Racconto 1° Classificato – Seconda Edizione – 2019

Tempo scaduto

di Marina Scrivani

 

Nella penombra della camera, solo il rumore del tuo respiro, regolare e profondo; da me, invece, non proviene alcun suono. Mi stupirei del contrario, io sono morta da più di un’ora.
Il fatto è che nessuno se n’è ancora accorto, tranne me, la diretta interessata.
Vorrei sbagliarmi, ma è proprio così: sono morta morta, e ripeterlo ancora due volte dovrebbe convincermi in modo definitivo.
Mi sforzo di ricordare: ieri sera, dopo aver guardato una trasmissione demenziale alla tivù, solo perché troppo pigra per alzarmi dal divano e dedicarmi ad altro, ho ciabattato molto contrariata fino in bagno, ho preso le solite medicine e ti ho raggiunto in camera, dove tu, con gli occhiali appesi alla punta del naso, stavi leggendo il giornale.
Hai scrollato il capo, mettendomi a parte delle ultime notizie e io, che il giornale l’avevo letto nel pomeriggio, ho commentato con te le principali.
Dal canto mio, ti ho brevemente raccontato ciò che mi ero attardata a vedere alla televisione, tanto che alla fine eravamo in due a scrollare il capo, disgustati.
− Non c’è niente da fare, − hai aggiunto, − ormai siamo come la rana di Chomsky: bolliti.
Ti ho guardato perplessa, mentre scostavo le lenzuola.
− Ma sì, ormai ci siamo adattati al peggio, − hai chiarito, − e non siamo più in grado di reagire.
− E la rana cosa c’entra? – ti ho chiesto, soffocando uno sbadiglio e aggiustandomi bene il cuscino sotto la testa.
Me l’hai spiegato e mentre parlavi ho ricordato ciò che conoscevo con un altro nome: la strategia della gradualità.
Abbiamo spento la luce con la consueta colonna sonora.
− Che tempi! – hai detto tu.
− Roba da matti! – ho aggiunto io.
Nel buio le nostre mani si sono cercate e si sono trovate, come accade ormai da sessant’anni.
È nostra abitudine varcare la soglia della notte tenendoci per mano, ci piace così.
Abbiamo chiacchierato del più e del meno, a bassa voce, ancora un po’, poi ci siamo dati la buonanotte. Un attimo dopo russavi come un trombone.
E dire che quando te lo faccio notare neghi sempre, sostieni che sono io quella che russa.
− Ma se mi svegli! – ti rinfaccio.
− Non è possibile, − controbatti piccato, − sei tu che, russando così forte, arrivi persino a svegliarti da sola.
Sì, vabbè, lasciamo correre, tanto la questione non siamo mai riusciti a dirimerla e, a questo punto, per come si sono messe le cose, temo rimarrà in sospeso per sempre.
Tornando a ieri sera, non ho impiegato molto a prender sonno a mia volta, il fatto è che non mi sono più svegliata.
Non so cosa mi sia successo di preciso, se un infarto o altro, so solo che non ho sofferto; sono sì morta, ma non mi posso lamentare: è successo nel mio letto, tra le mie cose… Più ci penso e più mi convinco, non poteva andare meglio di così, un vero e proprio colpo di fortuna.
Certo, son soddisfazioni… Sorrido.
Sorrido? Ma si è mai visto sorridere un cadavere? Non mi risulta. Inoltre, detto tra noi, la mia reazione è un tantino fuori luogo; d’accordo avere senso dell’umorismo, ma non vorrei esagerare, anche i latini ammonivano: est modus in rebus.
Comunque, se io non posso ragionevolmente sorridere date le mie condizioni attuali, mi chiedo chi stia sorridendo al mio posto.
Mi chiedo? Ma se sono morta.
Qualcosa non quadra.
Ricordo, penso, sorrido: tutto ciò è perlomeno bizzarro.
Cartesio diceva: “Cogito, ergo sum”. Se penso, sono, cioè esisto. Vuoi vedere che aveva torto?
Infatti per quale curioso motivo io, che sono proprio andata, riesco a pensare?
E c’è di più: se mi guardo, ciò che vedo non mi conforta, nel senso che non ho un gran bell’aspetto, a conferma dell’accaduto.
E se mi vedo, suppongo di essere fuori dalle mie spoglie mortali.
Sì, ma fuori dove?
Un movimento improvviso interrompe le mie elucubrazioni: dal fianco sinistro sposti il peso del corpo su quello destro; se tu aprissi gli occhi in questo istante, mi vedresti come mi sto vedendo io.
Per fortuna continui a dormire, ma non durerà in eterno, o almeno non ti capiterà proprio ora: statisticamente lo trovo molto improbabile, visto che è appena successo a me.
E poi non te lo auguro: voglio che tu viva ancora, tanto e bene.
Piuttosto, tremo al pensiero di quello che accadrà a breve, non so se reggerò al tuo spavento, ai tuoi tentativi, vani, di rianimarmi, alla tua disperazione, al tuo dolore.
Ti precipiterai sul ballatoio e suonerai alla porta del dottor Tardoni, il nostro dirimpettaio, ora in pensione. Come medico non mi è mai parso un granché, ma per una volta azzeccherà la diagnosi e mi dichiarerà ufficialmente morta.
Allora è così che funziona.
Che nell’involucro, cioè nelle povere spoglie mortali, non rimanesse nulla lo avevo già capito quando, vent’anni fa, mio padre mi morì tra le braccia: mi accorsi subito che di lui non era rimasta più neppure l’ombra di ciò che era stato, neppure una vaga eco.
Che però fosse lì vicino a me, immateriale perché non più imprigionato dal corpo, a guardarmi e a dispiacersi per tutti i suoi cari che lo avrebbero pianto, ecco, questo non lo potevo immaginare.
Eppure mi sarebbe piaciuto saperlo, mi avrebbe dato conforto.
Forse è previsto un ragionevole intervallo di tempo, in cui l’anima del caro estinto rimane in una specie di limbo, una sorta di fase di transizione, che rende meno traumatico il passaggio da uno stato all’altro: lungi dall’averne la certezza, sto solo azzardando ipotesi.
All’improvviso, uno schianto.
Alla vicina del piano di sopra, sempre molto mattiniera e altrettanto maldestra, è caduto qualcosa per terra che, dal rumore, doveva essere fragile, infatti si è rotto.
Tu sobbalzi e io trattengo il fiato. Si fa per dire, naturalmente, perché non è una novità: lo sto facendo ormai da un paio d’ore, e non per mia scelta.
Lo ribadisco: temo il momento in cui ti sveglierai e ti accorgerai di me, vorrei avere ancora un po’ di tempo per prepararmi ad affrontare l’inevitabile.
Comunque, per ora, tu continui a dormire.
Se rifletto sulla mia vita, che è stata lunga e piena, la vedo come un ampio arcobaleno, una parabola colorata con un principio e una fine, una fase ascendente e una discendente; una specie di ponte che, mi piace pensare, collega la terra al cielo o, più semplicemente, consente la comunicazione tra mondi e realtà diverse, intesi anche come persone.
Sui colori non transigo, perché la vita di tutti è fatta di molte sfumature e non c’è nulla, meglio di un arcobaleno, che possa rappresentarla.
Inoltre l’arcobaleno ha in sé l’idea della speranza: dopo il maltempo, le difficoltà, ecco lo spiraglio di luce, il sole che gioca con l’acqua, regalandoci una gioia anche per gli occhi.
Ora, se diamo retta a quella leggenda irlandese che si racconta ai bambini, dove finisce l’arcobaleno c’è la famosa pentola piena di monete d’oro, magari nascosta sotto terra, ma c’è, ed è lì per noi: un tesoro tutto nostro, che ci siamo guadagnati lungo un percorso non sempre facile, anzi, spesso faticoso, irto di difficoltà e dispiaceri.
Solo ora capisco il significato di questa pentola e del suo prezioso contenuto.
E lo vedo pure, il tesoro, mentre guardo te che dormi, ignaro di ciò che ti attende.
Le mie monete d’oro sono l’infanzia serena, l’amore dei miei genitori, i miei studi, che mi hanno aperto la mente al mondo, il mio lavoro, che mi ha dato la dignità.
E soprattutto tu, l’uomo con cui ho costruito la nostra famiglia e con cui ho messo al mondo i nostri figli amatissimi. Ci sono loro e i nostri numerosi nipoti, e tutte le esperienze vissute, belle o brutte, perché tutto insegna e rende migliori; e non mancano neppure le persone che ho incontrato e con le quali, sempre, c’è stato uno scambio, una mutua corrispondenza d’idee, opinioni, sentimenti, emozioni che, adesso ne sono sicura, hanno arricchito tutti.
E, sorpresa!, nella pentola non trovo monete false o di vile metallo: chi l’avrebbe mai detto.
Scopro solo ora che tutta la mia vita è stata autentica, che senza essere eccezionale, è stata vissuta pienamente, che mi sono impegnata e che ho fatto tutto quello che potevo per onorare questa meravigliosa opportunità.
E se i risultati, a volte, non hanno raggiunto l’altezza delle aspettative, non mi sono scoraggiata più di tanto e li ho usati come stimolo a fare meglio.
Scopro che i giochi, per me, sono sì finiti, ma resto incantata dal come: sono serena, appagata, soddisfatta della mia pentola e del suo contenuto, non la cambierei con nessun’altra al mondo, perché è la mia, l’ho riempita io e, per farlo, ho impiegato tutta la vita.
Un tuo colpo di tosse mi riporta qui, nella nostra camera.
Attraverso le persiane, la luce tremolante del sole sta giocando con l’allegra fantasia del nostro copriletto, sfiora la tua sagoma distesa sotto le lenzuola, ti solletica il naso.
Ti stiracchi come un gatto, sbadigliando rumorosamente.
Infine apri gli occhi.

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