Racconto 1° Classificato – Quarta Edizione – 2021

GLI EROI DEI FILM MUOIONO SEMPRE

di Maena Delrio

 

A Mirko

 

L’orologio scandisce i secondi, i minuti, le ore. Il ticchettio cadenzato riempie la stanza, interrompe il flusso liquido del silenzio che ci avvolge, accompagna il suono del macchinario che monitora le tue funzioni vitali. È buffo ritrovarci qui, dopo tutto questo tempo. La prima volta è stato vent’anni fa, ma c’eri tu a vegliarmi. Io avevo appena iniziato a vivere. A parti invertite, mi sembra un controsenso. Assurdo, vero? Osservo i tuoi lineamenti, sotto le garze che ti ricoprono il volto. Hanno fatto del loro meglio, credo. I medici, in sala operatoria, ti hanno ricucito bene. Hanno detto che se ti salverai non si vedrà quasi niente. Anzi, togli pure il se. Li avresti dovuti vedere, sembrava di essere sulla scena di un film, tutti quei camici azzurri e verdi che si muovevano in sincronia! La barella sparata alla velocità della luce per i corridoi, le luci potenti della sala operatoria, la flebo infilata nel braccio, le piastre appoggiate sul tuo petto… non ricordi nulla? Ti hanno dovuto rianimare, il tuo cuore si era fermato un poco. Roba da niente, eh. Loro si sono preoccupati, è il loro lavoro.

Io no.

Lo sapevo che ti eri solo presa una piccola pausa dalla vita, un sospiro prima di riprendere a lottare. Ti da fastidio il tubo in gola? A me ne darebbe. Era necessario, hai avuto bisogno di più ossigeno, perché un polmone è danneggiato. Credo che sia stata la ferita che ha destato maggiore preoccupazione, ma hanno rimediato anche a quella. Ci hanno messo un sacco di tempo.

S’è fatto tardi, il primo turno è già tornato a casa, ma io sto qui. Finché non ti svegli rimango con te.

Comunque, prima ho detto una cazzata. Non è vero che sembrava la scena di un film.

Quando ti hanno portata in pronto soccorso è successo un macello. L’ambulanza ha dovuto fermarsi a dieci metri dall’ingresso perché uno stronzo aveva parcheggiato proprio lì di fronte. La gente che aspettava in fila per entrare all’accettazione non si è spostata fino a che un operatore non ha preso tutti a male parole. Non te le ripeto, tranquilla, so che non vuoi che usi un linguaggio scurrile in tua presenza. Comunque, alla fine li hanno fatti passare con te sulla barella. Ti hanno coperto con un altro telo bianco perché il primo sembrava un grembiule da macellaio. Un tizio tamponava la ferita sul tuo addome e un altro ti ha ventilato tutto il tempo con un palloncino manuale. La barella ha sbattuto due volte sul muro per come andavano veloci e scoordinati. Le ruote andavano per i fatti loro, come quelle dei carrelli del supermercato. I medici sapevano già tutto perché erano stati avvisati mentre ti stavano trasportando in ospedale, perciò non hanno chiesto nulla. In chirurgia qualcuno stava ancora indossando il camice quando ti hanno deposto sul letto operatorio. Mentre chiudevano le porte, ho visto uno farsi il segno della croce. Un altro si è portato una mano alla bocca quando ti hanno levato quei teli imbrattati di dosso. Un’infermiera è sbiancata. Le hanno urlato di riprendersi o uscire, che non avevano tempo per soccorrere anche lei. Ha annuito, le è scesa una lacrima, ma non è andata da nessuna parte. Gli operatori del 118 sono rimasti fuori ad aspettare, come se temessero che avessi ancora bisogno di loro e che, se fossero andati via troppo presto, ci saresti rimasta male. Avevano tutti gli occhi lucidi. Quello che ti ha tamponato le ferite l’ho beccato dietro a una macchina, in fondo ai parcheggi, che vomitava. Aveva ancora la giacca sporca del tuo sangue.

Non è vero che il sangue è rosso vivo. Secondo me nei film sbagliano proprio tutto. Quello che esce da dentro è scuro e denso, sembra melassa. Ha un sapore metallico, fetido, ti riempie la bocca. Sai, come i pensieri profondi, diversi da quelli leggeri e impalpabili che nascono dietro gli occhi. Intendo quelli generati tra la gola e l’esofago, trattenuti insieme al pianto nei momenti di sconforto. Sono fatti della stessa sostanza del sangue che viene da dentro. Sono grevi, vischiosi, carichi di rifiuti che l’organismo ha etichettato come pericolosi, inservibili. Li senti risalire lentamente, come un’ondata di marea. Sono dolorosi nel venire a galla, saturano i tessuti e impregnano le cellule di una sorta di veleno invisibile al loro passaggio. Intossicano. E ti rendi conto che faresti bene ad arginare quella diga rovinata, ma una volta che i pensieri hanno cominciato a venir su, traboccano senza sosta.

Quando ti hanno portato in rianimazione, dalla sala operatoria, hanno permesso solo a zia di entrare a vedere come stavi. Deve averne avuti parecchi di quei pensieri, perché nonostante avesse promesso ai medici di controllarsi, quando ti ha visto piena di fili, bende e tubi ovunque, è crollata in ginocchio e ha cominciato a urlare. Meno male che tu non potevi sentirla, ti hanno messo in coma farmacologico per permettere alle tue ferite di rimarginarsi. Non è stato un bello spettacolo, l’hanno trascinata via di peso e le hanno dovuto somministrare un calmante. Non ha avuto la forza di raccontarti nulla di quello che è successo, e forse è stato meglio così. Una volta ho letto che, in seguito a traumi particolarmente forti, certe persone vanno incontro a un’amnesia selettiva. Quando si svegliano non ricordano nulla di ciò che è successo, il loro cervello si sintonizza sull’ultimo ricordo felice, e il resto rimane immerso nell’ombra. E tu, eri felice davvero ultimamente? Ti vedevo giocare, scherzare con noi; ma la tua serenità era reale o era solo una facciata? Quella sera ti ho sentita piangere, in cucina, dopo cena. Mi hai giurato che non era nulla, solo un piccolo senso di sconforto. Non ci ho creduto. Eri preoccupata, per lui. Era uscito dal carcere da poche settimane, lo avevi intravisto al supermercato. Avevi telefonato ai carabinieri, ma ti avevano risposto di non preoccuparti, che probabilmente eri stressata e lo avevi solo immaginato. Io ti ho creduto. Ti ho giurato di starti sempre vicino, che ti avrei protetto dagli orrori del mondo, così come tu hai fatto con me fino a quel momento. Mi hai accarezzato il volto e mi hai detto che avrei dovuto radermi perché avevo le guance ruvide, e ogni volta che mi baciavi ti pungevi le labbra. Siamo scoppiati a ridere, insieme. Scommetto che è stato quello il tuo ultimo ricordo felice, noi che ridiamo in cucina, io che cerco di strofinare le guance sulla tua faccia e tu che fai finta di respingermi, ma continui a tenermi stretto.

Alla fine l’ho fatto davvero, mamma. Ho mantenuto la promessa. Non avrei potuto tirarmi indietro, anche se avessi voluto. Me lo hai insegnato tu, a essere coraggioso. Eravamo solo io e te, in casa. Quando ho sentito quel rumore di vetri rotti, ho pensato al gatto. Quel bastardo peloso e il suo vizio di salire sulla credenza! Ho detto tra me, vedrai che ha buttato giù qualcosa. Non mi son alzato subito, avevo sonno. Mi maledico per questo. Forse, se non avessi temporeggiato nel letto, ora non saresti qui, piena di elettrodi attaccati al petto e drenaggi che ti escono da ogni parte.

Il soggiorno era in penombra. Non era ancora l’alba, ma il momento che la precede, quando il cielo comincia a rischiararsi e le ombre si ritirano lentamente, descrivendo strane figure sui muri, prima di arrendersi e scomparire. Per questo motivo, anche se ho sentito le tue urla, non ho capito subito cosa stesse succedendo. Era una scena troppo surreale. Il set di un film splatter, di quelli che in tv danno in seconda serata, con attori di terz’ordine nemmeno tanto bravi che si muovono meccanicamente, e tu riesci a prevedere tutte le loro mosse. Solo che casa nostra non era un set, e nessun regista stava riprendendo la scena. Tu eri rannicchiata su te stessa, le mani di fronte al corpo nel tentativo di riparare gli organi vitali, la vestaglia a brandelli che offriva ben poco riparo dalla lama del coltello. Lui, chino su di te, come un lupo famelico che ha bloccato la sua preda e si accinge a affondare i denti nelle carni, per divorarla mentre è ancora viva. Ho afferrato la prima cosa che ho trovato. L’ho colpito, si è accorto di me, la bestia. Ho visto la lama che mi calava addosso, perforava la pelle, tagliava, penetrava fin dentro le ossa. Non è vero, sai che si prova dolore subito. Non ho sentito niente. L’adrenalina, suppongo. Nei film d’azione chi viene colpito piange, si dimena, si butta a terra e fa fatica a respirare. Io non ho provato nulla di tutto questo, te lo giuro. L’unico dolore che sentivo era quello provocato dalla vista di te che agonizzavi sul pavimento. Non so quante volte mi abbia colpito, una, dieci, cento. Al tg hanno detto che ci sono state inferte cinquanta coltellate, sommando le mie e le tue. Io ne ho incassato una di troppo. Lui è scappato dalla porta principale, sono riuscito a inseguirlo per le scale, ho chiamato aiuto. Mi hanno trovato lì, seduto sui gradini. Ho visto il sole sorgere, prima di chiudere gli occhi.

Mamma, so che questa vicenda ti renderà molto triste.  Ma non devi esserlo. Mi hai donato la vita, ti ho restituito il favore. Dicono che sia innaturale per una madre sopravvivere ai propri figli. E forse hanno ragione. Io però sono egoista. Qui non posso sentire la tua mancanza, né il dolore della perdita, e nemmeno la nostalgia della vita. A parti invertite, invece, mi aspetterebbe una vita intera col rimorso per non averti protetto. Dicono che sono un eroe. E gli eroi dei film, quelli veri, muoiono sempre per mettere in salvo chi amano. Lo sappiamo entrambi. Io il copione l’ho rispettato. Ora tocca a te fare la tua parte e vivere per non vanificare il mio sacrificio.

Non avrei voluto morire. Non avrei voluto essere un eroe. C’è davvero qualcuno che lo vorrebbe? A noi è capitato. Nessuno ci ha difeso, l’abbiamo fatto da soli. È ingiusto, ma che vuoi farci? Mi hai ripetuto spesso che la vita non va come vorresti. Si tratta di fortuna. O ne hai, o non ne hai. Non deludermi, mamma. So che sei forte.

Sono passati dieci giorni da quando siamo arrivati qui, io e te. Tu in una barella, io in un sacco. Stamattina hai aperto gli occhi. E’ stato un attimo, ma l’infermiera che ti stava cambiando la sacca per l’urina se n’è accorta e ha lanciato un urlo. La sacca le è scivolata dalle mani, ha fatto un casino per terra. Vedessi come tremava! Sono arrivati i medici, dicono che sei fuori pericolo, anche se dovrai rimanere qui ancora per un po’. Hanno festeggiato. Ti vogliono tutti bene. Sto pomeriggio forse i medici concederanno ad Alessia e Paolo di entrare a farti un saluto. Mi mancano già i miei fratellini. Non so se Ale abbia capito tutto quello che è successo, ma Paolo sa. Sono preoccupato per lui, è taciturno. Sento la sua rabbia scorrere sottopelle, la notte digrigna i denti e stringe i pugni sul cuscino. Non ha pianto mai, nemmeno al mio funerale, si sta tenendo tutto dentro. Si sente in colpa perché non era lì a proteggerti. E anche se so che ha torto marcio, non lo biasimo: avrei provato la stessa cosa al suo posto. Ha bisogno di te, mamma. Muoviti a guarire perché solo così potrai curare la sua ferita.

Hai pianto tantissimo ieri, abbracciata a zia. Non c’è bisogno. Davvero. Io sto bene. Solo che ora devo andare. Hai presente Ghost, quando Patrick bacia Demi e sparisce nel cono di luce? Ecco. La Luce c’è davvero. Mi sta aspettando da un po’. Gli ho chiesto qualche momento per salutarti, e ha acconsentito. Ci posso parlare con la luce. Mi ha chiesto se ho paura. Ci ho riflettuto, e gli ho risposto che sì, ne avevo, ma ora non più. Ora che sei al sicuro so di aver adempiuto il mio compito. Ciascuno di noi nasce sotto una stella, mamma. La mia si sta spegnendo, ma non sono triste. Ti ho baciato sulla fronte, qualche secondo fa. Ho visto che te ne sei accorta perché hai chiuso gli occhi e trattenuto il respiro. Ti amo, ti ho sussurrato all’orecchio. Hai percepito quel soffio sottile? Sì, ero io. Dal posto in cui sto andando non si torna, ma ci si arriva tutti, prima o poi. Per questo sono sereno. Perché, presto o tardi, torneremo insieme.

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