Il senso del tempo
di Bruno Bianco
Quando arrivai sul piazzale del castello erano cinque anni che non tornavo in quella località del Monferrato astigiano. Me ne ero andato il primo anno di università e da allora ero rimasto nel mio appartamento di piazza Castello, gentilmente compratomi dal mio paparino, senza più vedere né i miei genitori né il mio paese d’ origine. In altri tempi si sarebbe detto che ero uno scappato di casa, ma ritengo che nel mio caso questa definizione sarebbe vera soltanto a metà; per scappato di casa credo si intenda uno che si arrabatta per sopravvivere, senza la certezza di mettere insieme il pranzo con la cena, utilizzando dimore di fortuna presso anime pie che forniscono ospitalità. In realtà l’appartamento dove vivevo era lussuoso, in pieno centro di Torino e potevo scegliere liberamente se mangiare in buoni ristoranti o organizzare spaghettate con gli amici; mio padre pensava a tutto, attingendo dai miliardi che gonfiavano i suoi conti bancari, conti alimentati continuamente dai flussi di cassa della sua attività imprenditoriale. Incompatibilità caratteriale. Io detestavo il suo atteggiamento di uomo nato con le pezze al sedere e arricchito da duro e onesto (?) lavoro; lui non sopportava che io non gli portassi rispetto e che non fossi sufficientemente dedito al lavoro e al sacrificio. Più che una fuga da casa fu un accordo tra gentiluomini; io sarei andato a prendermi una laurea e lui avrebbe pagato tutte le spese. Devo ammettere che mi trovavo veramente bene in quella condizione a tal punto che non tornavo più a casa, nemmeno in estate o nelle feste comandate, con nascosto dispiacere di mia madre che per espresso divieto di mio padre non poteva venirmi a trovare. “Se vuole vederci deve venire lui!” E allora peggio per loro. Non provavo nemmeno vergogna per il mio stato di mantenuto che si scagliava contro la vita borghese; diciamo pure che avevo il cuore a sinistra e il portafoglio a destra.
“Arresto cardiaco” era riportato sul referto del medico condotto; sì, insomma, un infarto. Dopo il funerale avevo subito detto al geometra amico di mio padre di pensare lui a tutte le pratiche, all’ amministrazione del patrimonio immobiliare ammassato da mio padre e anche alla cessione dell’ azienda di famiglia; né io né mia madre saremmo stati in grado di gestirla e a me interessava solamente utilizzare le varie rendite disponibili. Volevo però dare un’ occhiata all’ ultimo acquisto fatto dalla buonanima; non più di tre mesi fa, aveva comprato nientepopodimeno che il castello medioevale del paese.
A quei tempi frequentavo senza grosso successo la facoltà di scienze politiche. All’ inizio mi ero iscritto a giurisprudenza, ma avevo capito in breve tempo che lo studio del diritto non era consono con la mia poca voglia di restare sui libri; avevo cambiato dicendo a tutti che ero più portato per attività creative che non per l’ arido studio mnemonico del codice civile e penale. Mi dilettavo infatti nello scrivere racconti e poesie, ritenendo di essere un autore dotato di talento e bistrattato da editori incapaci di riconoscere il futuro premio nobel per la letteratura; la curiosità, unita alla convinzione che avrei potuto ricavare una qualche ispirazione dalla visita al castello, mi avevano convinto a non tornare a Torino subito dopo il funerale.
-Sei incuriosito da quella macchia, vero?-
In effetti appena arrivato, prima ancora di entrare, avevo notato quella macchia color vinaccia su una delle torri degli angoli, subito vicino alla finestra, sopra quei vecchi mattoni ancora originali; e mi stavo proprio chiedendo che cosa fosse quando Don Giusto, appena uscito dalla casa canonica proprio a metà tra la chiesa parrocchiale e il castello, aveva interrotto le mie meditazioni.
-E’ la famosa macchia di sangue che non scompare più; se provi a cancellarla, lei ritorna sempre.-
Era un bel personaggio don Giusto, con la tonaca da parroco di campagna e gli occhialini sul naso da intellettuale di città; gli avevo anche fatto da chierichetto negli anni tra la prima comunione e la cresima, prima di riuscire a trovare la scusa di evitare le messe domenicali inventandomi un ateismo militante.
-L’ origine risale a quando il signore del castello, nel 1412, da quella finestra fece tagliare il capo del suo figlio primogenito, colpevole di voler abbandonare il castello; da allora la macchia del sangue è sempre stata là. Se provi a eliminarla, lei sparisce, ma il giorno dopo sarà ancora lì, identica a prima, a ricordare l’ efferato delitto.-
Aveva parlato senza smettere di guardare verso l’alto, con tono di voce serio e professionale, da vero studioso del fenomeno.
-Naturalmente è soltanto una leggenda; noi uomini di fede e di ragione abbiamo la reale spiegazione del fenomeno. Il padre assassino volle che nessuno pulisse la macchia a memoria della colpa del figlio e nei secoli nessuno osò farlo; ormai i mattoni sono impregnati in tutto il loro spessore e se si prova a pulirli subito l’alone sembra sparire, ma in poco tempo riaffiora lo strato inferiore con il color vinaccia ormai famoso. Però è bene che la forza della leggenda rimanga; è un modo per avere qualche tradizione storica e poter ricordare il passato.-
Adesso mi guardava con un sorriso sornione, come divertito di avermi convinto per un attimo che lui credesse a simili fandonie. Però come leggenda era ben costruita e mi incuriosiva vedere il fenomeno del riapparire della macchia; e poi poteva anche uscirci un’idea per un romanzo, tanto da giustificare il tempo perso trascorrendo una notte in quel paesino del Monferrato astigiano.
Il mattino dopo alle otto ero già sveglio, un vero record per chi come me viveva come se il sole non sorgesse fino al proprio risveglio; la curiosità era però stata più forte della pigrizia e mentre strofinavo la macchia e la vedevo gradualmente sbiadire, mi stavo convincendo che quella volta non sarebbe più riapparsa.
-Ci avrei giurato che avresti fatto una prova; il popolo dei Tommaso è sempre numeroso.-
Da sotto la torre don Giusto mi guardava benevolo, mentre io affacciato alla finestra restavo a fissare quella zona linda, dove il color vinaccia aveva ceduto il posto a un meno macabro rosso mattone antico.
-Buongiorno don Giusto. Non è che non mi fidassi, ma mi piaceva vedere…-
Caspita, stava riaffiorando! Anzi, era completamente ritornata. Scomparso il rosso mattone antico, tornato il color vinaccia con i suoi bordi irregolari.
-Don Giusto, non saprebbe mica indicarmi un libro che parla della macchia? E’ una storia più interessante e noi uomini di cultura siamo sempre affascinati dai fatti del passato.-
No, libri non ne conosceva. Ma c’era Carlino, una vera memoria storica, con il suo archivio di fotografie, di articoli di giornale e di tutto ciò che parlasse anche solo marginalmente dell’amato paesello. Ci andai il pomeriggio stesso; Carlino aveva un’ottantina d’anni discretamente portati.
-Tu vuoi sapere della maledizione della macchia?-
Veramente io volevo sapere della leggenda; cos’ era questa storia della maledizione?
-Il signore dei Roeri uccise il proprio figlio, colpevole di voler abbandonare il castello; lui che era il figlio primogenito, destinato ad ereditare tutto, patrimonio e titolo nobiliare. Un affronto del genere a quei tempi nemmeno un padre poteva tollerarlo; lo fece decapitare alla finestra perché tutti potessero sapere e vedere. Poi gli piacque l’ effetto di quella macchia di sangue e rese manifesta la sua volontà: la macchia sarebbe rimasta lì in eterno. Chi mai avesse osato provare a cancellarla sarebbe stato colpito da tremenda maledizione.-
La storia si faceva interessante; adesso volevo sapere quale fosse la maledizione.
-Mi spiace di non poter esserti di aiuto, ma nessuno ha mai saputo in cosa consistesse.-
No, adesso non potevo rimanere nell’ ignoranza; come destinato alla maledizione avevo il diritto di sapere. Carlino mi lasciò una raccolta di fotografie e appunti personali che ricostruivano tutti i proprietari che si erano avvicendati al castello. Così la sera non ritornai a Torino; l’ esame di quelle carte volevo farlo in loco perché sapevo che avrei potuto avere bisogno di Carlino o di don Giusto o di qualche altro personaggio del paese che conoscesse qualche elemento in più. Il giorno dopo ero di nuovo in piedi alle otto, una mano sulla tazzina del caffè e l’ altra a sfogliare le pagine. Mi soffermai sugli ultimi 50 anni. Dopo la caduta del fascismo il castello di proprietà comunale era stato ceduto a un privato, un ricco avvocato di Torino che lì si era trasferito e aveva vissuto fino alla morte. Poi era subentrato uno svizzero che aveva abbandonato il paese di origine per stabilirsi tra quelle colline; c’ era perfino la foto di un giornale d’ epoca dove si vedeva una sorridente faccia da svizzerotto mostrare la famosa macchia. Dopo era arrivato un notaio da Ivrea che con moglie e quattro figli era venuto ad abitare nel castello, iniziando un vita da pendolare tra la sua nuova residenza e la città dove aveva mantenuto lo studio notarile. Poi c’ era stato un piccolo imprenditore di Torino che addirittura aveva spostato la sua officina meccanica nel maniero pur di potervi risiedere; dai suoi eredi aveva comprato il mio povero padre.
Quando restituii tutto a Carlino, lo ringraziai con sincero senso di riconoscenza. Non ero però riuscito a sapere in cosa consistesse la maledizione della macchia; unica certezza, naturalmente, che l’ anatema non aveva valore, perché tutti i proprietari avevano provato a cancellare la macchia, ma nessuno aveva avuto alcun tipo di problema. Anzi tutti avevano vissuto una vita agiata ed erano morti serenamente di vecchiaia nel proprio letto, escluso mio padre che però non faceva testo essendo morto prima di andare ad abitarvi. Ero spiaciuto per il dubbio non risolto, ma avevo ormai deciso di partire definitivamente la sera stessa; avrei solo più dato un’ ultima occhiata all’ ormai famosa macchia di sangue e magari provato ancora una volta a cancellarla. Poi tutto sarebbe stato solo un ricordo.
Questo è il passato. Se a qualcuno interessa il presente, sappia che attualmente vivo nel castello; sono ormai passati 10 anni e ci vivo da allora, non sono mai partito quella sera. Vivo insieme a mia moglie e ai miei due figli, sono anche riuscito a laurearmi e ho abbandonato le mie velleità letterarie. Ho aperto nel castello una specie di bottega dei prodotti locali; vino, frutta, formaggi tipici. Tutta roba di qualità, prodotta da gente del posto, e non posso lamentarmi del guadagno; vengono dalla città a comprare e non si lamentano dei prezzi che devo riconoscere essere elevati, ma si sa che oggi va molto di moda il prodotto del contadino. La domenica mattina vado a messa come quando ero chierichetto e con don Giusto, che è sempre un eterno giovanotto, sovente discutiamo sulla macchia e sulla sua leggenda; nessuno di noi due lo ammette, forse perché ci vergogniamo a tirare sempre fuori gli stessi ricordi come fanno i vecchi di 80 anni che pensano con rammarico all’epoca che fu, ma la leggenda della macchia ci fa amare il senso del tempo che scorre. Il grosso rammarico è non avere mai scoperto in cosa consiste la maledizione; vi prometto però che se un domani dovessi mai risolvere l’arcano, ve lo farò sapere tempestivamente.
Volevo concludere mettendovi al corrente di quanto ho fatto sei mesi fa. Stanco di vedere quella macchia e di perdere del tempo nei continui tentativi di eliminarla, perfettamente conscio dello scempio artistico che avrei commesso, ho eliminato il problema alle radici; ho chiamato un muratore locale e gli ho fatto sostituire quella ventina di antichi mattoni imbrattati con altrettanti nuovi di zecca. E’ bastato un giorno di lavoro per cancellare secoli di storia e slegare una volta per tutte passato, presente e futuro.
Ah, dimenticavo di dirvi. Il giorno dopo, sui mattoni nuovi, la macchia color vinaccia è tornata identica a prima.