Le due torri
di Bruno Melis
Il profumo del vitello messo a cuocere nella grossa pentola di terracotta con patate, carote e cipolle e delle spezie trovate in qualche campo o chieste ad alcuni parenti prese possesso della grossa stanza, ormai l’unica abitata dalla famiglia Nassir. La ricerca degli ingredienti per il piatto preferito dei due fratelli, Taahir e Yoosuf, inizio diversi giorni prima. I due genitori desideravano che i loro due figli, nati lo stesso giorno ma a due anni di distanza, potessero festeggiare il loro compleanno. Probabilmente l’ultimo tutti insieme. Da quasi tre anni l’intera nazione era stretta nella morsa di una sanguinosa guerra civile, orchestrata da potenze lontane, per il controllo di una regione ritenuta strategica. Migliaia di persone finirono vittime di danni collaterali a seguito degli scontri tra l’esercito regolare e le fazioni indipendentiste, distanti nei principi di guerriglia ma unite dalla volontà di non voler alcuna ingerenza esterna sulle terre che furono dei loro antenati. Col passare dei mesi le derrate alimentari scarseggiarono, l’acqua fu razionata, l’elettricità fornita a singhiozzo. Solo la compattezza tra familiari e amici permise che non morissero altre persone.
La grande casa del professore, composta da otto stanze, fu divisa tra otto famiglie. Queste aiutarono il professore e sua moglie per far trascorrere una giornata felice per i futuri ricordi dei due ragazzi. Il pranzo trascorse all’insegna dei sorrisi e del buonumore, tra chiacchiere affettuose e discorsi profondi, tra la visita di un amico e gli abbracci dei parenti. Giunse il momento della consegna dei regali. Il padre estrasse dalla tasca della giacca una stoffa azzurra arrotolata e la porse ai due festeggiati. Essi la svolsero e vi trovarono due torri da scacchi, abilmente scolpite a mano da un ceppo di cedro dell’Himalaya. Fiere e statuarie come le montagne che circondavano il paesaggio del loro villaggio. “Taahir, Yoosuf, oggi diventate ancora più uomini. Come ho cercato di insegnarvi attraverso gli scacchi, l’unico luogo dove gli uomini devono darsi battaglia è su una scacchiera. Nella sua semplicità è la regina della logica, della strategia e della spietatezza. Nulla è lasciato al caso, tutto va ponderato, nonostante a volte si debbano compiere dei sacrifici.” I due ragazzi, quasi adolescenti, strinsero ognuno la propria torre e guardarono rapiti il padre. I loro quattro occhi verdi avevano imparato a vedere tutto con qualche mossa d’anticipo e dai loro occhi scesero silenziose delle impercettibili lacrime. Nel silenzio che si era venuto a creare, eccetto che per l’eco di sporadici spari provenienti dalla valle, il padre riprese la parola. “Questa vita concessaci va giocata come una partita a scacchi. Tra non più di due o tre giorni, l’esercito da nord e i ribelli da sud si affronteranno in questo villaggio. Voi domani partirete. Ci sono due camion che lasceranno il paese, uno andrà a Dushanbe e l’altro a Ludhiana. Vi dovete salvare, ma lo potete fare solo dividendovi.” I due ragazzi sapevano già quale sarebbe stata la risposta ma non poterono trattenere la domanda che stava strozzandoli. “E tu e la mamma dove andrete?” L’amore non va raccontato con delle rime né va spiegato dentro a saggi di psicologia. Esiste nel momento in cui si manifesta. Il modo in cui la madre guardò i suoi adorati figli racchiuse tutto il bene che voleva loro, tutto il desiderio per un futuro radioso per le loro vite, tutta la rabbia di non poterli riabbracciare mai più. “In questa piccola partita, vostra madre ed io siamo il sacrificio che dev’essere fatto per permettere che il gioco prosegua con voi due. Portate sempre con voi queste torri, continuate a giocare questo gioco meraviglioso. Tenete a mente, come vi ho insegnato, che i bianchi sono l’est, dove sorge il sole, e i neri l’ovest. Conquistate tutte le terre che vi troverete di fronte. Spostatevi, attaccate, difendetevi. E un giorno sono certo che vi incontrerete di nuovo. Ricordate quanto può essere fondamentale la torre nel gioco medio. Sono certo che farete sempre le mosse giuste, altrimenti mi amareggerebbe molto non essere stato un buon insegnante.” Tutti e quattro si abbracciarono e rimasero stretti uno accanto all’altro per un tempo che avrebbero voluto non finisse mai. Un pensiero guizzò nella testa di Taahir, il più giovane dei due fratelli. “Ma un sacrificio può anche essere ignorato. Vero, papà? Quante volte ho cercato di sacrificare un alfiere e tu non l’hai mai preso? Potrebbe essere così anche per questa partita.” Il professore era al corrente che il suo sacrificio sarebbe andato a buon fine, ma non volle permettere che i sogni di un ragazzo si infrangessero contro una carneficina già annunciata. “Potrebbe, Taahir. L’imprevedibilità è un’arma tanto astuta quanto misteriosa.”
Come tutte le separazioni forzate, anche quella tra i due fratelli e i loro genitori fu silenziosa, interrotta solo dai singhiozzi dei pianti che non si volevano mostrare; sfocata, come quando non ci si vuole rendere conto di vivere realmente quel momento; dolorosa, perché non tutte le partite possono essere condotte con le stesse regole. Taahir e Yoosuf, furono sistemati sui due camion. Dai finestrini chiusi salutarono i genitori e poi si cercarono tra i riflessi accecanti del primo sole della giornata. Mentre si allontanavano, cercarono di sorridersi. Il villaggio fu raso al suolo, per permettere alle due fazioni contrapposte di prendere dei vantaggi piazzandosi nelle zone meglio protette. Non ci furono vincitori, entrambi gli schieramenti si ritirarono non potendo avere l’uno la meglio sull’altro. Se da una parte non ci furono vincitori, dall’altra ci furono solo morti da contare. Il sacrificio si era compiuto. Il vento si alzò trasportando terra e sabbia dall’arida pianura circostante, desideroso di coprire tutto il più in fretta possibile.
Non essendoci mai stata una continua, rinnovata e folta schiera di giovani e talentuosi scacchisti non formatisi in qualche prestigiosa scuola, dove Taahir e Yoosuf arrivarono poterono sciorinare le loro personali abilità sulle sessantaquattro caselle, con le quali affrontarono e sconfissero numerosi avversari e affermati maestri. Cambiarono nome per motivi di sicurezza e vissero in diverse nazioni, fino a scalare tutte le gerarchie scacchistiche e diventare in pochi anni Grandi Maestri. Con le torri in cedro perennemente presenti nelle tasche delle rispettive giacche. Essendo nati e cresciuti in un piccolo villaggio lontano dalle comodità della modernità, non persero mai l’abitudine di studiare le partite degli avversari non attraverso i filmati, ma dalla lettura della notazioni algebriche che recuperavano ovunque potessero. Nel giorno del loro compleanno, a vent’anni esatti dall’ultimo festeggiamento nel villaggio natio, Taahir e Yoosuf si sfidarono per il titolo di campione del mondo. Taahir divenne cittadino serbo con il nome di Zelimir Ivkovic, dominando tutte le tradizioni scacchistiche europee, a cominciare da quella che regalò al mondo Vasja Pirc. Yoosuf sedette da allievo alla scuola indiana, diventandone maestro e assorbendo tutte le tecniche delle scuole orientali, cambiando il proprio nome in Avanindra Bhagirath. Studiarono le rispettive partite solo attraverso le notazioni algebriche, non videro mai il volto di chi avrebbero incontrato quel giorno. Taahir era già seduto alla scacchiera quando fece il suo ingresso Yoosuf. Entrambi rimasero sempre molto schivi e riservati. Non ci furono interviste a quotidiani né servizi televisivi prima dell’attesissimo incontro. Taahir vide un’ombra passargli accanto, si alzò per salutare l’avversario, mantenendo la testa china in segno di rispetto ma sollevandola quella manciata di secondi per salutare lo sfidante. Non ci fu più niente intorno a loro. Nessun suono, nessuna luce, nessuna persona. Si riconobbero all’istante e l’attimo necessario a stringersi le mani si dilatò, per i due increduli fratelli, in un infinito atemporale. I loro occhi furono il mezzo di comunicazione che decisero di adottare. Presero le torri e le appoggiarono sul tavolo. Guardarono i trentadue pezzi ai loro posti, si scambiarono un altro sguardo e senza proferire una sola parola decisero che si sarebbero raccontati i rispettivi ultimi vent’anni usando la scacchiera come fosse stato il mondo intero. I bianchi sono l’est. Yoosuf, bianco, partì a raccontare da Ludhiana, e4.