PELLICOLA A DUE
di Caterina Fassina
Prima scena. Il colore della notte riflesso sulla parete bianca. Avrebbe dovuto dare una mano di vernice. Erano passati quattro anni dall’ultima volta che suo marito aveva composto il numero dell’imbianchino con le dita incastrate dall’osteoporosi. Si erano trasferiti in quella villetta suburbana quando era rimasta incinta del loro secondogenito. Dopo qualche aborto spontaneo sofferto in silenzio- così usava all’epoca- erano riusciti a dare un fratellino ad Anna. Con i capelli raccolti in due codini rosa e il biberon ancora in bocca, la bambina posava le manine su quell’insolita sporgenza che ogni tanto lanciava un calcio spaventandola di curiosità. Le avevano spiegato che dopo due notti in ospedale la mamma sarebbe tornata con Marco, un bambino che avrebbe dormito nella stanza vicina alla sua. Entusiasta, Anna li aveva aiutati a montare la culla e loro l’avevano incoraggiata a scegliere il pupazzetto da regalare al nuovo arrivato. Sapendo che si trattava di un maschio, la bambina aveva optato per un orsacchiotto con una salopette blu. A lei, la nonna aveva portato un cagnolino color crema con un cuore rosso fuoco al posto del collare.
I suoi occhi si scostarono dalla parete. Migrarono verso il divano grigio dalla parte opposta del salotto. Quello sarebbe stato il suo posto, ma si era lasciata andare sulla poltrona perché le gambe si erano rifiutate di condurla così lontano. Vi si era accasciata come un soldato mangiato dai batteri della trincea. Il divano grigio glielo avevano regalato i figli di Anna per il suo compleanno. Sospettava che lo avessero comprato per stare più comodi quando riparavano a casa sua per i ravioli al ragù della domenica. Con le pance piene, sceglievano un film dalla collezione di DVD messa insieme negli anni da lei e suo marito Pietro e che avevano riposto sulla libreria affianco al televisore. Pietro si divertiva a dibattere con i nipoti sul regista che avrebbero scelto quella settimana. “Io mi butterei su un classico Visconti,” li provocava. Quelli roteavano gli occhi: “Per l’amore del cielo, nonno, troppo impegnato. È domenica, guardiamo De Sica.” Da quasi vent’anni, i loro pomeriggi domenicali si consumavano insieme alla storia del cinema italiano. La poltrona era il posto di Pietro. I bambini si accoccolavano a turno tra le sue gambe e, quando quel rifugio era già occupato, i piccolini si arrampicavano sui braccioli per raggiungere la pancia del nonno. Di fatti, quei braccioli erano ciò che di più consumato esisteva in quella casa, ma nessuno aveva avuto il cuore di cambiare la poltrona. Solo il divano. Decise che non avrebbe nemmeno lavato i cuscini. Quel profumo al bergamotto non poteva essere offeso con un banale ammorbidente da scaffale.
L’orologio a pendolo ticchettava dalla sala da pranzo. Tic. Rimbombava per la casa. Tac. Anche Marco era cresciuto. Ora viveva con Elisa, una bionda avvocatessa- o avvocato, non aveva mai capito come volesse essere chiamata- e stavano aspettando un maschietto. I loro figli erano diventati personaggi secondari del film suo e di suo marito. Stavano scrivendo le proprie sceneggiature in cui si sarebbero sostituiti al protagonismo dei genitori. Erano rimasti solamente lei e Pietro, attori e registi del loro film neorealista che correva sulla pellicola da sessant’anni.
Non sentiva alcun languore, ma il buio le suggeriva che si era fatta l’ora che la gente distratta chiama cena. Quando si rompe qualcosa, tutto si rimette in discussione e persino cenare diventa un movimento meccanico se a mangiare si è da soli. Non avrebbe trovato suo marito in cucina con un canovaccio sulla spalla mentre canticchiava le canzoni su cui da giovani avevano scatenato i muscoli.
Dalla finestra entrò il baleno di due fari bianchi. Il vicino era rientrato con la spesa. Da quella finestra, squadrata come una cinepresa, Pietro l’aveva vista allattare Marco seduta sul divano che avevano scelto insieme. Sessant’anni prima, la finestra di una balera urbana aveva invece incorniciato i suoi fianchi non ancora allargati dai parti. Pietro l’aveva notata mentre era in coda per pagare l’ingresso. Due amici conosciuti in università l’avevano convinto ad abbandonare i manuali e sempre loro l’avevano incoraggiato a offrirle una gazzosa. Pietro mai si sarebbe sognato d’incontrare una donna stimolante in una sala da ballo. Aveva programmato d’imbattersi in una schiva castana che si attorcigliava un ricciolo attorno a una matita nel chiostro dell’università. Aveva pure arbitrariamente deciso che sua moglie avrebbe dovuto amare Sartre. E invece era inciampato in una bionda procace che conosceva Sartre solo per la relazione da rotocalco con la Beauvoir.
Sorrise ricordando l’espressione di Pietro quando quella sera le aveva chiesto la sua opinione sull’esistenzialismo. Pensava di nobilitare l’imbarazzo del flirt, ma lei tagliò corto: “S’illudono di essere autosufficienti. Preferisco i film di Fellini.” Il collo di Pietro cominciò a sudare sotto la cravatta. Anche lei studiava in università, ma prediligeva il rumore della musica e le borsette al profumo di naftalina che pescava nell’armadio di sua madre. Per questo, quando quel ragazzo aveva iniziato a sproloquiare sul dramma della vita, lei aveva sbottato: “Il dramma già lo vivo, non ho bisogno anche di parlarne.” Pietro si era contorto sulla sedia di latta mentre sentiva le guance diventare vermiglie. Lei aveva buttato giù un sorso di gazzosa mentre gli occhi verdi di Pietro avevano iniziato la ritirata. La mente tornò alla sua giovane castana seduta nel chiostro, ma una mano smaltata di rosso entrò nel suo campo visivo. Alzò la ripresa e vide quella bionda guardarlo con aria di sfida: “Allora? Balliamo?” Lo incalzò muovendo le dita. Avrebbe voluto dirle che stava in piedi per miracolo, figurarsi ballare, ma intuì che gli era appena stata offerta una seconda opportunità. Aveva preso quella mano morbida come la buccia di una pesca e si era fatto trascinare al centro della pista. Increduli, i suoi due compari seguivano la scena schiacciati in un angolino della sala. Iniziarono ballando un twist e quella notte si allungò per sessant’anni.
Avevano smesso di ballare quella mattina. Pietro aveva iniziato a tossire qualche giorno prima. La solita allergia ai pollini che ogni primavera lo trasformava in un bambino con i lucciconi agli occhi. Solo che questa volta la primavera non aveva ancora iniziato a sbocciare e gli occhi di suo marito non si erano colorati di rosso. Quella tosse insistente la tenne sveglia l’intera notte, sperando che i respiri tra un colpo e l’altro continuassero a fare il loro dovere. Dopo quattro giorni, la dottoressa gli consigliò di sottoporsi a quello che entrambi temevano.
Le riprese del loro sessantesimo anniversario di matrimonio erano state accompagnate da una colonna sonora di ambulanze fuoricampo. Nipoti e figli erano inquadrati dall’altra parte dello schermo del cellulare di Pietro. Volti che si susseguivano perché sessant’anni d’amore danno vita a troppe esistenze e tutte insieme non entrano nella telecamera di un telefono. Il loro Marco gli aveva fatto recapitare una torta con crema chantilly e frutta fresca, la preferita di mamma. Il pasticcere gliel’aveva consegnata grato che qualcuno festeggiasse di modo da poter riaprire la sua cucina. Pietro aveva ordinato dei gigli con cui le aveva incorniciato il caffelatte. Lei gli aveva invece regalato il DVD della conversazione in bianco e nero tra Hitchcock e Truffaut. Sapeva che avrebbe soddisfatto il suo amore per la filosofia e avrebbe reso felice la loro comune passione per il cinema. Durante quei sessant’anni, aveva imparato che il cinema è la continuazione materiale della filosofia. Forse per questo l’aveva invitato a ballare quella sera. Lui Sartre, lei Fellini. “Anche dopo sessant’anni, continui a rimanere un mistero,” aveva sentenziato Pietro mentre scorreva il dito sul retro della confezione. Le ambulanze continuavano a suonare, ma nessuno dei due le sentiva più.
La dottoressa gli consigliò una farmacia dove avrebbero potuto effettuare quel test. L’espressione serafica sul volto di suo marito aveva finito con innervosirla ancora di più. Come faceva a sorridere nell’incertezza? Non era più insicuro, lui, sul futuro che li avrebbe colpiti da lì a qualche scena? Si coricarono nel letto come avevano fatto tante volte, ma quella sera la pellicola si riavvolse alla prima notte in cui avevano fatto l’amore. Supino, Pietro le aveva cinto il fianco mentre lei respirava il calore del suo petto. Anche quella sera, suo marito si era disteso e le aveva fatto cenno di arrampicarsi affianco a lui. Questa volta, riposò però il capo sulla sua pancia, come fosse uno dei loro nipotini, preoccupata che il suo peso non causasse ulteriore sforzo ai polmoni di quell’uomo così sereno. Si addormentarono nell’intimità di un amore che non necessita più di fisicità per bruciare. Chi fa l’amore per tanti anni sa che non ci si può confondere con l’altro tramite il respiro. Non ci si può fondere proprio perché l’amore preserva il mistero di un corpo che appare ogni volta differente. L’amore si sceglie, e solo dopo si fa. E quella notte si scelsero ancora.
Il giorno seguente, Pietro si recò in farmacia. Esito positivo. Lei trasalì, lui invece rimase ancora quieto. Si chiese come facesse. Le loro pellicole si divisero per la prima volta dopo sessant’anni. Dato che lei non mostrava sintomi, Pietro si allontanò e l’amore che li aveva uniti per molti anni li separò. Lo sentiva tossire, gli lasciava l’acqua fuori dalla porta insieme ai suoi piatti preferiti. Vagava febbrilmente per quella casa che ora le appariva scarna mentre il terrore riempiva i suoi passi. Dormì nella camera degli ospiti, quella che avevano una volta arredato per Marco insieme ad Anna. In realtà sonnecchiò per bisogno fisiologico, i suoi occhi non si chiusero mai del tutto. Aspettava i colpi di tosse di Pietro e con quelli l’alba. La luce avrebbe migliorato tutto, no? È nel buio che si girano i film dell’orrore.
Il mattino tradì però le sue aspettative e le condizioni di Pietro si aggravarono. Chiamò Anna per dirle che il papà faceva fatica a respirare. Tossiva in continuazione e lo sentiva lamentarsi di quel macigno che gli si era accoccolato sullo sterno come il suo capo molti anni prima. Anna disse che avrebbe chiamato Marco per decidere cosa fare. Si rannicchiò vicino alla porta della camera matrimoniale, cadenzando singhiozzi sommessi con i colpi di tosse di suo marito.
Quello che successe dopo, non lo voleva ricordare. Un montaggio confusionario. Sirena. Tubi. Aghi. I soccorritori portarono Pietro verso l’ambulanza parcheggiata nel vialetto fuori dal salotto. Si precipitò alla finestra. Mentre aprivano le portiere posteriori, Pietro si voltò per guardarla ancora una volta da quella finestra. Lei gli sorrise come quando l’aveva scoperto sbirciare il suo seno mentre allattava Marco. Prima di essere issato sull’ambulanza, Pietro impresse sulla sua pellicola quei fianchi, ora larghi e immobili. Pregò che tornassero a ballare. Dopo di che, Caronte riscosse il suo compenso.
Quel pomeriggio c’era stato il funerale, ma rimase confinata in casa perché, nonostante non mostrasse sintomi, anche lei era risultata positiva. Sapevano che si sarebbero dovuti dividere; dopo un po’, persino il cinema italiano termina le pellicole. Non si può campare di repliche e loro due si amavano troppo per sognare di morire mano nella mano. Non riusciva però a mandare giù che l’ultimo respiro di suo marito fosse stato regalato a qualche sconosciuto. Lei non c’era, nonostante ci fosse sempre stata. L’unica cosa che pareva confortarla era il desiderio pulito, amante del suo passato e lieto del suo futuro, con cui Pietro l’aveva guardata ancora una volta da quella finestra. Lui aveva capito qualcosa che tradiva il copione, ma che a lei ancora sfuggiva. Si diresse verso la cucina. Mise su del blues. La prima scena del suo ultimo capolavoro da attrice protagonista.