Premio Speciale della Giuria – Sesta Edizione – 2023

SOLO UN GIOCO

di Alessandra Jorio

 

 

Lo scroscio improvviso e breve della pioggia di fine aprile aveva inzuppato il prato e risvegliato un odore penetrante di foglie e di terra umida. Dietro le vetrate i bambini spiavano il disvelarsi del sole: poco a poco spinse via le nuvole e si dedicò ad asciugare il mondo. Al suono della campanella sciamarono tutti in giardino e le maestre non tentarono neppure di trattenerli, considerando che un po’ di fango era meno temibile di due pluriclassi irrequiete, impossibili da rinchiudere nelle aule per più di due ore consecutive. La scuola raccoglieva i bambini delle frazioni che in quello scorcio di Appenino non potevano permettersi di averne una in esclusiva: e siccome non c’erano numeri per costituire intere classi mono anagrafiche, il MIUR aveva autorizzato una mista prima-quarta-quinta e una seconda-terza.

Il gruppetto delle insegnanti, tre in tutto, si raccolse intorno ai gradini dell’ingresso vigilando con la coda dell’occhio. Si erano formati i capannelli abituali: un gruppo di bambine sotto la quercia allestiva il gioco del Facciamocheioero assegnando i ruoli a partire dai più ambiti – la mamma – fino ai comprimari tipo il cane, il postino e perfino la lavatrice. Partecipavano anche un paio di maschi, generalmente nei panni del padre e casomai dell’onnipresente dottore/poliziotto/prete. Un gruppo altrettanto numeroso organizzava il Talent e la regia era affidata alle bambine di quarta, rese sufficientemente autorevoli e rispettate dalla prossimità alle mitiche e irraggiungibili ragazze di quinta: motivo per cui nessuno, mai, avrebbe osato contestare passi e coreografie delle complicate performances allestite sul prato. Le ragazze di quinta, a loro volta, evitavano per lo più di mischiarsi ai “piccoli”: se ne stavano appartate a chiacchierare e ridere, anche se ogni tanto qualcuna lanciava occhiate furtive alle compagne che sgambettavano sull’erba, producendosi in eleganti ruote e verticali audaci sulle note di Ed Sheeran che uscivano dalla cassettina bluetooth di Anita, la maestra più giovane, la più amata.

I maschi senza distinzione di età si scatenavano nelle corse: impazzavano senza una direzione precisa, senza uno scopo né un traguardo. Per il puro e semplice piacere della corsa prendevano la rincorsa e si gettavano per la leggera discesa del prato, viravano prima della quercia per non travolgere i Facciamocheioero, risalivano la china sudando e sbuffando, e una volta in cima si buttavano di nuovo a correre, stavolta a destra oppure a sinistra, seguendo il vento. A loro spesso si univa Emilia: per niente interessata ad esibirsi nei balletti e ancora meno nelle soap che si intrecciavano sotto la quercia, si divertiva molto di più a far mangiare la polvere a parecchi maschi, che la consideravano non soltanto la femmina più veloce, ma anche l’unica in grado di umiliarli nella corsa e perfino nelle partite di calcio…Quando le corse si strutturavano in vere e proprie gare, le bambine lasciavano tutto e davano vita ad un tifo solidale e sfrenato per Emilia, che spesso trionfava tra le acclamazioni delle une e l’ammirazione degli altri.

C’era chi preferiva il muretto: ne spolveravano la superficie sconnessa di vecchie pietre e tiravano fuori il mazzo da UNO, imbarcandosi in furibonde partite all’ultima carta.

Anita si staccò dal gruppo delle colleghe e cacciò di tasca un fischietto di plastica. Lo portò alle labbra e trasse un fischio lungo e acuto, seguito da dieci brevi fischi. Era la reminiscenza di un passato da scout che si era rivelata utilissima ad attrarre immediatamente l’attenzione dei bambini, a parte le artiste del Talent che fecero orecchie da mercante e il terzetto delle separatiste fanatiche dell’elastico, che continuarono imperterrite a saltare: caviglie…polpacci…ginocchia… ascelle…

Gli altri si raccolsero intorno a lei, accanto ad una grande cesta cilindrica di plastica verde coperta da un vecchio foulard.

Che c’è dentro? Per chi è? Che facciamo adesso? I bambini circondarono la cesta e Anita sollevò il foulard: Travestimenti… disse con aria misteriosa. Federica allungò una mano e tirò fuori una lunga tunica blu notte che esaminò con aria critica. Anche i gemelli affondarono le mani nella cesta verde ed estrassero una tuta laminata e una giacchetta di pelle con le borchie. Scoppiarono a ridere: Noi facciamo Michael Jackson, dissero all’unisono come sempre.

Anita sorrise al cerchio dei bambini curiosi ed eccitati: Scegliete, e travestitevi da quello che volete! Faremo una grande sfilata e ognuno sarà chi vuole! Poi potrete inventare delle storie con i vostri personaggi, e io potrei filmare con il cellulare. Che ne dite? I bambini stavano già tirando fuori abiti e panni tra i più improbabili che la ragazza avesse potuto scovare nei mercatini dell’usato che frequentava il sabato mattina quando rientrava nel capoluogo. Il prato si riempì rapidamente di redivivi figli dei fiori, pirati, clown, minuscole arabe velate, indiani d’America e investigatori con il bavero dell’impermeabile alzato sul collo.

Dario era rimasto incerto. Poi aveva selezionato dal mucchio un abito tirolese. Aveva gettato un’occhiata in giro e quando fu certo che nessuno badava a lui l’aveva infilato dalla testa ricciuta. Il vestito scivolò facilmente sul suo corpo piccolo e magro. Il bambino inserì le braccia nelle maniche corte e sbuffanti, ricamate con piccoli cuori rossi e punto croce blu elettrico. Poi si guardò intorno alla ricerca di qualcuno per chiudere la cerniera lampo e annodare dietro il fiocco di velluto. Anita si volse e vide l’espressione raggiante sul viso del bambino. Ti aiuto, disse sollecita. Tirò su la cerniera lampo e strinse il lungo nastro di velluto rosso in un ampio fiocco. Stai molto bene, disse osservandolo attentamente. Lui annuì, contento, socchiudendo gli occhi scuri e profondi sotto le lunghe ciglia. Intanto i bambini strillavano e vociavano: Io sono Lord Voldemort, ruggiva Filippo guardandosi intorno con aria torva sotto un mantello nero. Io sono Lady Grantham, annunciava Monica con molto sussiego avviluppata in una sottana lunghissima e appoggiandosi ad un bastone col pomo di finto avorio. Tu chi sei? domandò Anita con dolcezza. Dario guardò le nuvole con aria meditabonda. Io mi chiamo Celeste, disse alla fine.

Fu in quel momento che i gemelli lo videro e si scatenò il putiferio. Mentre i bambini si rotolavano sull’erba fingendo di avere mal di pancia dalle risate, Dario aveva abbassato la testa e stava zitto, tutto rosso in faccia. Anita, sgomenta, vide la sua espressione smarrita e prossima al pianto. Così afferrò il fischietto e soffiò con tutto il fiato che aveva. I bambini si quietarono e la guardarono. Prese Dario per mano. Adesso, disse, ognuno deve cambiare travestimento.

Si alzò un coro deluso e contrariato: Ma perché maestra?? urlarono parecchi. Questo non è giusto!

E che cosa è giusto, secondo voi? chiese Anita, che stringeva sempre la mano di Dario.

Filippo agguantò i lembi del suo mantello, ben deciso a non mollarlo:

E’ giusto che possiamo scegliere! disse risoluto.

E’ vero maestra, è giusto che possiamo scegliere! Ha ragione lui, maestra! incalzarono i bambini.

Anita li lasciò dire. Poi alzò la mano e loro si zittirono.

Anche Dario può scegliere? chiese guardandoli uno ad uno.

Ma si è vestito da femmina, gridò Piero facendo smorfie. Le bambine si inalberarono:

E che c’è di male a vestirsi da femmine? cominciò Emilia aggressiva.

Andrea scosse la testa: Niente, ma lui non è una femmina e quindi si deve vestire da maschio.

Io dico, ribatté Emilia, che uno si deve vestire come gli pare. E fare i giochi che gli piace.

Andrea non voleva arrendersi: Ci sono cose da maschi e cose da femmine, le femmine sono più brave a fare certi giochi e i maschi altre cose. Mio padre dice che i maschi che si vestono come le femmine e pure si truccano come le femmine, sono ghei.

Ma Emilia lo guardò ironica: Io sono una femmina, mi metto sempre i jeans e mi piace correre.  E ti ho battuto tre volte, oggi! (applausi dalle bambine).

Andrea optò per un’onorevole ritirata e alla nuova domanda di Anita: Chi pensa che ognuno di noi possa scegliere di vestirsi come vuole? alzò la mano con gli altri, poco convinto.

Bene, disse Anita. E lasciò quella di Dario, un tantino rinfrancato dalla piega che aveva preso la faccenda. I bambini si organizzarono. Emilia insistette per avere Dario nel proprio gruppo, che mise in piedi una specie di scenetta horror in cui un lupo mannaro travestito da bambola tirolese assassinava una comitiva di eterogenei turisti tra i quali spiccavano Michael Jackson con il suo clone, due suore e un giocatore di rugby con enormi spalle imbottite.

Anita montò gli spezzoni dei filmati in un unico video esilarante e il pomeriggio stesso lo postò nella chat dei genitori. Poi, siccome era venerdì, salì sulla corriera che la riportava a casa ogni fine settimana e spense il cellulare (ne faceva una questione di principio…).

Soltanto lunedì mattina, perciò, un vocale affannato della collega Martina le fornì il quadro esatto della baraonda che aveva travolto la suddetta chat: Per carità Anita. Scegliamo una linea e difendiamola compatte… i genitori di Dario sono fuori dalla grazia di Dio per quell’accidente di scenetta tirolese… hanno scritto che ti vogliono denunciare al provveditore, che ti faranno rimuovere te e le tue teorie gender (ma che gli hai detto, a Dario?!) e un sacco di cazzate del genere…

Al colloquio energicamente reclamato da padre e madre Fornaroli, Anita aveva rifiutato recisamente la presenza-muraglia delle colleghe: altrimenti penseranno che ho paura! aveva detto.

Non si azzardi mai più a mettere mio figlio in ridicolo di fronte a tutti, sibilò il padre di Dario, mentre si congedava. La madre era rimasta in silenzio. Anita aveva colto un disagio senza parole, una domanda inespressa che restò sigillata nelle labbra strette, velate di rosso acceso.  Era solo un gioco, provò a dirle, quando si alzò in piedi per andarsene.  La donna ricambiò lo sguardo della maestra, non disse nulla e uscì dietro al marito, che era già fuori dalla porta.

L’estate portò fasci di ginestre e profumo di menta nei vasi colmi che le maestre avevano messo agli angoli delle aule. Emilia terminò la quinta e si iscrisse alle medie inferiori nel capoluogo. Dopo andrò al Liceo Sportivo maestra, aveva confidato ad Anita tra gli abbracci e gli addii.

Dario invece, conclusa la terza, si trasferì in una scuola “più adeguata alle esigenze del bambino”, così i genitori nella richiesta di nulla osta al Dirigente Scolastico, che la concesse non senza una battuta di larvato rimprovero all’indirizzo dei giochi alternativi della maestra Anita…

Lei restò arrampicata in quella solitaria porzione di Appenino per alcuni anni.  Poi ottenne finalmente il posto di ruolo in città nell’Istituto Comprensivo che un’illuminata amministrazione comunale aveva intitolato ad Artemisia Gentileschi. Sapete chi era, ragazzi? Teste che ondeggiano, qualche sbadiglio, sguardi all’orologio. Anita annuì. Va bene, allora: entro lunedì ricerca per gruppi di lavoro. Voi la biografia… voi le opere… voi le immagini… arrivederci a domani! I bambini erano già per i corridoi, ridendo e vociando. Lei raccolse il cardigan scivolato dallo schienale della sedia sul pavimento, e quando si rialzò la sorpresa le incollò la lingua. Emilia era sulla porta, alta e snella nella tuta Adidas con lo stemma del CONI e un impacciato sorriso. Oddio Emilia… Anita allargò le braccia, come sei cambiata, fatti vedere, raccontami…

La ragazza si spostò per lasciare spazio ad un’altra ragazza, che fece un passo avanti. Anita la scrutò perplessa. Bellissima, pensò. Lei si scostò i riccioli neri dalla fronte e accennò un saluto. Aveva occhi scuri e profondi, e sorrise in un modo che le parve familiare. Una tua amica Emilia? Allungò la mano cordiale, l’altra la strinse e in quell’istante tutto fu chiaro. L’emozione le velò la voce. D’altra parte, la vita non è forse un gioco? Un meraviglioso gioco di libertà… La strinse con affetto. Ciao, Celeste.

Check Also

Racconto Finalista – Sesta Edizione – 2023

CACCIA AL TESORO di Alberto Mura   La radiosveglia fa partire il ritornello di un …