Racconto 2° Classificato – Seconda Edizione – 2019

Nel tempo di un caffè

di Lavinia Brilli

 

«Io non mi sono ancora decisa.»

«Ma dai, cosa aspetti? Guarda che poi se diventi troppo vecchia ti passa la voglia. Non si fanno mica per sentirsi giovani, si fanno quando si è giovani.»

Questa frase è un colpo al cuore. Appoggiata al bancone di un vecchio bar, aspetto che si raffreddi il mio caffè e osservo senza dare nell’occhio le due ragazze accanto a me, che invece non si sono neanche accorte della mia esistenza. Dopo i quarant’anni si scompare dal radar del mondo. Per i giovani si è vecchia, per gli uomini si è sbiadita, soprattutto se si è sempre spettinata e in affanno come me. Hanno ragione loro, ho fatto un figlio da vecchia per sentirmi giovane, e il risultato è che ho perso anche l’ultimo alone di gioventù, sepolto da strati di pannolini e strattonato qua e là, tra un asilo e il solito ufficio che non ha cambiato il suo asse di rotazione per venire incontro a me.

La bionda, quella che a quanto pare ha già un figlio, invece sembra ancora una ragazza. Chissà perché non si sente stremata, se è organizzata meglio di me, o semplicemente è più giovane. Mentre parla con la sua amica continua a strofinare le unghie del pollice e dell’indice attirando l’attenzione sulle complicate striature argentate che le decorano. Istintivamente appoggio la tazzina e guardo il mio pollice che non vede lo smalto da mesi. Le pellicine smangiucchiate tradiscono una tensione che non riesco mai a smaltire.

«Perché poi quando li hai ti rendi conto che è davvero per sempre. È come se fossero anche loro parte del tuo corpo» continua la bionda con un tono di superiorità che la ragazza mora incassa facendosi piccola piccola: «Ma io ho paura a farli… ho paura del dolore.»

«Ma scherzi? Cosa te ne importa del dolore? È qualcosa che ti cambia la vita, dopo nemmeno te lo ricordi il dolore.»

È saggezza popolare ma ha ragione, mi trovo a pensare mentre il caffè scivola giù e mi dà un po’ di conforto. Se tornassi indietro lo rifarei mille volte. Nicolò è stato un ciclone nella mia vita ma ha portato una nuova dimensione, un amore e una dedizione di cui non mi credevo capace. Mi ha illuminato le giornate, è stato capace di farmi sorridere anche quando mi sentivo esausta, ha dato un nuovo senso alla frase “ne vale la pena”.

La bionda non smette un attimo di parlare: «È per questo che ne ho voluti quattro.»

«Quattro?» la moretta spalanca gli occhi. Se rispetto alla sua coetanea prima si sentiva in inferiorità, adesso probabilmente si sente rispedita direttamente all’asilo. E non è l’unica: io mi sono immobilizzata cercando di non mandare di traverso il caffè. Questa ragazza avrà sì e no venticinque anni e sta raccontando dei suoi quattro figli come se fossero la gioia della sua vita, senza nessun accenno alle fatiche che invece io trascino avanti tutti i giorni, con un figlio solo.

«Mi piacerebbe vederli» la ragazza mora cerca di non mostrarsi troppo colpita. Mi meraviglia che non abbia commentato la forma fisica della bionda, con quattro figli, io invece vorrei interromperla e urlare: dove li hai messi tu i chili che ha regalato a me la gravidanza?

«No, scherzi? Col freddo di questi giorni!»risponde la bionda con sufficienza.

Allora sono tutti piccoli se ha paura del freddo, penso. D’altra parte è così giovane, sono piccoli per forza. Ma come si può vivere con quattro bambini piccoli senza impazzire?

Probabilmente sono io che non mi so organizzare. Quando è arrivato Nicolò avevo un equilibrio già così fragile, una giornata sancita da impegni di lavoro, un po’ di palestra, qualche cinema con Andrea perché si dice che non bisogna trascurare la coppia, e poi l’infinita sequenza di lavatrici, pulizie di sanitari, comodini e battiscopa, allegre serate col ferro da stiro, corse sfrenate al supermercato e la visita un giorno sì e uno no alla mamma, per carità, che non venga fuori un caso. La nascita di Nicolò è stata una specie di deflagrazione che ha minato definitivamente l’ordine delle cose.

«Allora raccontami tu come sono» la moretta è interessata davvero. Si vede che è in quella fase della vita in cui si sta covando la decisione. È come se la gravidanza durasse di più: c’è tutta la fase del figlio immaginato, concepito nella mente. Eppure è giovane anche lei, forse più dell’altra. Si parla dei giovani di oggi come di creature superficiali, ma a quanto pare io lo sono stata di più: dopo la laurea ho pensato solo a fare un po’ di carriera e godermi i guadagni con qualche viaggetto. Se avessi avuto Nicolò allora avrei avuto più energie per gestirlo, e forse avrei trovato il coraggio per fare il secondo figlio. Invece mi sono fatta prendere in giro da un’azienda che oggi cerca di farmi sentire grata solo perché ancora mi tollera, grazie al famoso articolo diciotto, e che consuma gran parte delle sue energie a cercare il modo di sostituire gli ultraquarantenni con forze fresche e di minori pretese. Ho sbagliato tutto, oggi come mai me ne rendo conto.

Raccolgo col cucchiaino lo zucchero superstite sul fondo della tazzina, ma l’amarezza resta.

«Sono tanto diversi uno dall’altro. Poi non diresti mai, ma devi imparare anche a conoscerli, a conviverci. E via via che il tempo passa li vedi cambiare» continua la bionda.

È vero, un neonato è tuo figlio e uno sconosciuto allo stesso tempo. È come dover conoscere una parte di te, è un ossimoro. Penso a Nicolò e intravedo le tracce che abbiamo lasciato io e suo padre, in una reazione stizzita che ricalca le mie, in un mezzo sorriso che da grande gli donerà la stessa irresistibile aria sorniona del suo papà. Nicolò è un foglio bianco su cui io e Andrea abbiamo scritto le prime parole, lasciando a lui l’avventura di completare l’opera. Pensandoci una piccola emozione mi scalda più di questo caffè ormai finito.

«Prego signora, c’era prima lei» la ragazza bionda mi indica la cassa con un sorriso educato. Bella, giovane e gentile, ha avuto quattro figli e non ha perso la testa. Oggi ho avuto una lezione da una ragazza che avrà quasi vent’anni meno di me. Pensavo di aver fatto tanto, e invece arranco per tenere insieme i pezzi della mia vita.

Approfitto  velocemente della gentilezza e mi sbrigo a pagare, ho già sforato il tempo della pausa mensa, dovrò prendere un permesso dal lavoro per riuscire a uscire presto oggi pomeriggio e correre da Nicolò.

Ma frugare in borsa alla ricerca del portafogli non mi impedisce di cogliere un ultimo brandello di conversazione:

«Allora ti ho convinto a farlo? Però devi sbrigarti, adesso che è inverno. Fare un tatuaggio prima dell’estate col sole e i bagni è un casino.»

Mi blocco e sorrido alle mie unghie mangiucchiate.

Nel tempo di un caffè il senso della mia vita ha fatto un giro di centottanta gradi e ritorno. Posso tornare a pensare di aver combinato qualcosa di buono.

Porgo un euro alla cameriera del bar continuando a ridacchiare. La cameriera mi guarda incerta, rispondendo al sorriso per educazione. È come guardarsi allo specchio: un’altra quarantenne spettinata che forse fa i salti mortali per arrivare a sera.

Chissà se anche lei fatica a trovare qualche certezza. Ma come ho fatto a entrare in crisi per i tatuaggi di una ragazzina? Sospiro, eppure il retrogusto del caffè adesso mi sembra un po’ più dolce.

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