconda Edizione – 2019

Autunno e primavera

di Sandra Frenguelli

 

Era proprio stata brava sua madre a farle la sorpresa di quel viaggio e a tenerle nascosti il percorso e la destinazione. Da più di vent’anni era Ilaria a regalare un viaggio alla madre: il suo compleanno cadeva in ottobre, il mese che Paola preferiva per trascorrere qualche giorno al mare. Quei viaggi che in autunno facevano insieme da tanti anni, avevano significato molto per il loro legame, e per la riscoperta di un’intimità madre figlia sempre più profonda e preziosa man mano che Ilaria si faceva adulta. Ma in quest’occasione Paola aveva regalato ad Ilaria, per il suo compleanno che cadeva in maggio, un viaggio a sorpresa, chiedendo alla figlia soltanto di  mettere poche cose in valigia, non sarebbero state via molto. Ed il giorno era arrivato.

“Mamma, lascia che guidi io, così non ti stanchi e anzi ne puoi approfittare per riposarti un poco, sarà l’alzataccia ma mi sembri piuttosto pallida…”. La proposta di Ilaria era un sincero pensiero affettuoso per sua madre, ma naturalmente includeva il fatto che Paola avrebbe dovuto finalmente svelarle la meta del viaggio. “Non preoccuparti”, rispose decisa sua madre, “ce la faccio benissimo a guidare fin dove so io….anzi fai una bella cosa: prendi il foulard che è sul sedile di dietro e bendati gli occhi, non voglio che tu capisca niente fin quando non saremo arrivate. Anzi ho anche in mente di fare un bel gioco durante il viaggio così sarai occupata a pensare ed eviterai di impegnarti in un orientamento al buio!”. Ilaria non poteva crederci, rimase ammutolita per qualche secondo ma l’entusiasmo di sua madre era contagioso: quella donna di quasi settant’anni aveva vivacità e volontà da vendere. Ilaria raccolse con gioia l’invito, che in verità era più un ordine, e si bendò gli occhi: anche a quarant’anni suonati era bello sentirsi figlia e affidarsi alla madre. “Il gioco dunque è questo” proruppe Paola appena avviato il motore “io pronuncerò una parola e tu dovrai dirmi quale dei nostri viaggi ti ricorda, con tutto ciò che si porta dietro: immagini, sensazioni, colori, profumi, persone…insomma hai capito. Poi tu farai la stessa cosa con me. La prima parola è dunque  generoso ”. Dal subitaneo sospiro di Ilaria, Paola comprese che il ricordo era affiorato come uno zampillo dalla cantina della memoria. Ilaria disse con voce intensa: “Generoso è il nome del contadino che ci soccorse nel nostro primo viaggio quando la tua vecchia macchina ci abbandonò in una maremma prossima al mare, ma non abbastanza per il via vai del litorale. Aveva rughe come solchi di campo, guance ebbre come foglie rosse di vite e calli come zolle di terra. Tanta asprezza di aspetto si scioglieva tutta in dei liquidi occhi azzurri, quasi incassati nella pelle bruciata, ma generosi come il suo nome. Ci fece entrare nella sua casa in cui aveva solo la compagnia di due vecchi cani, sdraiati su un pavimento di mattoni scheggiati a cercare refrigerio in quella calda giornata di ottobre. Pochi mobili, poche stoviglie, e nell’acquaio della verdura al fresco. Il vino di sua produzione portava il suo nome: Generoso era scritto sull’etichetta di carta paglia incollata al fiasco. Bevvi per cortesia, appoggiando il minimo necessario le mie labbra al vetro spesso e consumato del bicchiere. Eppure se oggi dopo oltre vent’anni ricordo quell’uomo e i tanti particolari che lo riguardano, è per la bontà di quel vino che gli assomigliava. L’asprezza del primo assaggio decantava subito in un sapore di ciliegia e mora, così genuino e frizzante che conquistava gusto ed olfatto, dopo il primo bicchiere accettato con titubanza, i sorrisi sommessi e soddisfatti di Generoso a tutti i bicchieri che seguirono erano il segno del mio pieno gradimento. Ci raccontò che il vento che veniva dal mare, accarezzava l’uva e la stringeva in un abbraccio capace di ispessire la buccia così da proteggere il succo dal fuoco del sole e conservare intatta la parte zuccherina. Diceva che in certe giornate nell’afa dell’estate, sentiva l’uva attendere il vento del mare come una sposa attende lo sposo: e il mare non la deludeva, sospingeva la sua brezza tra i filari, le foglie si muovevano leggere come a seguire una musica che il mare suonava solo per loro. Volevamo comprarlo quel vino, forse per portare con noi anche la magia dei suoi racconti e la voce del mare che la bottiglia nascondeva, ma non ci fu nulla da fare, tutto ciò che avemmo fu solo un fiasco in omaggio….”. Paola la interruppe, conosceva l’inclinazione della figlia a perdersi nel passato e non voleva esagerare, così le disse “…con Generoso ti sei superata, adesso altra parola altro ricordo, sei pronta?”. Ma Ilaria rispose: “eh no, adesso tocca a me, la prossima parola per te è panta rei. “E’ facile”, disse ridacchiando Paola “e mi fa piacere scoprire che vuoi farmi ricordare uno dei luoghi che amo di più. Panta rei è la piccola barchetta a remi con cui ti feci conoscere la grotta che io chiamo “della fedeltà” sulle isole Tremiti. Non ho mai saputo se avesse un nome ufficiale, forse non ho mai voluto saperlo per poter continuare a pensare che nessuno l’avesse ancora scoperta e potesse essere solo mia, anzi nostra visto che l’hai conosciuta anche tu. La chiamai “grotta della fedeltà”, perché percepivo che quel luogo era sempre rimasto fedele a se stesso. L’uomo non poteva alterarne la natura e l’aspetto: poco ospitale, si entrava solo con la bassa marea e poco rassicurante per l’oscurità delle volte ed il rumore sordo delle acque che si infrangevano sulle rocce irte di spunzoni. Quell’antro che non invitava ad entrare nascondeva una trasparenza assoluta, si aveva pudore a toccare l’acqua come se persino una mano potesse contaminarla. Restammo in silenzio dentro la panta rei che assecondava il movimento delle onde, commosse da quella bellezza che si conservava fedele dalla notte dei tempi perché noi, fragili e beati essere mortali, potessimo ammirarla. Mmmh difficile continuare il gioco dopo un’immersione così bella, ma su, ora tocca di nuovo a te, la prossima parola è paradiso.” Ad Ilaria sussultò il cuore a quel ricordo, con emozione disse “Vuoi farmi commuovere, eh? Non c’è proprio pericolo che io abbia la minima idea di dove siamo finite ormai, con questo gioco mi hai proprio fatto perdere ogni orientamento… dunque, Paradiso è l’alberghetto in cui soggiornammo all’Isola d’Elba: una sera sotto al portico, di fronte ad un tramonto struggente, ti confidai di essere incinta. Dal mio sguardo comprendesti la mia inquietudine e la paura: con mio marito era un brutto periodo e pensavo fosse il momento peggiore per un figlio. Quasi seguendo il ritmo calmo del mare che avevamo di fronte, mi raccontasti della tua stessa paura quando poco più che ventenne rimanesti incinta di me. Anche in quell’occasione, prima ancora di confidarlo a papà, scegliesti di partire da sola per qualche giorno per parlarne prima al mare. Una mattina mentre camminavi lentamente sul bagnasciuga cercando di ascoltare il sussurro delle onde che ti lambivano i piedi, comprendesti che la tua paura di avere un figlio derivava dal fatto che stavi vivendo proprio come camminavi: il mare era la vita e tu gli stavi camminando accanto, consentendogli solo di sfiorarti, piuttosto che andargli incontro per immergerti in essa. Così come ti trovavi, con un bermuda ed una maglietta, ti girasti di novanta gradi e cominciasti ad entrare nell’acqua fresca del mare in ottobre. Insieme all’acqua sentivi che sul tuo corpo saliva la vita.

Appoggiai un po’ smarrita il capo sul tuo seno, come a cercare quella forza. Forse la trovai o forse ce l’avevo già, fatto è che niente più di quel mare dai riflessi dorati, limpido e misterioso, instancabile nel suo rumoreggiare ogni volta diverso, simboleggiava meglio la vita. Ti lasciai sul portico e gli andai incontro. Nove mesi dopo nacque Beatrice: quella meraviglia di ragazzina che questa mattina prima di partire mi ha detto “guarda che ormai sono abbastanza grande per entrare nel club esclusivo dei vostri viaggi…il prossimo vengo anch’io!”. A Paola si inumidirono gli occhi, non vista da Ilaria lasciò che una lacrima le rigasse il volto.

Il viaggio continuò con altre parole, altre memorie, altre emozioni: l’abitacolo dell’auto si popolava in ogni racconto di volti, immagini, sensazioni così reali e vive che tempo e spazio erano annullati in un unico presente. Ad Ilaria venne spontaneo dire: “Sai mamma, questo foulard che mi impedisce di vedere è proprio un regalo, tutto mi scorre dinanzi agli occhi senza distrazioni, mi sento completamente immersa in un fantastico viaggio nel tempo….Ma piuttosto, ormai di strada dobbiamo averne fatta un bel po’, ah sento che stai rallentando, dunque dovremmo essere a destinazione, ti confesso che non so cosa aspettarmi dopo il più bel viaggio che tu potessi regalarmi…quasi, quasi mi dispiace sbendarmi”. Paola sorrise: “eh sì, siamo proprio arrivate, puoi tornare a vedere”. Ilaria si tolse lentamente il foulard dagli occhi e li tenne ancora per qualche secondo chiusi; riappropriarsi del presente richiedeva calma e concentrazione. Ma di nuovo Paola era riuscita ad ammutolire sua figlia: Ilaria rimase sospesa tra lo sconcerto, la confusione e la meraviglia. Erano tornate a casa. Sua madre aveva guidato per oltre 5 ore, avevano rivissuto insieme 20 anni di viaggi e quindi l’aveva ricondotta al punto di partenza. Intuì che il momento richiedeva una comprensione muta. Osservò la stanchezza nel volto di sua madre, le occhiaie nel pallore del suo volto e una piega dolorosa nell’espressione dello sguardo. Fu Paola ad interrompere quel silenzio di sguardi: si avvicinò ad Ilaria, prese tra le mani il volto della figlia, lo accostò lentamente al suo seno. Ilaria si abbandonò a quel gesto, quel seno le dava ancora conforto ma non si spiegava perché non riusciva a toglierle la paura che in pochi attimi le aveva invaso il cuore. Paola, con la voce ferma ma definitiva le sussurrò: “continua tu il viaggio, Beatrice sa”. Ilaria chiuse gli occhi, cercò il foulard per coprirseli, sua madre cercò quella mano per stringerla nella sua.

Paola concluse il suo viaggio all’inizio dell’autunno, negli ultimi giorni della sua malattia di quando in quando, sussurrava: “sto come d’autunno sugli alberi le foglie…ho sempre preferito viaggiare a fine stagione.”

Nell’ottobre di quell’anno Ilaria partì con sua figlia. Dal cruscotto dell’auto Beatrice tirò fuori un foulard. Ilaria lo strinse tra le mani, avrebbe voluto di nuovo bendarsi gli occhi e ricominciare daccapo gli ultimi vent’anni.

Ma Beatrice la richiamò di scatto e le disse “ah, mi è venuta un’idea. Io mi bendo gli occhi con il foulard e tu mi racconti il mare…anzi mi sa tanto che ne hai molti da raccontare. In fondo, siamo solo all’inizio”.

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