Premio Speciale dell’Associazione

Per sempre

di Rosella Guglielmetti

 

Tornando a casa dall’università, la ragazza si ferma a una panetteria e compra una fetta di torta al cioccolato. È il suo modo di coccolarsi dopo un esame sostenuto a pieni voti. Sa che dovrebbe gioirne, un 30 e lode in filosofia non è da tutti, e allora perché questa insidiosa malinconia, questo senso di vuoto? È appena uscita da una fase tormentata di incertezza nella quale è stata tentata di cambiare facoltà, dal momento che tutto quel riflettere in astratto le appariva come un sogno avulso dal reale, una collezione di principi ideali, elaborati e organizzati in schemi spacca cervello. Poi si è decisa: affrontiamolo questo rompicapo di Heidegger, se ci sono riusciti altri, ci riuscirò anch’io. E adesso? Adesso si sente più vecchia. Eppure è trascorso solo un giorno, cos’è successo? Forse il fatto che la nostra vita finisce ogni minuto che passa, perché ciò che ci si  lascia alle spalle è perduto per sempre e ogni volta si  invecchia un po’, si muore un po’?  E dove se ne va quello che si perde?

I pensieri accorciano il tempo e la strada. La ragazza è quasi arrivata, intravede il palazzo e la figura bassa e tarchiata del custode davanti al portone. Appena si avvicina l’uomo le fa un cenno: sì, sta aspettando proprio lei, avrebbe un po’ di tempo?  Sospirando, lei gli risponde che sì, ne ha ancora un po’ da regalare.

Se solo riuscisse a capire il problema. Il custode è talmente agitato che non controlla più il tic all’occhio sinistro e si mangia una parola su tre. Si tratta dei signori dell’interno F 15. Lui le chiavi di quell’appartamento le ha, ovviamente, ma di entrare da solo non ci pensa proprio, dato che l’odore che ne esce non lascia presagire niente di buono. Il fatto è che non rispondono neppure al telefono. Se ha chiamato i parenti? Oh, c’è solo una figlia che non vive nemmeno qui, e comunque si è già messa in viaggio. Nel frattempo l’ha autorizzato a entrare. I vigili del fuoco? No, non è il caso, potrebbe essere soltanto un problema con gli scarichi, trattandosi di due anziani, magari un po’ così… E si tamburella la fronte con l’indice. Ma lei, la giovane ragazza, lei è così in gamba, ed è anche l’unica persona disponibile nel caseggiato, le dice.

Nel breve tragitto attraverso il cortile, le riferisce il poco che sa di quella coppia fin troppo riservata. Che il marito è un ex dipendente delle Ferrovie dello Stato, che la signora dava lezioni di pianoforte, che dal cortile l’ha sentita suonare fino a pochi anni prima e che li vedeva uscire insieme per andare al supermercato. Poi, a un tratto, sono come spariti dalla circolazione. E a poco a poco, l’aria sul pianerottolo è diventata irrespirabile.

L’odore non è di gas, per fortuna, ma si astengono comunque dal suonare il campanello. Dopo aver bussato insistentemente senza che ci sia risposta, il custode si decide a usare la chiave.

La porta si apre su un locale immerso nell’oscurità e nel silenzio. Attraverso le persiane chiuse sul mondo e rotte in più punti, l’ultima luce del tramonto disegna una strana figura sul pavimento.

L’uomo si copre il naso con un fazzoletto. Per l’amor di Dio, manca l’aria qui dentro.

La finestra, subito spalancata, rischiara un ambiente che deve essere la cucina. È infestata da insetti. Una colonna di formiche parte dall’esterno, percorre il muro, il mobiletto e arriva dritta a un barattolo che forse una volta conteneva dello zucchero e adesso è completamente nero. Al centro del tavolo, rivestito da una cerata dove i motivi floreali si distinguono appena dai resti di cibo secco, c’è un piatto colmo di mele marce, sulle quali vaga, come un’aureola, una nuvola di moscerini. Al di là di una porta aperta c’è un’altra stanza che si perde nel buio. Avvicinandosi, la ragazza intravede pochi mobili massicci e scuri e in fondo a destra, al centro di una poltrona monumentale, due occhi celesti che risplendono come fiamme di candele.

È una signora molto anziana, sugli ottanta e più, di corporatura esile. Indossa un abito di crêpe beige slavato che forse un tempo è stato bianco e che le copre completamente le gambe ossute, lasciando spuntare le scarpe di vernice con il cinturino. I capelli, d’un bianco sporco, sono pettinati con una scriminatura al centro della testa e scompaiono dietro, forse in una crocchia. Le mani posate in grembo sono due pallidi ossicini. Ma la cosa più impressionante è la pelle del viso: ogni centimetro è coperto di rughe sottili che la rendono quasi trasparente, come ali di libellula o sottile vetro scheggiato. Potrebbe sbriciolarsi da un momento all’altro, pensa la ragazza. C’è nel suo aspetto qualcosa di immateriale e di fragile. Un sogno. O un miraggio.

Il custode si giustifica. Erano preoccupati, ecco perché si sono permessi di entrare, ma lei, lei signora, cosa accidenti combina?

Ha un tale tono di voce che la ragazza gli allunga un’occhiataccia.

L’altra li guarda stranita, è evidente che non attendeva visite né s’aspettava che qualcuno le piombasse in casa così, e tuttavia regala loro un sorriso. Sono forse venuti per la cerimonia? domanda. E con una vocina leggera quanto lei, ma un po’ più tremolante, aggiunge che non è ancora pronta, che deve andare subito in bagno a cambiarsi, ma prima deve separare i panni scuri da quelli chiari, così i colori non si mescolano, dice, e poi il latte, oh sì, il latte gli deve dare.

La ragazza cerca di rasserenarla: certo, può andarci benissimo e faccia tutto con comodo perché non c’è fretta, che stia tranquilla, perché loro hanno tempo, vero, signor custode? Lui è già passato nell’altra camera, e la sta chiamando, ma senza gridare, con voce strozzata: venga a vedere, dice.

La signora si alza, lentamente, e avanza verso una porta. Davanti al suo incedere, che ha qualcosa di principesco, la ragazza non osa parlare. La signora stessa non dice nulla, solo le permette di tenerle la mano, trasmettendole il suo lieve tremore alla punta delle dita.

Nel bagno, il pavimento è appiccicaticcio, il rubinetto del bidet gocciola e i sanitari hanno croste di ruggine e di sporcizia. Ci sono panni sporchi ovunque, perfino nella vasca. Alla ragazza si stringe il cuore. Deve essere un posto ben sbagliato il mondo, se può permettere che tutto questo accada nella più totale solitudine. Eppure, in questa donna c’è una rara dignità, come se le sia concesso di fare ogni cosa.

Ma il custode insiste: venga dunque, c’è qualcun altro qui. La ragazza lo sa già. L’ha indovinato dall’odore di morte che satura l’appartamento.

L’uomo è sprofondato in una poltrona foderata di chintz. Una figura silenziosa e immobile nella stanza da letto, composta e solenne come in un quadro di van Dyck. Indossa una camicia bianca abbottonata fino al collo, una cravatta color perla fissata con una spilla e un paio di pantaloni grigio fumo con righe sottili più chiare. Guarda fisso davanti a sé con occhi di vetro e la sua pelle, che s’indovina fredda come il sasso, sta già virando dal bianco al blu. Le labbra sono serrate e tirate in un sorrisetto malizioso.

La ragazza ha la bocca asciutta e un fastidio in gola. Darebbe qualunque cosa per un bicchiere d’acqua fresca ma non osa toccare nulla, lì dentro. Fissa la giacca posata sul grande letto di ferro battuto: sembra preparata per essere indossata.

Pronto, pronto, il custode sta chiamando il 118 con il suo cellulare.

Ma non capisce che deve parlare sottovoce?

La signora è ancora in bagno e non la smette di bofonchiare. Ha forse bisogno di aiuto?

Oh, com’è gentile, le risponde l’altra. È così faticoso, ci sono sempre tanti bottoni! E le gambe, le braccia…le mani le tremano un po’, lo sa la ragazza?

Si è  messa un lungo soprabito blu tutto stropicciato che le cade dritto fino alle caviglie e in testa ha un cappellino nello stile inglese del primo novecento. Sorride, e la ragazza le ricambia il sorriso: è elegantissima, signora. E poi, indicando la camera con un cenno del capo, le chiede se il signore di là è suo marito. E da quanto tempo è così.

Dorme, si limita a rispondere la donna, non lo si deve disturbare, ci pensa lei a dargli il latte. Raggiunge la poltrona e si siede di nuovo nello spazio incantato del suo sogno, come in un immaginario giardino, tra rose profumate.

Il custode insiste: per favore, adesso deve ascoltarlo, e non abbia paura.

La ragazza vorrebbe dirgli che la dolce signora non è per niente spaventata, dal momento che la vita le è del tutto indifferente.

Eccola che si alza di nuovo e, camminando a piccoli passi un po’ trascinati, si dirige alla cucina. È come un fiore che galleggia su uno stagno. Prende un pentolino incrostato di bianco dallo scolapiatti e lo posa sul fornello. Ma non c’è latte nel frigorifero. Ha dimenticato di fare la spesa, dice come parlando a se stessa, ma forse c’è ancora del pane avanzato. Apre un altro stipetto dove c’è di tutto, anche un pullover. Le cipolle, dove sono le cipolle, domanda all’aria, e poi tace, come se il disco si fosse fermato. Il suo sguardo si perde per qualche istante nel suo sogno privato e poi, senza una ragione apparente, si posa sullo scompiglio delle formiche che fuggono a nascondersi nelle fessure. Le teste d’aglio ci vogliono per queste, dice rivolgendosi alla ragazza.

D’un tratto si mette ad annusare l’aria. Cos’è quest’odore, lo senti anche tu, Nando? Come di brodo rancido. Sapete, è un po’ sordo, continua ammiccando al custode, e intanto prende uno straccio logoro e bisunto dal lavello e lo bagna al rubinetto. Gocciolando ovunque, passa in camera. Bene così, Nandino? sussurra passando il cencio sulla testa calva del marito. Devi essere fresco, oggi è il nostro giorno, oggi siamo sposi.

Poi passa a rinfrescare il collo bianco e molle, indugiando in gesti lenti e meccanici, come accarezzandolo. Hai le ossa fredde, si sa, alla tua età il caldo non si sente più e si fa fatica perfino a respirare. Eh, Nandino, va meglio così?

Come si fa a dirle che il tempo è scaduto, si domanda la ragazza, come si fa a separarli, adesso? Con un groppo di commozione in gola, si allontana da quella scena d’intimità e va ad esplorare l’appartamento, con discrezione. È stranamente spoglio, sia di mobili che di suppellettili. Che fine hanno fatto le cose di tutta una vita? E dov’è il pianoforte? In un angolo vede un cestino colmo di carta straccia. Sono foto strappate in mille pezzi, ecco dov’è finito il passato. E in casa non ci sono neppure orologi, né specchi, nulla che possa riferirsi allo scorrere del tempo. Le viene in mente una frase, che ha letto non sa più dove: Ci vuole una vita per imparare a vivere e ci vuole una vita per imparare a morire. E le pare, adesso, di assistere a qualcosa di incomparabile, il momento in cui le cose si connettono tra di loro. La vita, la morte, il tempo.

Dalle scale giunge un gran fracasso, voci, passi, il rumore di una barella posata sul pavimento. Il custode è andato incontro ai volontari del 118. Sono venuti a prenderla. Adesso che ha raggiunto il suo paradiso, la tirano fuori per riportarla all’inferno. Il mondo viene a salvarla per poterla compatire.

La signora, in piedi in mezzo alla cucina,  non pare curarsene. La sua anima è quieta come un tranquillo specchio d’acqua, pensa la ragazza. E come sembra piccola, per aver sfidato il tempo. All’uomo della sua vita ha fatto il dono più grande: non gli ha permesso di trasformarsi in ricordo. Per esistere in eterno, uniti per sempre in quello che per lei è il giorno più bello.

È arrivata la figlia. La ragazza la raggiunge all’ingresso. Vuole prepararla, ma l’altra ha già saputo del decesso dell’uomo e delle condizioni della donna. Non è mia madre, s’affretta a chiarire, vive con mio padre da quando è rimasto vedovo. E non si sono mai sposati.

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