CINQUE CARAMELLE
di Daniela Quadri
Sei l’ultima di cinque sorelle e, forse, per questo ti hanno dato un nome da eterna bambina. A te, però, non è mai piaciuto, Adelina, perché pensavi ti sminuisse e, comunque, quel nome non si addiceva al tuo fisico prosperoso. Sta arrivando la Valchiria Rossa, è così che ti indicava nonno Clemente ai compaesani, quando ti vedeva sfrecciare in bicicletta, con la borsa di cuoio a tracolla e i capelli rossi al vento, a recapitare lettere e telegrammi. Sei sempre stata il suo orgoglio, a parte il giorno in cui scappasti di casa per sposare il tuo Giovanni, già incinta di me. Non l’aveva presa bene il nonno, uno stipendio in meno in famiglia era una disgrazia, poi, col tempo se n’era fatto una ragione. Intanto, qualcosa era andato storto tra te e papà: tu con i piedi ben piantati a terra, lui che sognava una vita altrove. Alla fine, un giorno non era più tornato e noi eravamo rimaste sole: io e te sedute al tavolo della cucina, è così che ricordo il nostro passato. Poi anche tu mi avresti abbandonata.
È domenica, una domenica mattina come tante, eppure, diversa. Mentre sfoglio il giornale in salotto, ti osservo, attraverso la porta aperta della cucina; sei in piedi, con il grembiule allacciato in vita e un coltello in mano, pronta a sminuzzare la carota, il sedano e la cipolla che hai disposto sul ripiano scuro del tavolo. La domenica è sempre stata il giorno del ragù: quello che mi abbracciava e accoglieva con il suo profumo già sulle scale, quando tornavo a casa affamata dopo una passeggiata con le amiche, quello che piaceva tanto a papà che lo mangiava con la polenta, come usavano fare i contadini su al paese.
«Ah, se papà sentisse il profumo del ragù, tornerebbe subito a casa! Mica glielo sa fare così, quella là…» Quante volte te l’ho sentito dire, mentre lo assaggiavi un’ultima volta, prima di lasciarlo cuocere a fuoco lento, felice del sorriso che ti donavo, con la tenerezza della figlia che aveva scelto di proteggerti dall’uomo che se n’era andato per sempre. Papà aveva fatto per anni il camionista, trasportando su e giù per l’Europa frutta e verdura; stava via per giorni ma, quando tornava, c’era sempre un regalo per noi due. Poi, senza che ce ne accorgessimo, i giorni erano diventati settimane, mesi, finché non aveva messo da parte un gruzzolo sufficiente a comprarsi un camion e a farsi una famiglia, una nuova, in Germania.
Riprendo a leggere e, quando alzo lo sguardo, stai scuotendo la testa e agiti le mani al cielo.
«Non mi ricordo più come… come si fa il ragù… Ecco, adesso papà non tornerà più!» Sei disorientata, afflitta e io, invece di provare a capire cosa ti sta succedendo, mi arrabbio. Non ti sorrido come un tempo, perché ho in bocca un sapore amaro che solo io sento e che non se ne andrà più via. È solo l’inizio dell’uragano che sta per travolgerci. La tua mente si spegnerà e, come sui rami secchi di un albero sradicato, i tuoi ricordi saranno foglie pronte a volare via. Ti guarderò e continuerò a riconoscere il tuo corpo, immutato ma, in realtà, ormai vuoto, disabitato. Ci ostineremo, insieme, a sbrogliare il gomitolo arruffato nel quale ti si sono ingarbugliati i pensieri e proveremo a trovare nuovi spazi a tutto ciò che ti sta sfuggendo dentro una nebbia che inghiotte volti, nomi e vite, le nostre.
È una sera qualsiasi quando esci in giardino a cercare il gatto che tarda a rientrare; ti lascio sola per pochi minuti, cosa vuoi che accada. Ma tardi anche tu, perché la nebbia che ti avvolge è troppo fitta e non trovi la strada, quei pochi metri, che ti riporterebbe dentro casa, al sicuro. Quando la mattina dopo ti ritrovano rannicchiata su un marciapiede, sei una bambola di pezza. Mi vesto e corro alla stazione di polizia; ti vedo lì, seduta su una sedia di plastica grigia con un bicchiere d’acqua in mano e un sorriso rivolto verso un punto lontano.
«Chi sei, signora? Non devo parlare con gli sconosciuti, sennò mamma mi mette in castigo.» Mi scruti con lo sguardo vacuo mentre, inginocchiata davanti a te, ti stringo le mani tra le mie.
«Mamma, sono io, tua figlia…» Il sorriso non si scompone nemmeno quando ti faccio sedere in auto e guido verso casa. Casa è dove un tempo ti sentivi protetta dal mondo, ma adesso ti è diventata estranea, ostile. Talmente cattiva da nasconderti gli oggetti per farteli ritrovare, quando ormai non servono più: una scatola di biscotti mangiucchiati tra i foulard di seta nel cassettone in camera da letto, le chiavi di casa nel frigo, il sacchetto della farina nell’armadietto dei medicinali in bagno. Ma è in cucina che la casa si prende gioco di te: sale al posto dello zucchero nell’impasto della torta, uova rotte a marcire nel forno, piselli tra gli scarti da buttare e baccelli dimenticati in una padella sul fuoco acceso. Un fumo nero e acre riempie già la stanza, quando ti trovo sul vecchio dondolo in veranda che reciti una filastrocca all’infinito. Ci siamo ammalate entrambe: a te hanno rubato i ricordi, a me la tua presenza.
È di nuovo domenica, non so più di quale mese o anno. Mi aspetti, seduta sul bordo del letto, con una scatola di latta in grembo. Al suono dei miei passi, che rimbombano nel corridoio tirato a lucido della residenza per anziani tornati bambini come te, so che solleverai il coperchio rosso. Quando entro nella camera con le pareti verde chiaro, le tue mani dalle dita nodose stanno frugando dentro la scatola. Ti saluto e poso sul letto cinque caramelle: sono sempre le stesse e te le porto ogni domenica, ma tu non te lo ricordi e ogni volta un sorriso di sorpresa e riconoscenza ti illumina il viso, mentre le lasci cadere nella scatola.
«Cosa mi hai portato?»
«Caramelle, quelle tutte colorate.»
«Perché non è venuto? È da tanto che non mi porta dei fiori, a te, invece, ha regalato una bambola. È bella, vero? Se le schiacci il pancino, dice ciao.»
«Sì, mamma, è bellissima, ma lui non può venire.»
«Perché, no? Sei ancora piccola e lui lo sa! Domani andremo sulle giostre, tutti insieme. Ti va?»
«Sì, ci divertiremo tanto, io e te, ma lui non verrà.»
La voce ti si smorza, mentre scuoti la scatola con rabbia, disperazione. Vorrei strappartela via e gridarti di smetterla una volta per tutte di ricordare, di parlare, ma so di aver bisogno della tua voce, per sentirmi ancora viva.
«Oggi piove e Mimì fa le fusa sul divano.» Devo farti tornare al presente, l’unica dimensione in cui lui non è mai esistito e non ci ha abbandonate. Non te l’ho detto che quell’uomo che aspetti è morto da qualche anno. Non avrebbe senso farlo adesso; non ci sono più né passato né futuro per te. Il presente è l’unico tempo che abbiamo, dove tu puoi dimenticare, anche se io non sono riuscita a perdonare, e dove la sola certezza è il crepitio della carta delle caramelle.
«Giochiamo?» Sorridi, non c’è più ombra di tristezza nella tua voce.
«Certo, sei pronta? Scegli tu la prima.» Resto a fissare il tuo silenzio: no, non ti ricordi più come si gioca. Dei tuoi pensieri rimane solo il frusciare delle caramelle che rimescoli in continuazione. Ne prendo una e te la porgo.
«Gialla! I capelli di Lidia sono gialli e, quando si gioca a nascondino nei campi di grano maturo, nessuna di noi sorelle riesce mai a trovarla. Io, invece, sono sempre la prima a essere scovata, con questi capelli rossi mi vedono subito!» Ridi di gusto e la tua risata è un brivido di felicità che mi corre lungo la schiena. Felice come quando ci bastavamo l’un l’altra e, sedute al tavolo della cucina, il tempo non ci faceva paura, perché pensavamo di averne ancora tanto davanti a noi da non accorgerci di quanto volasse via veloce, appeso ai ricordi.
«Rossa!» Sei tu adesso ad estrarre le caramelle dalla scatola. «Quando i pomodori nell’orto di papà Clemente diventano grossi, prendiamo ognuno una cesta e andiamo a raccoglierli. Sono tanti e succosi e mamma ci chiede di aiutarla a riempire di salsa le bottiglie che prima lei mette a bollire. Ha assaggiato la salsa della mamma, Signora? È la migliore del paese!» Certo che l’ho assaggiata, vorrei dirti, non ricordi quanto mi piaceva da piccola la pasta al pomodoro della nonna? Ne chiedevo sempre un altro piatto, ma no, i tuoi occhi si sono già spenti e il tuo mondo è ricaduto nel buio. Ingoio la voglia di piangere che mi stringe la gola e aspetto che tu scelga la prossima caramella.
«Verde! L’erba di maggio profuma di fiori e menta, lo sanno bene le mucche che pascolano in collina. Ce le portano Elvira e Rosa ogni mattina: loro sono le più grandi e papà le lascia andare da sole, perché lì vicino passa il sentiero che porta a scuola, così non perdono le lezioni. Papà vuole che le sue figlie siano istruite, non come lui che firma con una croce, e a Rosa ed Elvira piace arrampicarsi fino al pascolo e sedersi a guardare il mare in lontananza.» Il mare è il tuo rimpianto: non ci sei mai andata quando vivevi in un paesino nell’entroterra, e neppure quando con Giovanni vi siete trasferiti in una città vicino alla costa. Lo vedo anche adesso quel cruccio che ti offusca lo sguardo; un giorno ti porterò al mare. Chiederò all’infermiera di metterti il foulard a fiori, il tuo preferito, e faremo una passeggiata fino al molo, dove i gabbiani sugli scogli stridono alle navi e le nuvole si dondolano sulle creste delle onde. A passi lenti arriveremo fino all’ultimo pontile, coi trabucchi sospesi sull’acqua, e resteremo lì, ad ascoltare il respiro del mare.
«Viola!» Hai proprio voglia di continuare a giocare, mi dico, mentre agiti in aria un’altra caramella. «Margherita ha gli occhi viola, sì, come quell’attrice americana che piace tanto a papà. Lui vuole portare mamma al cinema, ma lei fa no, no con la testa. Non è roba per una signora perbene con tutti quei baci, e poi, non ha niente da mettersi. Non vorrai che ci prendano per degli zoticoni, ride, ma lui butta giù d’un fiato l’ultimo sorso di vino, si alza da tavola ed esce senza una parola. Chissà che fine ha fatto quella bella attrice? Mamma vorrebbe saperlo.» Chiudo gli occhi e prego il tempo perché fermi adesso questo gioco, che è tutto quello che mi resta di te.
«Arancione!» È l’ultima caramella rimasta, quella a cui vorrei aggrapparmi, per stringerla con il vigore ostinato di chi non si è ancora arreso e non vuole vederla sparire insieme ai tuoi ricordi. Apri la bocca ma la richiudi subito: questo colore non ti fa venire in mente niente, eppure, lo so, ti è sempre piaciuto. Avevi un abito arancione, anzi, una sfumatura tra albicocca e salmone, che ti aveva regalato papà per il vostro primo anniversario. Lo mettevi solo la festa, troppo delicato per tutti gli altri giorni, dicevi. Quando papà ci ha lasciate, quel vestito non l’hai più indossato ed è finito dimenticato in fondo a un cassettone in solaio. Un po’ come i tuoi ricordi.
«Cosa sei venuta a fare? Lui non c’è, devi dirgli che lo amo. Lo farà, vero, Signora? Mamma dice che sono una brava bambina.» Una supplica racchiusa dentro una certezza, quel tuo amore inutile e caparbio, che mi strappa un moto di rabbia. Ti odio, il tuo amore per papà è sempre venuto prima di tutto, anche di me e io non l’ho mai sopportato. E odio la malattia che dovrebbe divorare tutti i sentimenti e non farti provare e sentire più nulla, ma che con questo ha fallito. È solo un attimo, mi avvicino al letto, faccio per accarezzarti la guancia ma mi ritraggo. Non sono pronta per un altro distacco, quello che mi separerà da te.
«Lo farò, ma adesso devo andare, mamma.» Una promessa falsa, come quelle che lui ci ha fatto, quando, invece, vorrei solo riuscire a dirti ti voglio bene.
Fuori, nel parcheggio, respiro l’aria che odora ancora di pioggia e profuma già di primavera. Un cane schizza acqua dalle pozzanghere, mentre insegue lo scoppiettio del gas di scarico di un motorino. In fondo alla strada, tra i muri umidi delle case, una lama di luce si allarga sull’orizzonte. Da qualche parte mi arriva il rumore di una finestra che sbatte; forse Mimì starà ancora dormendo sul divano. Uno scatto secco della serratura e sono già al volante. Chissà se gli sono mancata.