Il treno dei sogni
di Rosella Guglielmetti
Ormai si era allontanato abbastanza, da qualsiasi parte guardasse vedeva solo erba, cespugli, pietrisco e un tratto di ferrovia che veniva a perdersi davanti ai suoi piedi. Lo prese come un invito.
Seguendo i binari, il ragazzino approdò in un piazzale dominato da una costruzione fatiscente: il tetto era in parte sprofondato, le finestre avevano i vetri rotti e le erbe infestanti erano arrivate fino alla soglia. La solitudine e l’abbandono rendevano l’atmosfera irreale e vagamente inquietante. All’interno un bancone sormontato da un vetro recava – appena leggibile sotto le ragnatele polverose – la scritta Biglietteria. Oltrepassata la seconda sala, ingombra di panche sfondate, si usciva alla banchina che era sovrastata da una tettoia a frangetta di ferro battuto. Più in là a cielo aperto v’erano alcuni vagoni del colore della ruggine e una motrice che troneggiava solitaria. L’ombra lunga del tramonto la rendeva ancora più immensa e inquietante. Nessun suono, nessun oggetto, nessuna puzza che il ragazzino potesse riconoscere. Non si sentivano né rumori di auto né voci di persone. Solo il frinire delle cicale. E il miagolio di un gatto. Ne contò cinque, tutti acciambellati sopra un muretto, e uno aveva la coda mozzata.
Si avvicinò a un vagone: era perfetto per trascorrervi la notte. Dentro, altra desolazione. Sul pavimento vetri frantumati, un paio di bottoni, un pettine, una lunga benda e un fazzoletto a quadretti bianchi rossi e blu. Distrutto dalla lunga camminata, ripulì dalle cartacce una panca sgangherata e vi si sdraiò.
Nel sogno che sopravvenne presto, si trovava su un altro treno, non aveva undici anni, non aveva i capelli corti a spazzolino né i denti da criceto ma era un funzionario federale del selvaggio west che si preparava a tenere un discorso per inaugurare la nuova tratta della ferrovia. Elegantemente vestito, con un bel cravattino e un cappello a cilindro che nascondeva la chioma fluente, andava accarezzandosi la coccarda che aveva i colori dell’America: bianco, rosso e blu. Al suo arrivo avrebbe trovato ad accoglierlo il consueto comitato composto dal solito sceriffo con i baffi lunghi e gli speroni ai piedi, dall’immancabile massa di pionieri ubriachi, saltimbanchi e imbonitori e certamente anche da una graziosa dama stretta in un corpetto da urlo, la gonna lunga a coprire un paio di lucidi stivaletti neri. Sospirava il funzionario, mentre si preparava ad affrontare la grande prateria e il canyon, gli occhi aperti e la pistola pronta. Ed ecco profilarsi attraverso il finestrino la sagoma di un indiano a cavallo. Poteva essere un Cheyenne, un Arapanos o un Sioux, e invece – constatò con orrore – aveva le fattezze del sorvegliante dell’orfanotrofio. Pronto a saltare, affiancava il vagone in corsa. Il funzionario afferrava la pistola e sparava, l’indiano-sorvegliante cadeva ma altri ne arrivavano. E lui sparava sparava…
Quando il ragazzino si svegliò, alle prime luci dell’alba, rimase lì un attimo senza rendersi conto di nulla, di chi fosse e in quale mondo si trovasse, poi si guardò intorno e si ricordò del sogno e del sorvegliante. Si sentì solo e indifeso e scoppiò a piangere. Avrebbe voluto che qualcuno venisse a cercarlo e gli dicesse che avevano sentito la sua mancanza e che avevano sofferto per la sua fuga, ma sapeva che non sarebbe successo. Loro volevano liberarsi di lui, volevano che sparisse per sempre, che diventasse un senza tetto o peggio ancora un delinquente. Disgraziato lo era già, dal giorno in cui era venuto al mondo.
Ciao, disse all’improvviso una voce calma e profonda, e tu chi sei?
Il ragazzino sobbalzò: di fronte, aveva un gigante con un codino grigio, occhi color cioccolato orlati di rosso e labbra sottili tirate in un sorriso.
Tutto bene? chiese ancora l’uomo.
Il ragazzino emise un soffio che voleva essere un sì, e iniziò a scrutarlo con occhi da cane randagio. Vide che indossava una giacca nera di cotone, lucida di vecchiaia. Che non vedesse l’acqua da tempo lo si indovinava non dal colore ma da una certa rigidità, come se, privata del sostegno del corpo, potesse reggersi in piedi da sola. Ai piedi calzava un paio di inguardabili scarponi di cuoio nero, nonostante ci fossero almeno 28 gradi. Gli ricordava un suo compagno dell’Istituto che puzzava tutto l’anno di pipì e di latte cagliato, ma a dire il vero uno così non l’aveva mai visto, se non in qualche incubo notturno, nè avrebbe mai immaginato che da quella bocca uscissero parole tanto calde e avvolgenti. Non era più giovane, ma aveva degli occhi così vispi e ridenti che nessuno gli avrebbe dato del vecchio. C’era stato un tempo, un tempo lontanissimo in cui anche quell’uomo aveva una famiglia, una casa e perfino un giardino e un orto. Lavorava in una tipografia, dove maneggiava parole tutto il giorno. Poi qualcosa si era rotto nella sua vita, il giardino era diventato triste e spoglio e gli ortaggi si erano imbalsamati da soli sugli steli. Dopo aver venduto la casa, aveva camminato per un’eternità di giorni. La stazione abbandonata gli era parsa il rifugio perfetto, con l’atmosfera da cimitero che vi spirava, e a poco a poco aveva imparato a cavarsela da solo, secondo l’antica legge della sopravvivenza. Nella sua nuova casa, chiusa e lontana dai rumori degli altri, c’era tutto ciò di cui aveva bisogno, anche la compagnia dei gatti randagi. Solo a momenti il suo passato tornava a fargli visita, come una nuvola che oscura il sole, e allora si metteva a comporre poesie. Perché per i poeti non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri.
Ma tutto questo il ragazzino l’avrebbe saputo più tardi e un po’alla volta. Per il momento decise di fidarsi e già questo contava molto. Dopo cinque minuti erano lì che facevano colazione insieme, con pane e mortadella, seduti a gambe incrociate e lanciandosi occhiate silenziose come se condividessero qualche misterioso segreto. Fu l’inizio di una singolare convivenza.
L’uomo teneva una piccola scorta di viveri nel vecchio magazzino degli attrezzi e talvolta si allontanava per parecchie ore alla ricerca di cibo fresco, così lo chiamava, ma era solo merce stantia della quale i negozi volevano liberarsi. Il pomeriggio, quando l’aria si faceva calda e immobile, lui e il ragazzino si sdraiavano all’ombra dell’unico albero da frutta di tutta l’area, un ciliegio selvatico che produceva frutti piccolissimi. Esausti e assetati come se avessero attraversato a piedi il deserto del Sahara, odoravano di sole, di polvere e d’erba e sulla testa avevano un’aureola di moscerini danzanti.
Spesso il ragazzino si avvicinava alla locomotiva e la osservava a lungo da ogni lato, incapace di sottrarsi al fascino di quello strano mostro. Ne immaginava il ruggito e la forza dei muscoli nel macinare chilometri e chilometri con la velocità del vento, ma più ancora lo emozionava il pensiero di quell’unico essere in grado di dominarlo con la mente e con la mano.
Il suo amico era avaro di parole, le lasciava cadere come stille di rugiada, ma sapeva ascoltare. Il ragazzino gli descriveva i sogni che faceva dormendo ogni volta in un vagone diverso. Ogni notte si sentiva padrone di una casa, di una casa su misura, e i sogni erano come il dono di un dio misterioso: monete da spendere, una per notte, e ogni sogno una storia nuova, storie che s’incrociavano come s’incrociano i treni, sui binari e tra gli scambi. Era un viaggio verso l’ignoto, non sapeva quanto sarebbe durato né dove fosse diretto, ma sentiva che sui vagoni erano rimaste imprigionate delle parole, dei pensieri, dei lamenti che continuavano a rimbalzare come dei mosconi contro le pareti. Gli bastava una traccia modesta, qualcosa da fiutare come un cane segugio. Come la notte in cui trovò in un vagone un berretto da soldato e subito dopo sognò di condurre un convoglio di guerra. Trasportava militari che andavano al fronte a ricongiungersi al battaglione. Aerei nemici sorvolavano continuamente il cielo sulle loro teste, c’era da temere il peggio, un altro bombardamento, ma non solo, era in arrivo un altro treno che trasportava civili, tra cui donne e bambini, non c’era tempo da perdere, occorreva sperare che funzionasse il deviatoio e intanto correre, correre più veloce delle bombe.
Il giorno dopo, nel descrivere il sogno, si mise a volteggiare a braccia aperte imitando il volo degli aerei militari. La vita, gli disse allora l’uomo come mormorando tra sé (un’abitudine acquisita in tanti anni di solitudine), è un treno con tanti vagoni, un giorno si parte, s’incontrano persone, alcune buone altre un po’ meno, si vivono esperienze, si superano prove, si raggiungono stazioni. Ogni stazione un obiettivo.
Un’altra volta, dopo aver trovato un braccialetto da bambina sotto un sedile, il ragazzino sognò di viaggiare come uomo di fiducia del Gran Khan. Aveva il compito di recuperare un tesoro trafugato dai nomadi suoi avversari e nascosto chissà dove, magari sotto un certo albero o sotto una certa pietra di una certa casa, ma come trovarlo? Dietro il finestrino scorrevano paesaggi esotici, con uccelli dalla coda variopinta e un’infinità di templi tutti d’oro Ed ecco apparirgli davanti, come per miracolo, vestito d’oro anch’esso, un gatto dalla coda mozza. Era sgusciato fuori da un certo sedile… Ma no! Eccolo il tesoro, proprio lì sotto, ignorato da chissà quanto tempo.
L’uomo non gli domandò mai da cosa fosse fuggito, ma una volta gli disse: so che non sempre sei sicuro di quello che stai facendo, e che spesso pensi che la tua vita non abbia significato; so che ti domandi perché certe disgrazie siano capitate proprio a te, ma non sarà così che troverai le risposte. Non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato, non sarà il mondo a riparartelo. Devi farlo tu. E come? chiese il ragazzino. Trova quello che ti fa sorridere, gli rispose l’uomo, e ascolta i tuoi sogni.
Talvolta capitava che uno sconosciuto si avventurasse in quel luogo isolato e deserto: una volta un fotografo attratto dalle archeologie urbane, un’altra volta una coppietta in cerca di un luogo appartato. Allora i due correvano a nascondersi nel magazzino degli attrezzi. Un giorno arrivò una macchina delle Forze dell’Ordine, il motore si spense e una portiera si aprì. Ne uscirono due uomini in divisa. Ci penso io, disse l’uomo, tu nasconditi. I due gli chiesero se avesse visto un tipetto così e così, e lui negò, perché sapeva che il suo giovane amico non era ancora pronto a tornare.
Finché un giorno il ragazzino si pose delle domande. Aveva sempre avuto paura del buio, ma lì, nel treno dei sogni, non ne aveva per niente e faceva quello che nessuno aveva il coraggio di fare. Era stato di volta in volta un funzionario delle ferrovie americane che aveva lottato contro un inserviente travestito da indiano, un macchinista eroe di guerra che aveva salvato un convoglio di civili, era perfino riuscito a trovare un tesoro… Che cosa gli dicevano i sogni? Era quello il suo posto nel mondo? Per capire bisogna conoscersi e per conoscersi bisogna immaginare il proprio destino, gli aveva detto l’amico poeta. Così, in una serata di luna piena, una di quelle in cui si avverte il peso delle stelle e il silenzio del creato, gli rivelò il suo sogno: lavorare nelle ferrovie.
Sei uscito dalla tua rotta consueta per un po’, gli disse l’uomo, perché avevi bisogno di fermarti a riflettere, ma adesso la devi riprendere, se vuoi realizzare il tuo sogno. E il ragazzino comprese che gli stava dicendo addio.
Non lo vide mai più. Molti anni dopo, quando il suo sogno di agitare la paletta da capostazione era ormai divenuto realtà, di tanto in tanto l’immagine di quell’uomo tornava a lui come un ricordo felice e prezioso. Non cercò mai di ritrovare quella stazione, perché temeva di scoprire che non fosse mai esistita. Temeva di averla costruita lui stesso come un fantasma della sua immaginazione, o, più semplicemente, di averla soltanto sognata.