NOTTE FONDA ALLA STAZIONE DI MILANO
di Alberto Marcolli
Quando Marco arriva in stazione, è buio da ore, ma il dramma quotidiano del popolo della notte deve ancora iniziare.
Preghiere e imprecazioni infiammano l’aria con l’arrivo dei tanti scarti umani che ogni sera qui si rifugiano, respinti da un mondo indifferente ai loro dolori.
Ci sono giovani donne che rientrano in malinconiche case di provincia, dopo una notte di sofferenza, spesa a soddisfare le passioni maschili più infami. Ubriaconi in compagnia del loro bottiglione di vino inacidito. Ragazze in fuga, violate dai padri, vecchi rifiutati dai figli, ragazzi abbandonati da anni sulla strada, sperduti in un futuro da vagabondi.
Presto quelle sale di attesa saranno il palcoscenico di tormentati attori, megafoni di parole e mendicanti d’amore. Affanni e desideri attendono il loro momento per andare in scena.
Marco è parte della triste commedia, anche lui con le sue storie e il suo fagotto di angosce.
La prima che appare è Giulia. Marco conosce bene questa anziana signora. Sa quante lacrime ha versato, mentre lui tentava invano di regalarle qualche briciola di speranza, evitando lo strazio d’inutili parole. Ha vagato con lei lungo i deserti marciapiedi, guardandola negli occhi, sfiorandole le mani.
Quanti treni ha visto partire Giulia, smarrita tra macerie di sentimenti traditi, scrutando la propria vita fuggirle via, senza mai riuscire a catturarne il senso.
Marco la incoraggia a reggere la fatica di marciare come un’arrugginita locomotiva a vapore, incapace di amarsi ed essere amata.
Arriva Aristide. Anche lui è un senza tetto, e qui trova un tiepido cantuccio per dormire. L’hanno cacciato dalla sua povera casa di periferia con le pareti ammuffite. Il comune aveva approvato un nuovo piano regolatore e quelle vecchie costruzioni dovevano essere abbattute. Ha avuto un compenso di tremila euro che è bastato per sopravvivere per un po’ di tempo, ospite di un fratello, disagiato come lui. Non ha lavorato con regolarità e non ha diritto alla pensione. Da circa un anno riceve un minimo sussidio, giusto per non morire di fame, ma mai per pagare un affitto nella Milano di oggi che non ha posto per persone come Aristide. La sua domanda per una casa popolare giace sepolta da un migliaio di altre più urgenti della sua. Aristide è di poche parole, ma questa sera è felice e sorride mentre si avvicina al distributore di bevande e offre a tutti bicchieri di cioccolata calda con i trenta euro avuti per aver lavorato tutto il giorno a sgomberare macerie in centro città.
Ecco Luca, Marco lo saluta con la solita frase:
«Ciao barbuto terrone, come va la tua battaglia contro l’intera metropoli fottuta e strafottuta?».
«Malissimo, maledetto il creato», risponde Luca furioso, «Ho le scarpe zuppe d’acqua ghiacciata e ancora non ho capito in quale bagnarola sono andato a cadere!».
«Merda!» Prosegue, «anche il borsone si è bagnato e la pentola con la mia cena si è rovesciata sull’asfalto».
Poi si dirige come un automa verso la sala d’aspetto più vicina, sperando di trovare libero il calorifero per asciugare il borsone, togliersi i polacchini e cambiare le calze. È assorto nei suoi pensieri quando arriva sorridendo Aristide con una tazzina di cioccolata fumante, Luca benedice il dono inaspettato, sorseggia con calma e dimentica le sue pene.
La storia di Giovanni è forse la più amara e potrebbe essere quella di molti. Marco l’ha voluta ascoltare più volte.
«Mio padre mi aveva lasciato un’azienda in Brianza che ero riuscito a far prosperare», racconta Giovanni, «purtroppo l’improvvisa malattia e poi la morte di mia moglie mi hanno colpito nel profondo. Per fortuna ero ancora in forze e il mio lavoro mi ha salvato. La vita era cambiata, ma mi ero ripreso con l’aiuto dei genitori di mia moglie che abitavano in una cittadina del sud e si erano offerti di crescere i miei due figli. Io non facevo mancare loro il mio aiuto, inviando i soldi necessari per vivere e studiare, senza particolari pensieri».
«Andrea, un amico d’infanzia, trasferito al nord anche lui per lavoro, un giorno mi confidò un suo problema. In famiglia erano in cinque e avendo avuto l’occasione di acquistare una casa più grande, si era impegnato con un compratore del suo appartamentino e poi si era rivolto alla sua banca per accendere un secondo mutuo, estinguere il vecchio debito e pagare la nuova casa. Lavoravano entrambi ma la banca, prima di concedere un prestito maggiore, chiedeva la firma di un garante».
«Ovviamente accettai. Per i primi dieci anni tutto andò per il meglio e mi ero dimenticato di questo impegno. Quattro anni fa arrivò la sorpresa, oltretutto in un periodo di grossa crisi per la mia azienda meccanica. La banca mi avvertiva che da dieci mesi le rate del mutuo non erano state pagate e mi chiedeva di versare il dovuto. Seppi che Andrea aveva perso il lavoro e il piccolo stipendio della moglie serviva alla famiglia per sopravvivere. Non mi restava che provvedere, usando i miei risparmi e per non costringere il mio amico a drammi superiori decisi di continuare a pagare. A fatica onoravo tutti i miei impegni, fino al forzato fallimento della mia azienda che mi ha costretto a finire in mezzo a una strada».
Giovanni termina amaramente: «Ho perso tutto, ma non la mia dignità».
«E i tuoi figli? Conoscono la tua situazione?» Gli chiede Marco ogni volta.
La sua risposta è sempre la stessa: «Fin che posso, manterrò il segreto e forse me lo porterò nella tomba».
È notte fonda. In stazione è tornata una certa calma. Nella sala d’aspetto tutti attendono Marco. Lui apre il suo zaino. Posa sul tavolo due grossi termos, dei bicchieri di carta e un pacco di biscotti. Apre il primo termos e versa nei bicchieri del latte caldo. Tutti si alzano e si servono. Poi si mette la stola, estrae la corona e recita ad alta voce il Rosario.
Il popolo della notte prega con lui.
Marco è il loro sacerdote.