Premio Speciale dell’Associazione – Quinta Edizione – 2022

ROMANZO DI UN’ORA

di Davide Bacchilega

 

Ore 9,25

Il Dottor Arturo Marchi spalancò la finestra della camera 407 dell’hotel Excelsior e trovò davanti a sé il panorama dello squadrato edificio della stazione. Niente vette alpine o golfi azzurri. Solo una stazione ferroviaria.

Da lì sarebbe uscita Isabella.

Afferrò poi la cornetta del telefono e compose il numero della reception.

Non aveva certo intenzione di decidere il suo futuro a stomaco vuoto.

 

Ore 9,30

Michele uscì dalla cucina con il vassoio da portare al quarto piano, fino alla camera dell’illustre cardiochirurgo. Prese l’ascensore cercando di non rovesciare il lungo bicchiere ricolmo di spremuta. Durante la salita, sdoppiandosi nello specchio della cabina, pensò a quante colazioni aveva già servito da quando lavorava in quell’hotel. Di certo, quella che stava consegnando a Marchi sarebbe stata l’ultima che il dottore avrebbe mai consumato.

 

Ore 9,35

Isabella tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, l’accese con lo Zippo e si mise a fumare accanto al finestrino aperto. Indossava un lungo vestito azzurro con temi floreali, che lasciava un’impercettibile visuale sul decolleté.

Ancora nulla da segnalare, si appuntò mentalmente Ivano mentre la spiava da una distanza di sicurezza, accomodato nello stesso scompartimento di quel treno rapido.

Accanto a Isabella era seduta una donna più matura, impegnata a scarabocchiare parole crociate. La ragazza, invece, era persa a fissare immagini sognate, visioni dolci e promettenti.

Il marito non si sbagliava: quella donna aveva un altro. E anche Ivano ne era ormai certo.

Raramente l’istinto lo ingannava. Ma per una volta voleva essere lui a ingannare l’istinto.

 

Ore 9,40

«Devo andare in bagno. Mi dà un’occhiata alla valigia?» chiese la signora al suo fianco indicando un bagaglio sulla cappelliera.

Isabella le fece cenno di sì e poi guardò l’orologio. Il treno viaggiava con qualche minuto di ritardo, ma fra tre quarti d’ora al massimo sarebbe stata di nuovo con Arturo. Al marito aveva detto di andare a trovare un’amica, anche se a quel punto non valeva neanche più la pena di mentire. La corsa del loro matrimonio era finita già da tempo su un binario morto.

La legge sul divorzio esisteva già da dieci anni: era giunto il momento che sia lei sia Arturo ci pensassero seriamente. L’incontro odierno era stato organizzato proprio per questo: definire cosa ne sarebbe stato di loro due.

Decidere se diventare una coppia vera.

Oppure.

 

Ore 9,45

«Passo tra mezz’ora a ritirare i vuoti» fece il cameriere dopo aver consegnato la colazione.

Quando il ragazzo uscì, il dottore portò il vassoio sul davanzale della finestra. Da lì poteva studiare le traiettorie dei pedoni, le circonvoluzioni degli autobus, le entrate e le uscite dall’ingresso della stazione, cercando di calcolare il saldo di quei flussi.

Stava partendo, ad esempio, quella famiglia che s’affrettava verso l’entrata della stazione con dei borsoni a tracolla. Stava partendo quel gruppo chiassoso di amici, che avanzava scomposto ma con una direzione comune. E quella coppietta di innamorati, che tergiversava davanti all’edificio mano nella mano.

O quell’altra coppia di pallidi turisti, che trascinava una valigia nera dall’aspetto pesante.

 

Ore 9,50

In quante circostanze Ivano aveva rovinato famiglie, distrutto vite che altrimenti sarebbero rimaste intatte? Quello dell’investigatore privato è un mestiere che sfrutta la verità come materia prima, ma la verità è una sostanza velenosa.

Quella volta, però, sarebbe stato diverso: Ivano avrebbe mentito. Era stanco di gettare dolore sulle esistenze altrui. A Isabella avrebbe risparmiato il supplizio e lui, forse, sarebbe diventato un uomo migliore.

La sua fidata macchina fotografica, che di solito immortalava le infedeltà coniugali da mostrare ai committenti, sarebbe stata oggi complice nel costruire prove false. Una volta avvertita Isabella della sua missione, l’avrebbe convinta a chiedere un’informazione a qualche sconosciuta. Per il marito, lo scatto di quell’incontro sarebbe stata la testimonianza che Isabella aveva davvero visto un’amica.

«Scusi se la disturbo, signorina» disse Ivano avvicinandosi alla ragazza. «Non è che avrebbe da accendere?»

 

Ore 9,55

 «Sta andando o tornando?» chiese Ivano a Isabella dopo averle restituito lo Zippo.

«Andando.»

«Lavoro, vacanza, amore?»

«Amicizia» fece Isabella senza guardarlo. «E lei?»

«Sono una specie di fotografo» disse lui accennando al borsello che portava con sé.

«Quali sono i suoi soggetti preferiti?»

«Nella maggior parte dei casi, donne.»

«Spero solo che non voglia fotografare anche me.»

«Era proprio quello che le volevo chiedere.»

«Nessuno si interesserebbe alle mie foto.»

«Tranne suo marito» disse Ivano.

 

Ore 10,00

Dopo avere servito la colazione alla camera 407, Michele andò nello spogliatoio dei dipendenti per recuperare il suo zaino. Ne estrasse la Beretta carica e il cilindro del silenziatore, nascondendoli poi sotto la marsina.

Non poteva sbagliare. Non dopo tutti gli anni passati a esercitarsi al poligono. Anche se non aveva mai sparato a una persona.

Luminare, lo chiamavano. Invece il Dottor Marchi era un assassino che non aveva mai passato un giorno in galera. Perché chi uccide con un bisturi fra le dita può riuscire a far passare l’episodio per una fatalità, invece che per una grave negligenza.

Ma se la giustizia non aveva condannato il colpevole, Michele aveva già formulato la sua sentenza.

 

Ore 10,05

Isabella gettò il mozzicone fuori dal finestrino. Ivano, nel frattempo, le sorrideva come se sapesse di lei qualcosa in più di ciò che un estraneo dovrebbe conoscere. Accarezzava il proprio borsello come il pelo di un gatto.

Doveva trovare una scusa per levarselo di torno.

Notò la vicina di sedile che stava tornando dalla sua pausa toilette.

«Devo andare in bagno. Mi dà un’occhiata alla valigia?» chiese a Ivano accennando al bagaglio della signora sulla cappelliera.

«La aspetto» fece lui osservandola alzarsi.

 

Ore 10,10

Dopo cinque minuti, Isabella non era ancora tornata. Ivano rimase così in silenziosa compagnia della signora che scarabocchiava parole crociate.

Non era da lui farsi fregare così.

Ivano si alzò dal posto per cercare Isabella. Se la avesse persa di vista avrebbe tradito due volte se stesso: avrebbe fallito sia come investigatore privato, sia nel suo tentativo di espiazione.

Attraversò l’intero convoglio di vagone in vagone, sperando di ritrovare il vestito a fiori della ragazza. Si districò tra una selva di corpi, carrozzine, valigie, bambini irrequieti. Quando alla fine intravide Isabella, il treno era ormai approdato a destinazione.

«Isabella!» urlò Ivano. Le porte si erano però già spalancate, lasciando uscire l’inseguita.

Ivano balzò giù dal treno e guardò attorno. Niente Isabella.

Allora imboccò il sottopassaggio, lo percorse rapidamente e riemerse nel vasto atrio della stazione. Forse la ragazza si sarebbe fermata lì per verificare sul tabellone gli orari di un’eventuale coincidenza.

Nel salone affollato, Ivano si mosse a scatti per cercarla. Urtò qualche viaggiatore di passaggio. Fu urtato a sua volta da una coppia di ragazzi pallidi, che marciavano spediti verso l’uscita.

 

 Ore 10,15

Aspettando Isabella, il Dottor Marchi continuò a osservare dalla finestra le vite ignote che gli scorrevano davanti. Si divertiva a immaginarne la quotidianità, le gioie e le frustrazioni, i motivi dei loro spostamenti.

Notò anche una coppia di ragazzi, un uomo e una donna, uscire dalla stazione con urgenza. Gli parve di riconoscere gli stessi che pochi minuti prima vi erano entrati con una grossa valigia nera dall’aspetto pesante.

Solo che la valigia non era più con loro.

  

Ore 10,20

Prima di digerire le brioche, il Dottor Marchi sarebbe morto. Questo pensò Michele salendo in ascensore, con la Berretta silenziata celata sotto la marsina.

In cuor suo confidava di cavarsela: sarebbe sparito dalla stanza in breve tempo e avrebbe gettato la pistola in un bidone dell’immondizia. Il receptionist sapeva che era stato lui a portare la colazione al dottore, ma questo non significava che l’avesse anche ammazzato. La polizia lo avrebbe messo sotto torchio, certo, ma trovare le prove sarebbe stato complicato. Ancora di più il movente.

Nessuno avrebbe ricondotto quell’omicidio a ciò che era avvenuto quindici anni prima.

Quando il cuore di suo padre smise di battere per colpa del Dottor Marchi.

 

Ore 10,25

Il Dottor Marchi calcolò che Isabella sarebbe comparsa davanti a lui da un momento all’altro, assieme alla sua richiesta da resa dei conti.

Non si poteva più rimandare, a sentir lei. La loro relazione chiedeva una scelta senza compromessi: riparare nelle loro tiepide esistenze di sempre oppure strappare al futuro un’altra vita possibile.

Dipendeva solo da loro. Dipendeva solo da lui. E lui aveva deciso.

Quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrebbe visto Isabella.

Poi, sentì bussare alla porta.

Avvicinandosi alla camera 407, Michele si domandò se avesse ancora intenzione di farlo. Da quel giorno in poi sarebbe diventato un assassino: una condizione da cui non è possibile tornare indietro.

Tirò fuori la Beretta e con la mano libera bussò forte.

«Avanti» sentì dire.

Il dottore non aveva chiuso la porta, così gli bastò abbassare la maniglia per ritrovarsi dentro.

Marchi era affacciato alla finestra, dandogli le spalle.

Michele alzò la pistola e la puntò dritta alla schiena dell’ospite. La sua rabbia si sarebbe sublimata in vendetta.

Dopo avere perlustrato l’atrio della stazione, Ivano uscì nel piazzale davanti all’edificio. Guardò attorno cercando la ragazza. Setacciò con gli occhi la fermata degli autobus, l’area di sosta dei taxi, i marciapiedi che portavano via da lì.

Di Isabella, nessuna traccia.

L’attimo prima che Michele premesse il grilletto, un boato squassò l’aria e un’eruzione di fiamme e detriti fu sputata fuori dall’edificio della stazione inquadrato dalla finestra.

Lo spostamento d’aria travolse il dottore, che si sbilanciò e cadde a terra.

Michele rinfoderò la Beretta nella marsina e corse alla finestra.

Davanti a lui, l’apocalisse.

L’onda d’urto investì Ivano che fu sollevato dal suolo e sbalzato lontano un paio di metri.

Una volta in piedi, si scoprì coperto di sangue. Solo il dolore che gli bruciava le carni lo convinse di non trovarsi in un incubo.

Riuscì a muovere qualche passo, scoprendo di non avere nulla di rotto. Da una parte, l’istinto lo spingeva a scappare il più velocemente possibile; dall’altra, qualcosa in lui agiva in direzione opposta.

Estrasse la macchina fotografica dal borsello e verificò che funzionasse ancora. Si mise quindi a fare scatti a ciò che aveva di fronte. Forse, grazie a quelli, qualcuno avrebbe dato un senso a ciò che era accaduto.

Dalla finestra della camera 407 dell’hotel Excelsior di Bologna, Michele e il Dottor Marchi videro la stazione sventrata dall’esplosione. Le macerie si erano sostituite all’ala Ovest dell’edificio, quella che ospitava la sala d’attesa.

Sotto una nuvola di polvere e fumo, il traffico stradale era andato in tilt. Alcune persone ferite cercavano di allontanarsi. Molte altre dovevano trovarsi sotto quelle macerie.

Il cameriere e il dottore si fissarono terrificati, poi Marchi disse: «Andiamo».

Scesero insieme in strada e corsero sul luogo della catastrofe.

C’era bisogno anche delle loro braccia per tirare fuori i vivi dall’inferno.

  

Ore 10,20

Isabella smontò dal treno in tutta fretta, lasciandosi alle spalle il fotografo seccatore.

Ora non rimanevano che pochi metri per raggiungere Arturo. Lui la aspettava all’Excelsior, di fronte alla stazione.

Per quanto la riguardava, non aveva più dubbi. Il divorzio le parve all’improvviso un trauma che avrebbe potuto superare senza alcuna difficoltà.

Ma non poteva dirglielo così: sciupata dal caldo, spettinata dal vento, affannata dalla fuga. Aveva bisogno di rimettersi in sesto.

Isabella si diresse allora verso la sala d’attesa della stazione, dove avrebbe risistemato i capelli, rifatto il trucco e stemperato il fiatone. Arturo non avrebbe aspettato troppo.

In fondo, sarebbero bastati appena cinque minuti.

 

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