Racconto finalista – Seconda Edizione – 2019

Il tempo di uno sguardo

di Anna Elisa De Gregorio

 

“non una parola viene, ma il pensiero di finestre alte:
il vetro che assorbe il sole,
e, al di là, l’aria azzurra e profonda, che non mostra
nulla, che non è da nessuna parte, che non ha fine.”

Philip Larkin, Finestre alte.

 

Il mio corpo è composto di silenzio e soprattutto di segreti, un’architettura di segreti. Chiuso, davanti agli accadimenti di queste ore, come una casa con i muri a nuovo che sanno nascondere qualunque cosa accada nelle camere interne, nei corridoi, dove vivono protetti i pensieri, le paure, le domande.

Il mio corpo di adolescente non si scandalizza, non si spacca in due dal dolore, quando mia madre muore, bianca sui cuscini di questo enorme letto adesso e in quest’ora, su uno sfondo d’oro che raddoppia il tramonto e la primavera fuori dalla finestra, ma resta uguale a prima che entrassi nella stanza. L’ho scoperto adesso e in quest’ora, guardandomi allo specchio dell’armadio a tre ante, situato di fronte alla porta dove si riflettono immutati i miei occhi, il mio naso, la mia bocca. Sposto lo sguardo sulla trapunta azzurra ben tesa sul letto, poi sulla stufa in terracotta vicina alla finestra. Fa ancora freddo, l’inverno sembra voler restare in casa nostra oltre il consentito.

Mia madre abita un luogo della mia mente a metà fra la terra e il cielo; ha il corpo piccolo di una farfalla, con grandi occhi verdi, che è vietato toccare, accarezzare.  Un corpo senza peso, malato. La sua malattia non ha un nome, è avvolta nel mistero e nel silenzio: penso a uno speciale dono, a un’attitudine per pochi eletti, di passaggio nel mondo umano.

Raramente, quando il tempo è clemente e quando mi viene concesso, posso uscire con lei per brevi passeggiate affannate, lente e bellissime: sono alta tanto da poterla sostenere con il braccio. In quei momenti faccio con lei la parte dello sposo. Chiacchieriamo in piccole soste davanti alle vetrine, fingendo interesse per gli oggetti esposti, perché lei possa riprendere un po’ di fiato.

Sono stata io a farla morire: questo il pensiero semplice, solitario, mai confessato a nessuno, che mi ha appena attraversato la fronte. Avrò anni di tempo per renderlo logico, solido, inattaccabile.

Mai è stata pronunciata la parola tubercolosi dalla mia famiglia. Un generico “soffre di cuore” cerca di tacitare la curiosità di parenti e conoscenti che più di me fanno domande.

Solo fra quarant’anni saprò che mia madre è morta per le conseguenze di una tubercolosi, contratta dopo la mia nascita e allora impossibile da guarire.

È stata sufficiente un’influenza, che una settimana prima avevo superato con poca febbre e in pochi giorni, per spezzare il suo respiro già sofferente: un virus devastante, (si parlerà per lungo tempo della pandemia di “asiatica” del cinquantasette) che ho trasmesso a mia madre portandolo a casa da scuola. Un peccato scontato in segreto per tutta la giovinezza.

Una stupida muffa, che prenderà il nome di penicillina, non è arrivata in tempo a salvarla.

Sono ancorata al pavimento della stanza in un tempo solido, quasi una pedina che può essere spostata, come nel gioco dell’oca, nella casella del minuto dell’ora, del pomeriggio. Incerta su ciò che sta accadendo o è già accaduto.

Torno con gli occhi sui cuscini che sostengono una testa piccola, con i capelli scuri: appartengono a una persona che non riconosco, sospesa in un silenzio non alla mia portata. Quella stanza che pensavo la più fortunata delle stanze, è diventata la più estranea, la più nemica. Percepisco intera la vischiosità dello spavento, ma il dolore mi manca, come mi manca il respiro. Allora vòlto le spalle al letto e guardo un ragazzo che passa in strada, che non sa di essere guardato, al di là delle finestre alte sulla piazza. Parte dai miei occhi una freccia che trapassa precisamente il suo cuore: vorrei che cadesse a terra sanguinante per la ferita, che si mettesse a urlare, che alzasse la testa verso di me. L’aria è dorata e profonda, non mostra nulla, e questo mio corpo resta quello del minuto prima, dell’ora prima, del pomeriggio prima.

Abito una città, che vive la bellezza e la rispecchia proprio come La Città Ideale, che sono costretta a guardare, con inquietudine crescente ogni sera, sulla parete di fronte al mio letto: unica stampa che mio padre ha scelto e ha appeso nella stanza dove dormo, incorniciata da un filo di legno marrone intagliato a piccole foglie. Una bellezza che mi respinge e mi richiama: non un cielo, non una stella, né un sole in quel biancore innaturale che sembra diffuso da una lampada al neon, da un grande occhio impassibile. L’unico sollievo è nascosto nella piega di un cornicione di uno dei palazzi sulla sinistra: due colombi muti, bianchi sul bianco, minimo disegno di vita nel tempo immobile del quadro. La mia camera (mia e di mia nonna, in verità, perché non sono padrona di niente in questa casa) sembra lo studio di un notaio con mobili scuri, di foggia antica: una sedia di pelle imbottita, una grande libreria a vetri con tendine rigide all’interno color rosso bordeaux e due lettini alla turca accostati alla parete più lunga. Sul tavolo completamente sgombro non ricordo di aver mai fatto i compiti. Un regalo recente di mio padre: vedrai che sorpresa per il tuo compleanno, una sorpresa degna di una signorina.

Il suo prossimo regalo sarà un servizio per scrittoio in pelle color rosso bordeaux da sistemare sul tavolo.

Questi mobili sono opera di carcerati, che lavorano nelle prigioni di Firenze, o forse di San Gimignano: mio padre ha tenuto a farmelo sapere. Pensa di aver fatto un’opera meritevole comprandoli? Il suo vuole essere un esempio di bontà? Posso solo intuire di sì, ma non è lui a darmi spiegazioni e non sono io a chiederle: da allieva sono diventata maestra di silenzi, come lui, come tutti in casa.

Appena spengo la luce vedo una folla di esseri in catene che segano e intagliano quei legni scuri. Non ho mai visto dal vero una prigione, l’ho solo immaginata come una grande gabbia appesa al cielo con gli interni inaccessibili. In francese gabbia si dice cage; lo dico e lo ripeto a voce alta: caaage.

Mia madre usa spesso parole francesi: Senti che musicalità, che dolcezza ha questa lingua… Insieme leggiamo e traduciamo, stando sedute l’una di fronte all’altra, sul tavolo di cucina, le poesie di Jaques Prévert per brevi, incantati momenti prima di cena: I ragazzi che si amano si baciano in piedi…

A volte gli amori arrivano per strade misteriose, il mio amore per la poesia e per ogni storia scritta, comincia da quel tavolo di marmo in cucina, da una antologia scolastica con la copertina gialla, cartonata, dai suoni delle parole, che mia madre pronuncia scivolando sulle esse, sulle ci, sulle gi, dal suo raro sorridere e dalla sua rara presenza. Mia madre resta per la maggior parte del giorno nella sua stanza, dove quasi mai posso entrare.

Siena, la città, che amavo, della quale mi fidavo… Da lei non potrà venire nulla di male, pensavo. E anche lei resta muta davanti alla morte di mia madre: non una slabbratura nelle strade, nelle chiese, nei giardini, lungo il viale verso il cimitero, dove la forsizia e la mimosa continuano a fiorire. Come me, come le carceri, come La Città Ideale, anche la città che abito, sa essere una grande, segretissima maschera.

Nella nostra casa dove mai viene qualcuno a trovarci, lungo tutto il pomeriggio un via vai di persone frantumate, senza lineamenti; dove è sempre stato il silenzio a fami compagnia, un parlottare trattenuto di esclamazioni, di interrotti interrogativi; dove da sempre ha regnato una penombra discreta, all’improvviso una luce inappropriata contro le pareti.

Vengo accompagnata, lontano da quei visitatori di circostanza, a casa di amici, strappata via dalla stanza, dalla casa. Non rivedrò più mia madre.

Esco dalla porta, scendo le scale, arrivo al portone e poi sulla strada con le mie scarpe, camminando con lo stesso passo, con addosso gli stessi vestiti. Nessuno si volta, nessuno mi guarda: capisco che, per questi nessuno, niente è accaduto.

Una certezza che ancora una volta mi dà conforto, mi fa sentire inattaccabile. Io, che non possiedo neppure i miei libri e i miei quaderni ogni giorno ispezionati, svelati, violati, sono padrona di queste gambe, capelli, mani, piedi.

Nessun singhiozzo, nessuna lacrima.

Sono l’orfana al centro dell’attenzione, ospite in una casa più buia e fredda della mia. Durante la cena una gentilezza venata di compassione. A tavola mangiamo asparagi che non ho mai mangiato. Mi accorgo di avere fame e la sensazione che la mia fame sia fuori luogo è come una puntura: mia madre è morta appena ieri. Vorrei limitarmi a pochi bocconi, invece voracemente mastico le uova e il pane.  E soprattutto gli asparagi: le due figlie dei nostri amici mi insegnano come mangiarli, lasciando nel piatto la parte più fibrosa.

Dopo cena, la proposta, da parte dei miei ospiti, di fare insieme un gioco. Ci vuole la penna per scrivere i punteggi: un blocchetto di carta e una biro sono sul tavolo.

La penna biro è una cosa rara da possedere, non ne ho mai avuta una. È un’invenzione francese, ancora non così comune da noi. Alla fine della serata la metto in tasca e poi la nascondo nella cartella.

Dormo con gola, stomaco, braccia e gambe in tensione, ma senza troppo dolore: ho fatto uno scambio, un contratto col mio corpo.

Ci penseranno i sogni a riportarmi al giorno prima, a due giorni prima, come una inesorabile lente d’ingrandimento: sono all’interno della Città Ideale, sono io stessa la Città Ideale. Lisci i muri dei palazzi di pelle imbiancata, senza una scalfittura, dai quali non riesco a uscire. Apro spiragli di portoni, occhi che mi servono per spiare fuori e non per accogliere il nessuno che mai si muoverà nel dipinto.

Hai per caso visto la penna biro?

No, rispondo decisa, con un batticuore invisibile, che scuote fino in fondo la spina dorsale, senza un cenno di rimorso, poi vado a scuola portando la mia penna nuova.

Il funerale di mia madre si riduce al tempo di uno sguardo: i miei occhi incontrano quelli di un compagno di scuola delle elementari dimenticato e gentile che arriva in ritardo, un po’ curvo per l’imbarazzo. Un cenno di saluto, nemmeno un sorriso. Camminiamo vicini nel breve corteo verso il cimitero e penso che non è lui che dovrebbe stare accanto a me. Guardo il suo profilo insignificante con un naso sgraziato, i calzoni troppo corti e non faccio nulla per nascondere il fastidio. Mi sento in diritto di essere scostante.

Le stanze grandi, dopo il mio ritorno a casa, molto più di prima, il silenzio più pesante e così la penombra delle persiane costantemente socchiuse. L’impressione è quella di aver perso parte della vista e dell’udito: non vedo mia madre, non sento i suoi passi, e non potrò più farlo.

Estranea al tempo, che scorre del tutto fuori di me, ho dentro di me la certezza che nessuno scoprirà il mio segreto: il corpo, complice della bugia e duro come la mia rabbia, non sa riconoscere il dolore e la liberazione del pianto; non sa recuperare la tenerezza di mia madre per farla sua, almeno in parte, almeno il tempo di un sospiro di sollievo. Non riesco a ritrovare il filo delle parole della poesia, che avevo imparato ad amare perché lei le amava, in quel gioco di specchi sottile e necessario che dà senso ad ogni rapporto.

La famosa penna biro avrà i giorni contati: una mattina scopro che l’inchiostro oleoso, impossibile da cancellare, è colato fuori sporcando le altre penne e l’astuccio: una piccola nemesi che forse mi aspettavo.

Ricomincerò a scrivere a distanza di due anni, percepiti come un mazzetto di giorni caliginosi e smarriti, in un’altra casa, in un’altra città, in un’altra vita. Poche frasi aspre all’inizio su un diario avaro e segretissimo, qualche verso sùbito cestinato, poi sempre più spesso conservato.

 

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