Una vecchia poesia
di Domenico Romano Mantovani
Quattro parole
Sono le foglie le mani del vento
quando d’autunno ti sfiora contento.
Il ramo nodoso sa fare dimora
al mite fringuello che attende l’aurora.
Il tronco che svetta, antica vedetta,
lo vedo lontano, lontano che aspetta.
Infine, nascoste e un po’ sconosciute
ci sono radici che succhiano mute.
Con quattro parole un albero ho detto.
Mi impegno ad amarlo ricolmo d’affetto.
– A che ora si pranza?
– Alle dodici e trenta, come sempre, – rispose Milica, l’operatrice serba.
– E trenta, – ripetè Lino Rosi, piuttosto turbato.
– Come sempre, – ribadì la giovane donna, nel suo camice abbondante. – Non se ne ricorda?
– No.
Malfermo e intorbidito dai radi pensieri, il vecchio dottor Rosi strascicò sino alla finestra i piedi insicuri. Il tiglio era lì. Non si era mosso di un centimetro. E come avrebbe potuto? Almeno questo lo sapeva. Invece, il resto… La memoria era a brandelli. In poco tempo, sarebbe precipitata anche la capacità di comprendere la funzione di un oggetto e che nome avesse. E vai a capire cos’altro la mente si stava giocando, maledizione! Ma almeno il tiglio, quello sì, se lo ricordava.
Si voltò per domandare che giorno era. Ma la giovane era sparita. Come si chiamava? Chissà.
Aprì la finestra e un profumo corposo di tiglio e cielo salutò le narici e la stanza diafana, con appena una foto in cornice a ravvivare uno stretto mobile; tanto per dare parvenza di intimità.
Ma la casa di riposo tale rimaneva, pur se con qualche suppellettile gettata qua e là, per rendere più familiare agli ospiti la struttura.
A che ora si pranzava? Non lo sapeva.
“Il tronco che svetta, antica vedetta,
lo vedo lontano, lontano che aspetta”.
Lino ripetè quei versi a voce alta.
Conosceva bene il suo tiglio secolare, odoroso e frondoso sino all’eccesso. Il primo incontro con lui gli aveva cambiato la vita.
La memoria a lungo termine si difendeva ancora; non sempre ma si difendeva. A ricordargli soprattutto di quando era bambino. E se poi non gli sovveniva come lavarsi i denti, beh pazienza.
“Con quattro parole un albero ho detto.
Mi impegno ad amarlo ricolmo d’affetto”.
No, quella era la fine!
I versi riaffioravano d’improvviso. Quante volte li aveva ripetuti! La maestra voleva la poesia tutta a memoria. E Lino ripeteva, ripeteva.
“Sono le foglie le mani del vento
quando d’autunno ti sfiora contento”.
Sì, iniziava proprio così.
Alla finestra, con il sole a scheggiare di luce i vetri, l’anziano scrutava l’immenso tiglio, pronto ora come allora a ospitarlo.
Una lacerante casualità lo aveva condotto tra i suoi rami.
– Corri! Corri e non tornare più!
Mamma e papà gli avevano urlato proprio così.
– Va’ a nasconderti, figliolo! Vai sul tiglio! E non tornare.
Gli misero nel tascapane quel po’ di cibo che c’era. I tedeschi! Giunsero con un rombo acre e sinistro di carri armati; e la polvere e il cigolio mortale rotolavano sui colli mal coltivati.
Corse a perdifiato. E l’albero se lo vide arrivare, frastornato per la paura. Con la sua possanza, lo accolse e lo invitò a salire in fretta, il tronco appena screpolato, il fogliame fitto e i cuori che stormivano al vento di giugno. Lino lassù non ci era mai salito, per troppo timore e per rispetto.
“Il ramo nodoso sa fare dimora
al mite fringuello che attende l’aurora”.
Ah, che bella poesia! Nodoso il tronco non era, ma andava bene lo stesso. La maestra gli diede dieci.
Quel giorno, nel frastuono concitato di spari, tuoni e urla, il tiglio fu l’unico a consolarlo, a dirgli di tacere, di nascondersi sempre più in alto. Anche quando sentì mitragliare più e più volte, Lino rimase lì, minuscolo e inerme, protetto dai rami fraterni, che più in basso si raccolsero, per meglio proteggerlo e consolare un dolore inconcepibile, che spingeva in gola e nei sensi.
Lino non sapeva se scendere a pranzo.
– E trenta, – bisbigliò. – La ragazza bionda ha detto “e trenta”.
Ma a che ora?
Gli sovvenne da capo la poesia.
“Infine, nascoste e un po’ sconosciute
ci sono radici che succhiano mute”.
Schiacciato dalle allucinazioni, quelle radici le vedeva serpeggiare nelle viscere della terra. Sovente scendeva in giardino, anche a dispetto del tempo spesso inclemente, e andava a sedersi sulla panchina, posta sotto il tiglio, di lui impietosito.
Lino ne aveva ottantuno di anni; il tiglio chissà.
Dopo aver trascorso la giornata a scuola, tornando verso casa non dimenticava mai, lungo la strada, di salutare l’amico, che gli aveva concesso di vivere ancora. Ne carezzava il tronco; e il tiglio ricambiava scendendo ancor più con i rami, così che il suo beniamino, prima liceale, poi uomo e futuro medico, potesse ancora una volta salirci, per raccontare i suoi amori, e il rimpianto di mamma e papà, falciati da un mitra tedesco, insieme ad altri poveretti. Zia Ester divenne tutrice.
In inverno, nella casa di riposo la chioma imponente del tiglio mostrava a suo modo il cranio, intirizzito e scialbo. Lino, rispettoso e innamorato, gli strofinava il tronco per riscaldarlo e così restituire l’amore e l’energia, che aveva nel tempo ricevuto. L’albero ringraziava e raccontava delle sue radici profonde, della brutta e della bella stagione, degli uccelli, delle gemme e dei frutti che fremevano nell’attesa. Ma solo Lino, nei soccombenti deliri e nelle angoscianti allucinazioni, era in grado di ascoltare quella voce. A noi, la voce dei vivente ci è quasi del tutto preclusa.
Per anni il dottor Rosi lavorò in città come medico. Poi, in pensione, si ritirò nella casa paterna. Il tiglio era sempre lì, ma per caso, solo per caso, fu incluso con un’alta cancellata nel giardino della casa di riposo, dove Lino andò a stare. Per cattiva sorte, ammalato di Alzheimer, dopo averne curati tanti di anziani.
Seduto tristemente alla panchina, sempre più di rado gli tornavano i freschi ricordi infantili.
“Con quattro parole un albero ho detto.
Mi impegno ad amarlo ricolmo d’affetto”.
Quell’ultimo inverno, il paese rabbrividiva più del solito per la neve, fioccata in eccesso.
Prima che fosse per sempre troppo tardi, Lino doveva decidersi; e ringraziare sino in fondo per l’antica ospitalità, che aveva cambiato il corso della sua vita. La memoria, ormai quasi incenerita, era allo stremo. Doveva concludere.
L’albero, vecchio e solo, tremava, ugualmente stremato dal tempo e dal gelo.
Indossato il cappotto di cammello, in segreto e a fatica Lino scese al buio della notte, portando con sé una corda. La neve era insidiosa e il vecchio malato cadde più volte. Raggiunse a stento il suo idolo, abbracciò l’antico salvatore e subito un timido tepore rinfrancò quella roccia vivente. Infine, si legò al tronco, perché in piedi non avrebbe resistito più di tanto.
Spirò per assideramento, il dottor Lino Tosi, dopo essere transitato nell’ipotermia, stretto al suo albero. E al mattino lo trovarono così, quasi un tronco anche lui, grigio e inerme.
La sua anima accolse in sé il tiglio, lo ospitò e lo portò via, con un atto per noi insensato, sfarfallando tra i fiocchi di neve.
L’ospitalità fu davvero sino in fondo ricambiata?
Mentre incespicava sulla neve, Lino nulla più ricordava. Così, la memoria si perse oltre la morte. Oltre il tempo, che per ineffabile natura solo qui, nel suo storico e casuale venire all’Essere, in questo scritto si è cercato di raccontare.