L’attraversamento
di Marcello Ferrara
Io non voglio saperne niente. Me ne vado a fumare in terrazzo. Quando mio marito Gianni attacca a fine cena col suo spettacolo narcisistico di virilità verbale, dinnanzi al piccolo pubblico dei convitati alle nostre cene del sabato sera, io provo quello che non riesco a definire diversamente che un moto di viscerale vergogna. Sono qui affacciata sullo spettacolo della città trapunta di luci, rifugio che mi accoglie da anni in momenti di solitario raccoglimento, per tentare finalmente di dare una risposta ad una domanda che non riesco a formulare.
Perché non credo sia un caso che io sia giunta a questa situazione. La mia condizione attuale è il punto d’arrivo di una parabola esistenziale molto chiara. Tutto questo benessere che mi circonda, questa messinscena del decoro, questa celebrazione di un potere di cui io stessa sono parte integrante e funzionale: moglie elegante e raffinata, di aspetto più che gradevole, di modi quietamente garbati, solare, accondiscendente e soprattutto silenziosa nei momenti che contano. Che cosa sono io, per queste persone, se non un prezioso benefit, intercambiabile con tanti altri? A che punto è che ho smarrito il sentiero della mia vita?
L’ho incontrata questa mattina per strada, in centro, mentre ero in giro per negozi. Ferma al margine delle strisce pedonali, in attesa di attraversare il fiume vorticoso di lamiere reboanti che le si parava dinnanzi. Io stavo proprio dietro di lei. Teneva per mano una bimbetta che avrà avuto sì e no tre anni di età. Nello stesso braccio, ad altezza della spalla, portava appesa una borsa della spesa in tela grezza. Mentre con la mano libera reggeva, dalla parte opposta, una bicicletta col seggiolino, dal cui cesto anteriore spuntavano un paio di bottiglie di latte, un filone di pane scuro ed un sacchetto colmo di fagioli da sgusciare. Era carica come un mulo, una giovane madre, uscita con la figlioletta a comprare poche semplici cose. Dalla parte opposta della carreggiata, di fronte a noi, stava curvo un uomo vecchissimo. Alla buon’ora le auto si arrestarono, per lasciarci passare. Anzi, a dirla meglio, fummo noi pedoni che riuscendo ad approfittare di un minimo varco nella fila serrata delle vetture costringemmo i conducenti riottosi a cederci il passo. Mentre noi tre attraversavamo di buona lena (la madre, nonostante il carico, manteneva un passo elastico e gaio) dalla parte opposta il vecchio avanzava lentissimo, piegato in avanti come un albero spezzato. Un passo alla volta, ed ogni passo era una dichiarazione di resistenza.
Giunte che fummo sul marciapiede antistante, mentre ancora il vecchio si trovava nemmeno a metà della prima corsia, dalla fila di auto in coda divampò come un ruggito infuocato lo stridore metallico di un clacson inviperito:
“Ma ti vuoi sbrigare, vecchio rincoglionito? Non è che possiamo star qui ad aspettare i comodi tuoi, eh!”
Era il conducente del Suv posto in prima posizione a sbraitare, sporgendosi dal finestrino con il braccio teso. Il cofano dell’auto si trovava proprio a pochi centimetri dalla testa dell’anziano, che cadde lungo disteso sull’asfalto. La scena fu pietosa: mi si strinse lo stomaco a vederla. In quel momento sentii nella mia la tenera mano della bimbetta:
“Mi tenga un attimo la bambina, per cortesia” – mi disse la madre, affidandomi la piccola senza un minimo di esitazione. Per poi partire alla carica contro il gigante di lamiera bianca che torreggiava ancora di fronte alla linea di attraversamento
“Ma Lei è davvero un criminale! Ma si rende conto?” – disse all’uomo. Poi rivolta agli astanti: “Signori, qualcuno può prestare soccorso a questa persona distesa a terra?”
L’uomo rimase stupefatto per un attimo, di fronte all’inaspettata fermezza di questo scricciolo di donna, ma non tardò a riprendersi:
“Ma che ti impicci, bella? Qui c’è gente che deve lavorare. Se il vecchio non è più in grado di camminare, che se ne rimanga a casa sua.”
“Quest’uomo stava Finché Lei non lo ha travolto con un’ondata di decibel. Ma lo sa cosa vuol dire un colpo di clacson a pochi centimetri dall’orecchio?”
“Sì, sì, ma certo. Ma che me ne frega a me? È lui che si è piazzato in mezzo alla strada, dico bene o no?”
“No che non dici bene, cafone! Impara le buone maniere, prima di andartene in giro per strada.”
La donna nel frattempo si era fatta sotto, con la faccia vicinissima al finestrino dell’auto. L’uomo intanto aveva ritratto il braccio, suonato violentemente di nuovo il clacson in direzione del vecchio ancora disteso a terra e fatto rombare a vuoto il potente motore del fuoristrada. La donna allora aveva esclamato qualcosa che non riuscii a sentire, la voce coperta dal fragore dei cilindri. D’improvviso dall’interno della vettura scattò rapida la mano dell’uomo. Uno schiaffo, deciso, energico. Che colpì in pieno viso la madre, facendola cadere all’indietro, sul selciato. Il Suv ebbe un guizzo in avanti, scartò da un lato evitando di un soffio le gambe dell’anziano, e si dileguò nel traffico in un istante.
La prima regola non scritta di qualsiasi comunità è quella di tutelare i propri membri contro i possibili attacchi provenienti dall’esterno. I momenti di difficoltà sono quelli in cui il tessuto connettivo tra i singoli individui, solitamente più lasso in tempi di relativa tranquillità, mostra la nerbosa qualità dei propri legami. Il coraggio di quella donna mi ha profondamente scossa. Non riesco a pensare ad altro, da questa mattina. Cosa resta infatti di noi se ci priviamo sistematicamente della possibilità di tentare di contrastare il male? Nulla, non resta nulla di sano, di vitale, di onesto. Tutto annichilisce sotto l’ala nera della violenza. Osservare ogni cosa senza mai avere il coraggio di muovere un dito. Ora, come comportarsi quando è la nostra comunità a costituirsi come insidia nei confronti del mondo, nei confronti anche di noi stesse? Quando sono i nostri uomini a spadroneggiare, offendere, vilipendere, forti della certezza di avere le spalle ben coperte? Guardali là, oltre il vetro di questa portafinestra, come ridono e si abbuffano senza ritegno. Padroni di un mondo fatto a loro immagine e somiglianza.
Mi sono sempre risposta che io non avevo il diritto di tentare di cambiare tutto questo. In quanto singolo individuo, e soprattutto in quanto donna. Ma lei lo ha fatto: eccome se l’ha fatto. Sostenevo di non averne il diritto, ma la verità è che me ne mancava la forza. Fiumi di pensieri spesi dinnanzi al mio tollerante giudice interiore per giustificare la granitica immobilità della mia codardia. Ecco come ho sempre dissipato le mie energie migliori. Ma le parole, in casi come questi, non servono che a intorbidare le acque, diluire il primo vitale slancio, annichilire l’anima. Solo l’esempio è la medicina dei forti. Per questo ora ho deciso: per la stima profonda che nutro per questa donna, anche senza averla mai conosciuta. Per ringraziarla di avermi insegnato, in una mattina qualunque, in mezzo ad una strada, a difendere il mio diritto alla felicità.
Domani andrò in Questura a denunciare l’uomo violento alla guida del Suv. Perché io l’ho visto in faccia, conosco il suo nome. Quell’uomo violento è mio marito.