UNA PERSONA PERBENE
di Gisella Broggini
Stavo riordinando la soffitta dopo che una violenta perturbazione aveva divelto alcune tegole del tetto. La situazione era peggiore di come la immaginassi: rivoli d’acqua scorrevano lungo i cassettoni in legno del soffitto e vi erano pozzanghere sparse qua e là sul pavimento. Mi affrettai a mettere al riparo il baule che conteneva i miei ricordi più cari aiutata dal mio nipotino che, alla vista di quel forziere chiuso con un grosso lucchetto, insistette perché lo aprissi e potesse vederne il contenuto.
La serratura cigolò, gemendo come un animale risvegliato dopo un lungo letargo e un odore di cuoio e di libri risvegliò in me ricordi che credevo sopiti. Il bambino rovistava tra vecchie fotografie, carte, pergamene, ma si soffermò incuriosito davanti a una cartelletta che custodiva un ritratto a carboncino ingiallito dal tempo.
“Chi è questa ragazza?”
Presi il foglio tra le mani e non riuscii a trattenere le emozioni.
“Sono io. A sedici anni.”
“Perché eri in una stazione? Chi stavi salutando?”
“Salutavo il mio passato perché stavo salendo sul treno che mi avrebbe portato verso il futuro che desideravo”.
“Chi ha fatto questo disegno?”
“Un amico speciale che non conosci perché venne a mancare prima che tu nascessi “.
“Nonna, mi racconti la sua storia?”.
Ci sedemmo davanti al caminetto avvolti in una coperta e iniziai a raccontare.
Si diceva che quell’uomo vivesse in un vecchio vagone abbandonato. I più informati mormoravano che era stato trovato in fasce su un treno all’interno di una borsa da viaggio che fungeva da culla, appesa accanto al finestrino di una carrozza di prima classe. Non si seppe mai chi fossero i suoi veri genitori, né da dove venissero. Fu adottato dalla famiglia del ferroviere che lo trovò.
Si mormorava che fosse un po’ matto, solo per il fatto che avesse scelto di vivere in una stazione ferroviaria. Era una persona originale: portava i capelli lunghi grigi e la barba incolta; vestiva sempre con pantaloni color kaki e camicie a quadri di flanella.
Lo vedevo ogni giorno quando prendevo il treno per tornare a casa dopo la scuola, seduto sulla panchina accanto alla fontana, munito di album e carboncino. Disegnava, disegnava sempre con lo sguardo rivolto alle rotaie. Chi aveva sbirciato nel suo album diceva che ritraeva i treni: quelli che arrivavano, quelli che partivano, quelli in corsa, e i vagoni vecchi, dimenticati, in attesa di essere rottamati, fermi come cavalli feriti che assistono impotenti alle corse degli altri. Disegnava la vita.
La polvere di carboncino gli anneriva le mani, il volto e gli abiti, così per la gente era diventato “l’orco”, una creatura fantastica spesso utilizzata come minaccia dagli adulti per farsi ubbidire dai bambini.
È fin troppo facile giudicare una persona solo per l’apparenza e per il suo aspetto… Però, si sa, i giudizi della gente pesano, cosi le giovani mamme impedivano ai loro bambini di avvicinarsi alla fontana perche lì c’era “il mostro”.
Un giorno ero affranta: dopo l’ennesima verifica andata male, avevo capito che il liceo non faceva per me. Il problema era farlo comprendere ai miei genitori che avevano delle aspettative: avrebbero voluto che diventassi un medico, un avvocato o un’insegnante. Era il sogno che loro non poterono realizzare e vedevano in me un potenziale riscatto per quella società che li aveva lasciati al margine.
Il mio treno quel giorno era fermo per una riparazione, così colsi l’occasione per riflettere su come avrei comunicato ai miei genitori l’ennesimo fallimento. Ero assorta nei miei pensieri, e senza accorgermi mi ritrovai vicino alla fontana.
“Che faccia triste che hai oggi, ragazzina. Cosa ti è successo? Hai preso un brutto voto?” L’uomo parlò senza staccare gli occhi dal suo disegno. Era concentrato sul foglio e strofinava un panno di carta annerita su tutta la superficie. Era avvolto da una nuvola di polvere scura che emanava un acre odore di cenere. Non sapevo se scappare o restare, ma vinse la curiosità e sbirciai il disegno su cui stava lavorando. Non vidi altro che una grande macchia nera uniforme ed ebbi la sensazione che fosse veramente folle, come diceva la gente.
Eppure mi ispirava fiducia e in quel momento desideravo confidarmi con qualcuno.
“È andata male, va sempre male la scuola. Sono una delusione per la mia famiglia: non sono capace di fare nulla” risposi.
“Vedi tutto nero? Come il mio disegno, vero?”
“Già, la mia vita è proprio come quel foglio!” Sorrisi per sdrammatizzare. Lui invece era serio e sembrava interessato al mio problema.
“Vieni qui e osserva bene cosa faccio” disse facendo cenno di avvicinarmi.
Prese dall’astuccio un pezzo di gomma pane e, con delicatezza, si mise a togliere alcune parti annerite. Più cancellava e più cominciavano ad apparire le forme, i contorni e la luce. A poco a poco si intravide il disegno del treno che avevamo di fronte. Poi comparve il ritratto di una donna affacciata al finestrino con un bimbo in braccio.
“Hai visto, ragazzina? Anche un foglio annerito può essere trasformato in qualcosa di bello!”
“Incredibile! Come ha fatto?”
“Semplice: se si vuol far emergere la luce, bisogna togliere a poco a poco le cose che creano buio e oscurità. È un po’ come la vita di ciascuno di noi”.
“Bastasse una gomma per portare luce nella mia esistenza…”
“Comincia a rimuovere alcune cose che ti generano ansia e preoccupazioni, poi il resto verrà da sé”.
“Chi sono le persone nel disegno? Sul treno non c’è nessuno: è fermo da ore”.
“La donna è mia moglie, il bimbo è mio figlio. Sono sempre nella mia mente e ho voluto ricordarli così, mentre partivano per le vacanze al mare.”
“Lei non andava con loro?”
“Io dovevo lavorare e li raggiungevo nei giorni di riposo. Ero un ferroviere”.
“Ecco perché vive in stazione e disegna sempre i treni!” esclamai.
“In realtà le stazioni e i treni hanno per me un significato più profondo di quello che può essere un ricordo lavorativo. Le stazioni sono l’attesa, i treni gli arrivi, le partenze, gli abbandoni, le corse che fai per prenderli, le porte che si chiudono all’improvviso lasciandoti fuori, le occasioni mancate…”
“Il classico treno che passa una volta sola nella vita?” domandai.
“Anche… Tu sei giovane e devi fare in modo di non perderlo. Cosa ti piacerebbe fare?”
Nessuno mi aveva posto quella domanda prima di allora, eppure io avevo le idee chiare, come era chiaro anche il messaggio di quell’uomo.
L’altoparlante annunciò che il mio treno stava per partire e, a malincuore, dovetti affrettarmi a raggiungere il binario indicato.
“Se lo desideri, posso parlare con i tuoi genitori, ma prima prova a farlo tu… Per ora preparo un foglio annerito e, quando potrò togliere le ombre che ti impediscono di sorridere, ti farò un ritratto” disse salutandomi.
La sera trovai il coraggio di far capire alla mia famiglia che il liceo non faceva per me. Avrei voluto diventare una sarta ed avevo già individuato una boutique nel centro della città che assumeva apprendisti. Da piccola trascorrevo il tempo a disegnare, ritagliare e cucire abiti per le mie bambole: era da sempre una mia passione. I miei genitori si dimostrarono scettici riguardo alle mie intenzioni, ma vollero conoscere l’uomo che mi aveva dato il coraggio di prendere quella decisione.
Arrivammo in stazione che era quasi buio. C’era un’atmosfera diversa, più intima, che contrastata con quella chiassosa e frenetica del giorno. Il fischio dei treni echeggiava nel silenzio della sera e prevaleva sui continui avvisi frastornanti degli altoparlanti che si udivano durante il giorno nelle ore di punta. Il cigolio e lo sferragliare delle ruote sulle rotaie cullavano i pochi passeggeri in partenza o in arrivo. Il fischio del capostazione sembrava un gorgheggio e sulle panchine qualcuno dormiva beatamente, altri erano assorti nei loro pensieri, ognuno con la propria storia. In quel momento capii che la stazione poteva essere caotica o silenziosa, affollata o deserta, ma era sempre accogliente come l’abbraccio di una persona cara.
I finestrini del vagone abbandonato erano illuminati da una luce fioca e questo ci incoraggiò a bussare. L’uomo ci aprì con espressione sorpresa e ci invitò cortesemente ad entrare. Mi sarei aspettata l’interno simile a un tugurio maleodorante e disordinato, invece trovai una dimora calda, accogliente e pulita. Qua e là erano impilati disegni a carboncino che ritraevano stazioni, treni, persone. I miei genitori rimasero incantati guardando quei capolavori che sembravano prendere vita e movimento grazie alla luce che sprigionavano.
“Come mai vive qui da solo? Mia madre non seppe resistere alla curiosità di sapere qualcosa di più su quell’uomo.
“Mio figlio è morto in un campo di prigionia in Austria. Mancava poco alla fine della guerra ed eravamo convinti che presto l’avremmo riabbracciato, vedendolo tornare con lo stesso treno con cui era partito per servire la patria. Aspettavamo ore sulla panchina lì fuori, con la speranza di vederlo tra i soldati che rientravano dal fronte”.
“Cosa successe? Perché non tornò?”
Ci inviava periodicamente sue notizie tramite la posta militare, ma per un lungo periodo non arrivarono più lettere. Un giorno ricevemmo una cartolina da un suo compagno di prigionia che ci comunicò la sua morte: perì sotto i bombardamenti degli alleati. Fu un colpo tremendo per noi.”
“Sarà stato rimpatriato con tutti gli onori” disse mio padre.
“Ma quali onori! Dovetti pagare molti soldi per avere le sue spoglie e fui autorizzato ad andare a prenderle solo dopo dieci anni. Dieci anni di snervante attesa, in cui ricevemmo alcune lettere che comunicavano che c’era la possibilità che il corpo di mio figlio non fosse più ritrovato”.
“Che strazio per voi genitori ” disse mia madre commossa.
“Mia moglie morì di crepacuore e rimasi solo. Lasciai la mia casa, foriera di ricordi, e mi trasferii nelle stazioni, sui vagoni dimenticati e abbandonati come me.”
“Come ha fatto a superare tutto questo?” intervenni io.
“Mi sembrava di impazzire. Poi decisi di coltivare una passione che avevo sempre avuto: il disegno. Iniziai a ritrarre luoghi, persone e i ricordi impressi nella mente. Questo mi aiutò a superare i momenti difficili. Credo che ognuno di noi abbia il diritto e il dovere di mettere a frutto il proprio talento e le proprie passioni.”
I miei genitori si guardarono con tacita intesa e in quel momento capii che sarei stata libera di fare le mie scelte. Non potevo avere la certezza che fossero giuste, però non avrei avuto rimpianti per non averle fatte.
“Nonna, la mamma dice che eri una stilista famosa. Come hai fatto?”.
“Imparai bene la professione di sarta, poi cominciai a proporre i miei cartamodelli e mi accorsi che tutti li apprezzavano. Posso dire con orgoglio che ho sempre fatto le cose che amavo.”
“Non mi hai detto quando il tuo amico ti ha fatto il ritratto”.
“Me lo fece il mio primo giorno di lavoro. Ero felice perché ero convinta di aver preso il treno giusto. Durante il viaggio conobbi tuo nonno e, quando ci sposammo, l’uomo che viveva in stazione ci regalò la casa dove aveva vissuto con la sua famiglia, che è la stessa in cui vivo ora.”
“Quindi non era cattivo, come diceva la gente…”
“Era una persona perbene. Il vero mostro, in tutta questa storia, è stata la guerra”.
“Quell’uomo visse per sempre sul treno?”
“Sì, anche quando si ammalò volle restare nel suo vagone abbandonato: diceva che la stazione era stata il punto della sua partenza e sarebbe stata anche il punto di arrivo.”
Ogni giorno vado in stazione: mi piace osservare i treni che partono, che arrivano, quelli diretti che non si fermano, quelli in ritardo e quelli abbandonati sui binari morti. Osservo le persone che si incontrano, che si lasciano o che si ritrovano dopo un lungo viaggio. Quelle che perdono un treno e che attendono quello successivo, quelle che invece rinunciano e tornano indietro. Le stazioni permettono di contemplare la vita, le emozioni, l’umanità. Consentono di essere spettatori e attori nello stesso tempo.