Premio Speciale della Giuria

L’inviata di Gutemberg

di Sergio Tresin Satalich

 

E’ accaduto circa un anno fa. Ero tornato in volo da una trasferta di lavoro.  Camminavo in fretta nel sottopassaggio deserto, che dall’aeroporto porta alla piccola stazione ferroviaria lì vicina, per non perdere l’ultima corsa del treno locale che mi avrebbe riportato a casa.  Non un segno di vita sulla pensilina. Una nebbia calda avvolgeva ogni cosa e mi si appiccicava addosso. La sentii prima di vederla.  Dal fondo del binario, vicina ma ancora nascosta dalla cortina grigiastra, cacciò un ululato di fatica, poi la motrice verde scuro uscì dal vapore, mi sfilò lentissima davanti e si fermò poco più in là a tirare il fiato, imperlata di goccioline tiepide. Guardandomi intorno, mi chiesi se per caso non fossi l’attore inconsapevole di un film misterioso, e se, nascosta da qualche parte, non ronzasse una cinepresa.

Appena misi piede sul predellino della carrozza, la ragazza scese lentamente, con cautela e grazia; mi scostai educatamente per lasciarle il passo, e per un istante incrociammo gli sguardi, ecco, meno di uno sguardo, un’occhiata di sfuggita. Eppure, per un attimo ebbi l’assurda ma assoluta convinzione che la ragazza non si trovasse lì per caso.

Entrai nello scompartimento vuoto. L’umidità calda l’aveva trasformato in una serra. Una luce giallognola stagnava in alto. Se mi avessero detto che lì sopra eravamo in tre, macchinista e controllore compreso, ci avrei creduto. Avanzavo nello stretto corridoio tra due fila di sedili in similpelle verde feriti da coltellini annoiati, graffiti osceni e spessi pennarelli che sbavavano dediche all’innamorata del momento. Stavo adocchiando qua e là, indeciso dove andare a sistemarmi. Abbandonato nell’angolo di un sedile, un grosso volume calamitò la mia attenzione. Veniva spontaneo associarlo a una dimenticanza della ragazza incrociata qualche momento prima, per cui mi affrettai a tirare giù il finestrino sul lato della pensilina, allungando il collo nella speranza che fosse ancora lì per darle una voce, ma di lei non c’era più traccia, svanita nella nebbia.

Il treno si rimise stancamente in movimento: in venti minuti sarei sceso a B, nella prima cintura della città.  Serrai il finestrino, posai la valigetta e mi accomodai rigirando timidamente tra le mani quel tomo faticoso che sprigionava una strana malia, e, forse costretto da chissà quale sortilegio, cominciai a leggere.

Fino allora, come lettore non valevo molto.  Ho letto sempre poco e male, soprattutto sono stato un lettore ansioso; mi affannavo a voltare pagina, non vedevo l’ora di finire il libro come se scottasse tra le mani, incalzato da questioni ben più urgenti cui dare retta; anzi, sospetto d’aver sempre letto la pagina successiva anziché quella che avevo sotto gli occhi, se capite cosa voglio dire. E se, a prenderla alta, mi sforzassi di considerare come una metafora quel modo di leggere, potrei aggiungere che ho sempre fatto fatica ad apprezzare a fondo il presente, proiettato invece spesso nel dopo, verso ciò che doveva ancora arrivare, salvo poi tornarci sopra quand’era già passato.

“Agli inizi di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo di S, scese in strada e lentamente, quasi esitando, s’avviò verso il ponte di K…”.

Quella frase mi risucchiò come un’idrovora. Chi sei ragazzo ?… Te la devi passare male, altrimenti non vivresti in uno stambugio… Perché te ne sei sceso solo verso sera ?… Cosa ti frulla per la testa che ti fa esitare, e dove stai andando ?… D’ora in poi ti seguirò come fossi la tua ombra.

Quando staccai gli occhi dal libro, il numero di pagina segnava: novantasette. Me ne ero distaccato malvolentieri, però avevo bisogno di una tregua dopo il brutale assassinio di una vecchia usuraia e della sorella, cui avevo appena assistito inorridito, per mano proprio di quel ragazzo, l’ex-studente R., che col cuore in tumulto ma nondimeno lucido, se la stava filando fuori dall’oscuro androne di un palazzo pietroburghese.

Ci avevo messo un po’ a risalire un secolo e mezzo, e a rendermi conto che stavo viaggiando su un malandato convoglio ferroviario di oggi, cullato dal soporifero tatam  tatam delle ruote sui giunti tra i binari, in piena campagna nostrana e diretto a casa.

In quel preciso istante, ebbi la chiara e perturbante percezione d’aver conosciuto una frattura della continuità temporale. Cercai istintivamente di ricomporla, ritornando al numero di pagina per accertarmi di non stare sognando: novantasette, Sant’Iddio, novantasette.

Dovevo essere stato via ore a San Pietroburgo ma: Sant’Iddio, come si spiegava che il treno fosse ancora in movimento ? Immediatamente cercai la risposta dall’orologio che mi legava il polso, accorgendomi con stupore che si era piantato qualche minuto dopo la ripartenza del treno; ne ero certo, l’avevo sbirciato mentre la motrice mi stava sfilando davanti sulla pensilina: quanto tempo prima, a quel punto non ero più in grado di affermarlo con certezza.

Avevo letto malamente, magari saltando interi capitoli ? Lo esclusi.  Marcato così da vicino, tanto da soffiargli sul collo, non mi ero perso il minimo gesto di R. né il più piccolo sussulto della sua lacerata coscienza, tanto da essere tentato di intervenire personalmente nella storia.  Allora ?

C’era sotto qualcosa che non capivo, e che in altre occasioni mi avrebbe fatto ammattire. Invece, inspiegabilmente, ero calmo; curioso di sapere dove accidenti fossi diretto, questo sì, perché non potevo far finta di niente: da un pezzo avrei dovuto essere a B.

Certo, sprofondato nella lettura la stazione di B. sarebbe potuta benissimo scivolare via senza che me ne accorgessi.  Per questo, avvicinai il viso al finestrino tentando di infilare lo sguardo nella nebbia che fuggiva in direzione opposta alla mia, per scorgere, tra le luci smorte dentro la nebbia, un qualche dettaglio nel paesaggio che corroborasse quella supposizione, salvo concludere subito che se anche fosse andata effettivamente così, l’ipotesi non stava in piedi.

 

Da un bel po’ il treno avrebbe dovuto comunque raggiungere la stazione finale a T, dove qualcuno, se lì sopra c’era davvero qualcuno, avrebbe ben dovuto avvertirmi; a meno che il treno non si fosse piantato in mezzo alla campagna per un infarto alle arterie meccaniche poi risolto, incidente di cui non mi sarei accorto, dal momento che ero in giro per San Pietroburgo.

Insomma, mettevo in campo tutte le congetture possibili che potessero fornire una risposta razionale a quanto andavo sperimentando; e man mano scartandole, sentivo crescere se non il divertimento, una sorta di attonita meraviglia.

Dovevo chiedere a lui.  Dal fondo della carrozza, il controllore sbucò direttamente dal locale della motrice venendomi incontro. Lungo e magro da far paura, erano i pantaloni della divisa cascante e sgualcita a portare in giro quel mucchio d’ossa, sotto il berretto da ferroviere portato così di sghimbescio da farlo assomigliare a uno spaventapasseri.  Mi aveva visto ? Sì, no ? In ogni caso se la stava battendo, fregandosene se fossi in regola o meno: – Scusi, ma dove siamo ? – feci bloccandolo: – Due minuti a B. – rispose distratto: – Senta, non è che ci siamo fermati per qualche guasto ? – – Neanche per idea – fece quello squadrandomi come se avesse di fronte un ubriaco, dopodiché mi superò alle spalle e andò a perdersi chissà dove.

Un’intuizione fulminante mi guizzò in testa, la soluzione impossibile che a quel punto ero del tutto pronto ad accettare, tenendo a bada un esaltato sbalordimento.

Mi alzai calmissimo, infilai il volume nella valigetta, per niente al mondo l’avrei lasciato dove l’avevo trovato, strasicuro che fosse un regalo per me della fantomatica ragazza, e mi preparai a scendere. Quando il treno si fermò, scesi senza farmi altre domande, facendo nemmeno caso all’insegna della stazione, sicuro d’essere a B.

Avvolto nella nebbia meno fitta di prima, andavo a casa. A passo lento. Immerso in un silenzio profondo, percepivo l’esattezza della mia camminata, la radicata saldezza dei platani schierati di fianco al viale, l’eleganza dei lampioni stilizzati, con corolle di luce chine alla volta, assaporando ogni dettaglio di ciò che mi attorniava come ricordavo di aver fatto rare volte fino allora.

E a un tratto, impalpabile ed etereo, apparve per l’aria il viso della ragazza che aveva lasciato per me il libro sul treno, circondata da orologi senza lancette che le fluttuavano intorno. Le sorrisi. Il suo volto pallido e diafano da antica vestale, me ne rimandò uno dolcemente enigmatico, poi la sua immagine svanì di colpo.

Quando rientrai a casa, presi il letto e mi addormentai subito e tranquillo.

Giunto fin qui, qualcuno incuriosito dalla vicenda che ho appena ricordato, se non la liquidasse come un affascinante volo lisergico, potrebbe chiedermi quali tracce abbia lasciato quell’esperienza unica, perché una cosa così non la si scorda facilmente. Risponderei che non è stata unica.  Da quella magica notte, quasi ogni giorno sequestro tempo alla vita ordinaria per poi incantarlo, sospenderlo, beffarlo nel modo semplice che ognuno, leggendo queste righe, ha ben compreso, risalendo nella quotidianità da quelle affascinanti vite d’inchiostro in qualche modo appagato, almeno fino a quando la realtà nuovamente strattona. O forse, è il tempo stesso, intenerito dal mio incanto quando leggo, a fermare la sabbia della clessidra che mi consuma, e ad allentare i lacci che mi avvinghiano a lui.

Se poi mi chiedeste anche che fine abbia fatto il cupo, oltraggioso e smisurato Raskolnikov lassù a San Pietroburgo, vi risponderei così: – Non ve l’abbiate a male, ma non ve lo rivelo. Andate piuttosto a leggervi la sua storia e prima di iniziare … osservate l’ora.

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