FINESTRA IN SEDICI NONI
di Enrico Tonon
Rimangono tutti schifati quando mi strappo le unghie dei piedi. Non le stacco come i bollini delle mele, è piuttosto il movimento di quando si apre una busta delle lettere, che per quanto preciso possa essere lascia inevitabilmente delle increspature bianche sulla lamina. Siccome mi piace portare i sandali, non è raro che senza pensarci troppo io incominci ad aggredirmi le unghie attraverso i lacci, specialmente quando sono in pubblico ed il cianciare della folla mi si avvicina troppo. Nonostante l’accortezza di tenere ferma gran parte dell’unghia per evitare strappi troppo profondi, chi mi sorprende all’opera strabuzza gli occhi incredulo, e siccome nei film non vedo mai nessuno strapparsi pezzi di alluce, nemmeno in quelli di Tarantino che di piedi straripano, sto cercando di smettere. Immagino che vada bene comportarsi come nei film, ma da quando i servizi sociali mi hanno portata via ho potuto vedere un sacco di nuove opere, e sono veramente tanto confusa su quali pellicole mostrino un comportamento accettabile e quali invece no. La videoteca che mi aveva fatto papà era ben fornita, e con quella avevo imparato a parlare, a muovermi, ad arrabbiarmi se mi cadeva un bicchiere e a sopportare gli schiaffi; tutto come in un film. Non avrei saputo quale altro modello seguire, e imitare le attrici mi riempiva di gioia anche se le pellicole erano tristi, talmente cupe che sembravano prendermi a calci lo stomaco, e violente al punto di far girare la testa. Papà mi ripeteva sempre che il Mondo Fuori era esattamente così, crudele e affilato e ingiusto. Ogni volta che lo sentivo uscire, annunciato dallo scattare dei pesanti lucchetti sulla porta, avevo paura non sarebbe tornato, visto il numero di assassini, spacciatori, stupratori, truffatori, manager drogati, sociopatici, generali, e uomini della palude che pullulavano per le strade. Avevo paura perché quando veniva a salutarmi e io lo pregavo di fare attenzione, lui mostrava gli stessi occhi luminosi e la bocca sorridente degli eroi che nei nostri film morivano sempre in modi atroci. Eppure lui tornava ogni volta senza nemmeno un graffio, a volte con un nuovo CD da guardare assieme. In quelle notti traboccava buonumore, e mi faceva addirittura togliere il collare con la catena, come se si fosse dimenticato di quella volta che, per gioco, avevo provato a staccare le assi di legno dalle finestre. Avevo rischiato di essere toccata dal sole, un contatto certamente letale data la mia malattia della pelle (quella di Midnight Sun, per intenderci). E peggio ancora, avevo quasi aperto uno spiraglio per gli assassini che lo cercavano. Nonostante il rischio che ci avevo fatto correre, quando c’era un nuovo film da guardare venivo liberata, e sedevo sulle sue ginocchia mentre mi spiegava la morale del film, le tecniche di regia, e perché era da considerarsi un grande classico. Poi riattaccava il collare alla testiera del letto e mi infilava sotto le coperte. A volte appena prima di chiudermi dentro la cameretta esitava sull’interruttore, guardandomi con occhi spenti. Sussurrava che gli dispiaceva, ma non capivo cosa intendesse. Rimasta sola riattraversavo con la mente i fotogrammi del capolavoro appena visto, cercando di imitare al buio le facce delle attrici, e pensavo a come essere più ubbidiente o gradevole. Avevo un modello di riferimento, e mi sentivo felice, magari anche fortunata, senza nemmeno sapere rispetto a chi.
Poi il mio piccolo mondo esplode. Papà diventa sempre più nervoso, non mi porta più a casa grandi classici da vedere, e in generale esce sempre meno, come se all’improvviso avesse troppa paura di affrontare i pericoli del Fuori. Non me lo dice, ma capisco che lo studio televisivo lo ha licenziato. Forse gli assassini sono sulle sue tracce. Non mi toglie più la catena, e capisco che è colpa mia se lo hanno licenziato, si vede che non gli ho dato idee abbastanza buone per i nuovi episodi della miniserie, e ora devo rimediare. Continua a farmi sedere di fianco a lui mentre scrive il suo film, continua a volere il mio aiuto, ma non lo chiede più con gentilezza. Non lo chiede proprio. Appende la mia catena ad un gancio sopra il divano, piantandolo talmente in alto da costringermi a stare seduta dritta anche quando barcollo dal sonno. Mi legge la scena dagli appunti, “Non va bene”, dice gravoso. Per ore e ore scriviamo assieme, un’ordalia da subire tremante e disidratata mentre lui mi urla che questa è la sua occasione, e sbraita altre cose bruttissime quando confondo campo medio con piano medio, o la transizione tra due scene non si lega “come in un capolavoro”. Io faccio del mio meglio per assemblare i pezzi dei film che mi ha mostrato, ma raramente il mio Frankenstein lo soddisfa. Sa bene che le mie idee sono un mosaico di grandi classici, però sempre più spesso finge di scoprirci una malizia che io non so come evitare: questo è tutto il mio mondo, io non so nient’altro. “Il terzo uomo!”, esclama afferrandomi la fronte e battendo le nocche sui lividi della sera prima, “Vuoi che mi falcino per plagio? Ma perché non ragioni?”. A volte sento quel terrore, e mi pizzica vivo il dolore per le botte dell’ultima sera assieme. Ho usato di nuovo un pezzo di Pretty Woman, e lui è davvero fuori di sé. “Te l’ho fatto vedere per farti apprezzare quanto stai bene”, abbaia nel mio orecchio, “e tu provi ad usarlo per rovinarmi!”. Gonfio in volto, scaglia via i fogli che tenevo sulle ginocchia e slega il catenaccio dal muro, usandolo per colpirmi la schiena finché non mi butto a terra. Mi frusta gli avambracci, e quando smetto di opporli inizia a percuotere cosce e natiche. Lo so che non vuole farmi davvero male. Vuole solo che io soffra un po’, in modo da insegnarmi l’arte, e io voglio disperatamente diventare più educata per lui ma non riesco lo stesso a subire in silenzio. Urlo e rantolo senza sapere come smettere, quasi quel verso venisse da qualcun altro. Poi si aggiunge un altro suono, secco, udibile anche sopra lo strisciare metallico della catena. Qualcuno ha bussato, e ora urla un ordine di cui non registro nulla a parte il tono imperioso. Sembra cattivo. Non capisco cosa gli risponda papà, ma so che il nostro peggior incubo si sta avverando: ci hanno scovato. Mi sento sollevare dalle mani di papà, e d’un tratto sono accartocciata sotto il letto. Con dei singhiozzi rochi mi sta chiedendo di rimanere nascosta e tenere la catena sotto il materasso per non farmi trovare. Ricordo la voce disperata, ma non il volto. Credo di annuirgli e lui mi chiude dentro. Sotto le doghe è pieno di unghie e polvere, e tra i tossiti sento un marasma di sirene e un elicottero ruggire. “I cattivi hanno corrotto la polizia”, penso, e piango nella fioca luce azzurra che filtra dalle assi; nei film così i protagonisti muoiono sempre. Le voci nei megafoni provano ad ingannare papà, ma lui resiste, poi si sente un botto fortissimo, trattengo il fiato. Le urla sono tutte attorno, i motori girano, le pistole sono più assordanti di quanto mi aspettavo. Vorrei andasse via tutto, la polizia la stanza buia e anche lui, ma non posso che piangere, sbuffare nella polvere, e stringere forte il catenaccio tra le mani fino a che qualcosa sfonda l’ingresso, le urla e gli scoppi sono troppo, ed il bagliore lieve della camera sparisce in una nera vertigine.
Mi sveglio e scopro che è tutta una bugia. Ci sarà voluto un mese ai poveri operatori sociali per farmi capire che non volevano torturarmi. Ma sono sicura che mi perdoneranno tutti i morsi e le dita negli occhi e i Calci del Drago Nascente, che Jackie Chan faceva sembrare devastanti e io invece non so fare. L’efficacia del Kung Fu è stata la primissima differenza che ho notato tra il mondo reale ed i film, ma ne sarebbero seguite abbastanza da poterci riempire un lungo d’autore sperimentale. Per esempio, quasi subito ho scoperto che potevo avere una finestra a vetro nudo, perché lo xenoderma pigmentoso di Midnight Sun può essere tenuto a bada con la crema solare ed un cappellino a visiera. Non è affatto di una variante letale, come lui mi faceva credere. Il personale mi ha poi spiegato che le strade del Fuori non sono piene di armatissimi criminali spietati, e nonostante le passeggiate guidate fuori dalla clinica non siano mai risultate in un bagno di sangue, ancora adesso sono percorsa da un brivido quando mi tuffo fuori dalla porta. Non riesco a calmarmi anche se so che gli uomini pesce non esistono. Parte della mia inquietudine dev’essere causata dal fatto che è tutto così grande; non so come spiegarlo bene, ma viste coi miei occhi le cose sembrano più vicine, ed esistono in pose disordinate, o si allungano fuori dal campo visivo in modi che le pellicole semplicemente non mi raccontavano. Certi panorami sono distesi talmente in profondità che faccio fatica a vederli per intero. I dottori dicono che è colpa della miopia, quasi d’obbligo dopo sedici anni passati al chiuso senza mai guardare più in là di una manciata di metri, ma io dubito ci sia qualcuno davvero in grado di vedere nitidamente fino all’orizzonte. Molte cose mi appaiono sfuocate, sia davanti agli occhi che dentro la testa, e faccio del mio meglio per metterle a fuoco un passo alla volta. Certi giorni, seduta alla fermata dell’autobus e guardando verso la fontana del parco, scopro che riesco a distinguere chiaramente una fogliolina su quell’alberello lontano. Allora mi metto a ridere sotto la tesa del cappello. Ogni tanto sbaglio, come la settimana scorsa, che mi sono seduta ai tavolini del bar senza ordinare. Mentre mi cacciavano infuriati ho riso, perché avevo scoperto una regola di “convivenza comune” che ignoravo, e una piccola parte del mondo era diventata limpida perfino per me. Ho riso anche riconoscendo la gentilezza del commesso che si allungava per prendermi l’olio al supermercato, anche se sono bassa e ho le gambe storte e la faccia screpolata, e non sarò mai un’attrice come sognavo. Mi hanno aiutato lo stesso ed ho riso da sola tra i tonni in scatola. C’è così tanta passione, e conflitto, e drammaticità nella vita quotidiana. E io ignoravo non solo il mondo, ma anche il mondo invisibile che ci si nasconde dentro, lo stesso in cui ora mi immergo quotidianamente, faticando per conquistare traguardi che capisco essere scontati. Ma non per questo smetto di ridere, come una specie di ingenua Amélie in un mondo favoloso, anche se capovolto.
Gli unici momenti in cui mi sento davvero persa sono certe notti particolarmente chiare. In quelle ore pallide le corde che mi legano al passato si fanno brutalmente pesanti, e me le sento di nuovo strette attorno al collo. Intromettendosi nel mio appartamento, la luna porta un riflesso fluorescente e velenoso sulla mia stanza, di un colore pericolosamente tendente al blu girofaro della polizia. Quella luce spietata fa uscire le ombre da ogni oggetto, e mi obbliga a riconoscere le differenze tra queste nuove, pallide notti, e quelle assolutamente nere e silenziose che ho sempre conosciuto. Scappare alla luce scandagliante è la priorità massima delle mie ore serali, una necessità ancora più urgente di portare fuori la spazzatura o prendere gli stabilizzatori dell’umore. Se non scaccio l’inquietudine prima di chiudere gli occhi finisco ad affrontare la tempesta mentre dormo, e nei sogni nessuno può spiegarmi che lui è morto, e non c’è terapia né eredità, né diploma accelerato o nuovi ricordi o assegno d’invalidità che possano cancellare la sensazione di essere ancora in mezzo alla polvere, a tossire cercando di allontanare un mondo che sta irrompendo su di me. Prima di coricarmi accendo allora il televisore, lanciando tutta me stessa dentro il rettangolino in sedici noni che mi illumina il viso con immagini di uccellini rarissimi dell’America centrale. Da sola con me stessa, le regole che imparo durante il giorno sembrano nascondersi, e con un piacere animalesco lascio riemergere i tratti che dovrei sopprimere; il collo si ingobbisce, il fiato riprende a fluire dalla bocca, e le dita si adoperano sulle unghie dei piedi, strappandole come si apre una busta delle lettere. Al buio pensavo di assomigliare alle attrici di Hollywood, e l’ho pensato fino a che non ho avuto uno specchio. Dopo averlo montato alla parete ho capito di assomigliare piuttosto alle bestie dei documentari che finalmente posso vedere, con un velo di grottesca, sfacciata rustichezza dei movimenti, un alone di deviato impossibile da ripulire completamente. Ci ho provato. Ma l’abbraccio delle cattive abitudini mi culla nelle ore più difficili e infine mi seduce, mentre la stanza attorno a me inizia a farsi spigolosa, cattiva, e gli uccellini del documentario frullano leggeri ignorando la mia crescente inquietudine. C’è fin troppa luce perché sia notte. Il vetro delle finestre, senza un’asse di legno a tenerlo fermo, potrebbe esplodere in schegge da un momento all’altro, proprio di fianco alla mia guancia. Non riuscirei nemmeno a urlare per farmi soccorrere dai vicini, perché dal corridoio buio sta entrando in camera tutto il silenzio della casa. Il silenzio delle stanze inutilizzate, non vissute, il rumore degli appunti che non vengono consultati, delle posate dimenticate; un fiume di sgomento che si accalca sulla porta e mi travolge. E se la finestra dovesse poi davvero scoppiare, allora entrerebbe anche il silenzio terribile del Mondo Fuori mai conosciuto, il mare nero di anime nate e morte senza sentire il messaggio del profeta, silenzio del limbo che non aspetta altro di assimilare il mio, e mi sento quel gangster di Billy Bathgate, in bilico su una barca con le scarpe di cemento ai piedi. Nel televisore l’amazilia dell’Honduras, le sue sottili e oblunghe alette d’onice ripiegate lungo i fianchi con tutta la calma del mondo ormai mi fa impazzire. Lo zampettare innocente lungo i rami mi fa una violenza mentale caustica, mentre il suo becco minuto sussurra quante cose sarei potuta essere. Mi avvento sul lettore DVD, lo svuoto senza avere controllo delle mani e rovescio lo schermo ormai pieno di statico grigio. In astinenza affondo le unghie negli scaffali, non so nemmeno se sono in piedi o a gattoni ma continuo a sbudellare la libreria con la necessità di un malato, finché non poso le dita sulla cassetta dalla plastica morbida e rovinata di un “grande classico”. Pensandoci bene la sola vista di quei sorrisi di tre quarti sulla copertina dovrebbe bastare a rivoltarmi lo stomaco, eppure la musica malinconica delle trombe, i panorami in bianco e nero di Roma o Washington, le voci gracchianti degli attori, tutti i simbolismi e le atmosfere che logicamente mi dovrebbero repellere, inserite nel lettore mi carezzano invece con tatto delicatissimo. Quando mi riprendo, scopro di essere sul pavimento. Sul viso ho lacrime fredde e tra le dita dei piedi sangue tiepido gocciola giù dalle unghie. Ci sono di nuovo ali e becchi nello schermo ribaltato, ma sono del ‘63, in bianco e nero, e attaccano i protagonisti senza motivo. La psicologa mi ha avvertito che non devo assolutamente continuare a guardare queste pellicole. Dice che appartengono al mio passato, che sono troppo legate ad un evento traumatico e non sono ancora pronta. Mi chiedo quando lo sarò, secondo lei, se undici anni di vita vera ancora non bastano. Però non ha tutti i torti: mentre dei bianchi titoli di coda scorrono su una rotonda invasa dai motorini due-tempi, penso che forse sarebbe stato meglio non essermi mai svegliata da quel sogno. Magari sarei stata più felice nel Matrix, senza un garbuglio insensato di sentimenti, senza conoscere sulla mia pelle le gioie e la devastazione dei rapporti col prossimo, filtrando tutto attraverso un monitor LCD. Mi chiedo quanto di questo sentimento sia sana nostalgia per l’infanzia e quanto sia il risultato di una concezione storta e marcia dell’affettività. La risposta non è importante, d’altronde nel buio della mia camera, tra Hitchcock e Fellini dentro il monitor ammaccato, i bordi del malato e del normale si mescolano spesso e volentieri, e la poltiglia che ne risulta non compare negli studi sugli altri bambini ferali, né tantomeno tra gli appunti della mia dottoressa. Quindi ho deciso di continuare a essere ciò che mi sento. Alle sedute annuisco con lei davanti a discorsi sulla crescita e la proiezione del trauma, e poi le mento spudoratamente. In condizioni normali credo se ne accorgerebbe subito, ma con me non applica i protocolli standard, non capisco se perché glielo impone qualche procedura speciale o se dubita semplicemente delle mie capacità cognitive. Fatto sta che riesco a mentirle, e le faccio lunghi discorsi sul mio “fidanzato” che non mi dice mai chiaramente di amarmi. Lei mi crede, io continuo a guardarmi i miei classici, che mi calmano e mi pugnalano appena più dolcemente rispetto alla vita vera, e quando mi sveglio tutto quel tumulto è passato con la notte, ed un nuovo giorno si apre fuori dalla porta. Continuo ad affrontarlo ogni mattina con una punta di timore, come un bambino che ha appena tolto le rotelle alla bicicletta ed è certo di dover cadere se si azzardasse a frenare. Ma superata la porta e arrivata sotto la pensilina dell’autobus, un nuovo ramo emerge nitido dal grumo indefinito che è l’albero vicino la fontana. Allora magari proverò a mandare quel provino per il posto da dialoghista allo studio. Sarò pure un pesce intrappolato nello stagno in cui è nato, ma nulla mi impedisce di essere felice, nel mio stagno. E sono sicura che un giorno i documentari non mi faranno più paura, capirò pienamente come si sta in mezzo alla gente, e vedrò chiaro fino a dove il sole tocca la terra. Riesco quasi a immaginarmi la scena:
ANGOLO ALTO – CAMPO LUNGO – CITTÀ DI NOTTE
Il titolo IL MIO FUTURO in sovrimpressione esce in dissolvenza – la voce fuori campo parla.
VOCE FEMMINILE
Sono passati un totale di quindici anni dalla sera polverosa-
CAMPO MEDIO – INGRESSO DELL’APPARTAMENTO
su un lato sono visibili le cassette della posta ed i campanelli.
VOCE FEMMINILE
-in cui sono nata un’altra volta.
CAMPO MEDIO – FINESTRA DELLA CAMERA
È spalancata. La camera all’interno è illuminata dalla luna e dal televisore. Luce dura fredda. Una donna curva è seduta sul letto e si tocca i piedi.
TELEVISIONE
L’ultimo pulcino apre gli occhi in un mondo disperatamente ostile, bruciato dal-
CAMPO TOTALE – STANZA DA LETTO
Alle spalle della donna, si nota una porta chiusa. Luce esce da sotto di essa.
TELEVISIONE
-sole impietoso. In un modo o nell’altro, i piccoli devono trovare un modo per raggiungere l’acqua dolce.
PRIMO PIANO – SCHIENA E NUCA DELLA DONNA
Vediamo sopra le spalle lo schermo del televisore. Va in onda un documentario, in cui migliaia di pulcini di fenicottero corrono sopra una distesa di sale arido. Una musica snervante si fa più forte.
DETTAGLIO – OCCHI SPALANCATI DELLA DONNA
TELEVISIONE
In molti non ce la fanno.
La porta si apre rumorosamente. Una seconda voce parla.
SECONDA VOCE
Ma cosa stai facendo?
CAMPO MEDIO – LA DONNA SEDUTA SUL LETTO
È presa alla sprovvista. Tra le dita di una mano, stringe un pezzo di unghia che ha strappato dal piede. Il volto della seconda figura è nascosto alla camera da un soprammobile.
SECONDA VOCE
Ti stavi… strappando le unghie dei piedi?
Momento di silenzio. La musica della televisione è smorzata.
VOCE E SECONDA VOCE
(Ridono)
TELEVISIONE
Non sanno ancora volare, quindi devono camminare attraverso le distese di sale. Ma dovessero volerci giorni, arriveranno all’acqua dolce.