Racconto 3° Classificato – Sesta Edizione – 2023

PAGLIACCI DI GUERRA

di Maena Delrio

 

Torniamo a Kharkiv dopo due mesi di assenza. Noi, I nostri variopinti costumi chiusi in un sacco e il pesante bagaglio di speranza. Lo abbiamo scelto con cura, come facciamo a ogni missione: medicine, vestiti, libri e giocattoli. E il mio immancabile naso rosso da clown, con il quale sono diventato ambasciatore di risate nei luoghi dove l’eco della mitragliatrice ha sostituito le esternazioni di gioia. Ero un  appassionato di recitazione, una vita fa, a Przemysl. Con  la compagnia, nei ritagli di tempo, improvvisavamo brevi spettacoli nei reparti pediatrici degli ospedali. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, , la nostra missione è stata quella di portare spensieratezza dove il rumore delle armi aveva sostituito quello delle risate. Siamo un circo itinerante, e ogni volta che dobbiamo tornare in Polonia ogni addio ci provoca un immenso dolore, al pensiero che possa essere l’ultimo. La  cura è nei sorrisi dei bambini che salutiamo prima della partenza, nei ritagli di serenità che abbiamo provato a regalare alle più piccole vittime del conflitto e che, ne siamo fermamente convinti, hanno restituito loro una briciola di normalità. L’unica ragione, questa, che ci permette di sfidare la morte senza paura. La signora Karina ci accoglie con la dolcezza di una madre, sulla soglia di uno dei tanti edifici a cui è stato conferito il titolo di rifugio antiaereo. Ci stringe al petto, ci bacia sulle guance. Percepisce i lutti che ci siamo portati appresso, ci infonde coraggio. Vuole sincerarsi che siamo tornati davvero, che siamo ancora tutti interi, che non siamo fantasmi. E indugia su ciascuno di noi nel suo abbraccio, come se avesse la capacità di fermare il tempo. Perché sa, lei, sopravvissuta all’occupazione della sua casa, che è proprio l’amore il collante che ci tiene uniti a noi stessi e alla nostra missione. Entriamo. Mucchi di calcinacci si accumulano agli angoli sul pavimento, nuove crepe si allargano lungo le pareti più esposte alla violenza delle deflagrazione. E le riconosciamo, quelle identiche fenditure, anche nei volti stanchi, che non alzano più nemmeno gli occhi al nostro passaggio, chini a fissare un punto indefinito e, forse, una vita precedente. La guerra ha l’ineluttabile capacità di distorcere il tempo, lo dilata e lo accelera, moltiplica le rughe sulla pelle, incurva le spalle. La stessa polvere grigia che ricopre ogni cosa impregna i capelli, appanna gli occhi. Poi li sentiamo, i bambini. Voci timide, via via più concitate e gioiose ci accolgono già prima che possiamo vederli. Piccole teste curiose emergono dalle coperte adagiate qui e là lungo i corridoi. Raggiungiamo la stanza che ci hanno messo a disposizione fino alla fine della nostra permanenza. Alcune  brande appoggiate al muro portante, un vecchio baule dove riporre gli attrezzi del mestiere, coperte. Al posto delle finestre, spesse lastre di ferro oscurano la luce del sole. Ci colpisce l’odore di sapone. Ci aspettavano, hanno pulito l’ambiente per rendere più confortevole il nostro soggiorno. Un gesto scontato, in condizioni normali. Un enorme attestato di stima, in un posto dove l’acqua corrente è ormai un lusso destinato a poche striminzite aree urbane. E la zona dov’è ubicato il rifugio ha perso quel privilegio già da mesi. Qualcuno mi tira il pantalone, mi volto. Di fronte a me c’è un bambino biondo di circa otto o nove anni con la faccia sporca di moccio, le iridi liquide  straordinariamente ferme nel fissare il mio volto, due laghi di montagna. Riflettersi in quelle acque immobili è doloroso, perché è lo sguardo di chi si aspetta delle risposte dagli adulti, anche se gli adulti hanno perso il filo delle domande e non hanno più la forza, e forse la volontà, di replicare. “Vasyl” Ci metto un attimo di troppo a riconoscerlo, e mi dispiace. Non voglio che perda fiducia in me. Lo ricordavo più minuto, un fanciullino dalle guance rotonde e i capelli biondi fino alle spalle, che hanno lasciato il posto a un taglio a spazzola. Mi pare che sia cresciuto di qualche centimetro, o forse è un’illusione ottica per via del suo aspetto emaciato. “Vasyl”, ripeto, e allungo la mano per sfiorargli la chioma corta e ispida. Lo sento irrigidirsi sotto il tocco del palmo, ma non si ritrae. Non mi aspettavo di vederlo. La sua famiglia era già partita, l’ultima volta che siamo stati qui. Sua zia aveva trovato loro una casa in Germania, presso la famiglia per la quale lavorava, avrebbero dovuto prelevarli al confine. Temo che sia successo qualcosa di grave, glielo leggo nella curva della schiena, nella rassegnazione che lo fa sospirare, di tanto in tanto. Ma ho imparato a mie spese che certi quesiti è meglio non porli. Se vorrà, sarà lui a sciogliere per me tutti i nodi della sua storia. “O… oggi spett… tacolo?” Balbetta, e anche da questi dettagli percepisco che la fuga della sua famiglia, a un certo punto, deve essersi interrotta nella maniera peggiore possibile. Annuisco. “Vieni”,  con un eloquente gesto della mano lo invito a seguirmi. Lui mi accompagna fino al baule, e rimane impacciato ad aspettare che lo apra. Insiste per aiutarci. Le braccia protese in avanti come un appendiabiti, attende che abbia terminato di sistemarvi i cerchi di plastica colorata che chiuderanno la prima esibizione. Vuole che glieli dia tutti, per dimostrare la sua forza. Poi, noncurante del peso che porta, corre verso la sala conferenze, tra gli incitamento di tutti, dove una folla silenziosa di piccoli spettatori conta i minuti che li separano dall’inizio dello spettacolo. Indosso gli abiti di scena. La parrucca prude un poco sul cuoio capelluto, ma non ho tempo per sistemarla come si deve. Gli altri sono già pronti. Là fuori hanno bisogno di me. L’applauso con il quale ci accolgono supera come sempre ogni remora. Ogni volta, ho paura che i traumi subiti dalle vittime più fragili della guerra siano troppo gravi per essere superati. E ogni volta i bambini ci stupiscono per la loro capacità di vivere e di ritrovare la gioia anche in frangenti così disperati. Basta un gioco, uno solo, per riaccendere il loro entusiasmo. Tra un siparietto e l’altro scorgo lo sguardo sognante di Vasyl, seduto in disparte rispetto al gruppo dei piccoli. Almeno per la durata dell’esibizione, riconosco il fanciullo paffuto che avevo incontrato mesi addietro nell’espressione di giubilo con cui accoglie le bizzarrie di Borys  il pagliaccio, impegnato a tenere in equilibrio i cerchi colorati che lui stesso si è premurato di trasportare fin lì. Infine, distribuiamo fogli e pastelli, affinché i bambini possano disegnare ciò che hanno visto.

È ormai sera quando Vasyl viene nuovamente a cercarmi. Il naso rosso e i vestiti di scena sono stati riposti all’interno del baule, e in quel momento sono solo un uomo stanco dal lungo viaggio. Ma quando lo vedo sulla soglia, indeciso se entrare o meno, lo accolgo con il mio sorriso migliore. Non è solo. Lo accompagna una donna che non ho mai visto. Penso che siano parenti, perché si somigliano. Stessi capelli chiari, stessi occhi quieti. Lei mi tende la mano. Usciamo. Gli faccio strada lungo il corridoio, fino a raggiungere un piccolo terrazzo munito di tavolino e sedie. L’aria della notte è umida e fredda, perciò rimaniamo in piedi davanti alla portafinestra. “Vasyl ha insistito perché lo accompagnassi da lei”, mi dice in inglese, affinché il bambino non capisca, “mi chiamo Polina”. Scopro che è sua zia, quella che avrebbe dovuto attenderli al confine, garantire loro una nuova vita lontano dalle bombe. È così che apprendo la sorte che è toccata alla famiglia di Vasyl. Il pullman sotto scorta costretto a viaggiare verso est, il posto di blocco da parte delle milizie russe, il prelievo forzato con la scusa di mettere in salvo i bambini in un cosiddetto campo di filtraggio, nell’attesa di convalidare i documenti delle madri. “A un certo punto abbiamo perso i contatti con Hanna, ” mi spiega, “perciò abbiamo cominciato a cercarla ripercorrendo le stesse tappe. È così che lo abbiamo trovato”. Il nipote non conosce la lingua inglese, ma sembra quasi intuire il discorso e nel sentire il nome della madre abbassa il mento sul petto e serra la mascella. Polina gli poggia una mano sulla spalla. “Lui è riuscito a scappare prima che lo portassero via, e lo abbiamo ritrovato per puro caso grazie alla segnalazione di un gruppo dei nostri militari che lo hanno riaccompagnato qui. Sappiamo che le donne che erano con mia sorella si sono ribellate, anche loro erano attese nel versante occidentale, speriamo che siano detenute contro la loro volontà in qualche campo profughi al confine, ma finora non abbiamo ricevuto conferme di ciò.” Annuisco. Alla luce della lampada a cherosene che propaga tenui bagliori nel corridoio, scorgo pesanti ombre che si allungano sotto le palpebre della donna, distorcono i lineamenti. Si è imposta di non piangere, non di fronte a Vasyl. È a lui che si rivolge, alla fine. Gli chiede di rivelarmi cosa vuole che io faccia. E così il bambino, che fino a quel momento ha tenuto le braccia dietro la schiena, improvvisamente le porta avanti, solleva la testa e mi porge un foglio ripiegato. Lo riconosco. Fa parte della stessa risma che io e i miei assistenti abbiamo consegnato ai ragazzi qualche ora prima. Lo prendo. Lo sguardo di Vasyl passa dal foglio al mio viso e di nuovo al foglio. Mi tremano le mani, perché sento che non riuscirò a esaudire la sua richiesta, ma cerco di non darlo a vedere. La prima regola che ci siamo imposti è quella di non illudere nessuno. L’unico nostro potere è insito in ciò che siamo. Noi regaliamo buonumore con le nostre azioni, ci prodighiamo affinché i bambini tornino a sorridere, almeno per la durata dei nostri spettacoli. Nei nostri itinerari, spesso ci uniamo ad altre associazioni che si occupano di portare generi di prima necessità nei luoghi più martoriati, ma il nostro impegno non è mai abbastanza, ne siamo tristemente coscienti. Vasyl trattiene il respiro mentre esamino il contenuto della missiva. Il bambino ha incollato sulla carta alcuni ritagli di fotografie. In bella calligrafia ha scritto sotto ciascun viso il nome corrispondente, e alcuni numeri di telefono presso i quali spera di ricevere notizie sulla propria famiglia. Lo farai, vero? Mi implorano I suoi occhi. Andrai a cercarli? E io vorrei tanto annuire, promettergli che li rivedrà presto, ma non riesco a mentire, sarebbe come tradire la fiducia che ha riposto in me. “Sono certo che stanno bene” gli rispondo alla fine, “e sono al sicuro.” Al bambino le mie parole non bastano, lo capisco da come sposta il peso del corpo da un piede all’altro, irrequieto. Perciò aggiungo: “Adesso che mi hai fornito le loro foto, saprò riconoscerli quando li vedrò, e in questo modo potrò fargli avere i numeri di telefono con cui potranno riunirsi a voi.” Non dico “se”, ma “quando”. Vasyl non aspetta altro. Un largo sorriso si apre sulla faccia smunta e mi getta le braccia al collo. Sua zia mi ringrazia stringendomi le mani. Auguro loro buon viaggio. Devono mettersi in cammino molto presto,  perciò questa è l’ultima volta che ci vediamo. La testa è pesante mentre mi dirigo verso gli alloggi della comitiva. Qualcuno dorme già, vestito di tutto punto come se dovesse svegliarsi da un momento all’altro. È così che funziona, quando vivi in luoghi dove le sirene antiaereo non aspettano il sorgere del sole per darti il buongiorno. Scambio due chiacchiere con i ragazzi ancora svegli, prima di occupare la mia branda. Ho del lavoro da sbrigare al computer, ma non  riesco a concentrarmi. Prima di chiudere gli occhi, ripongo il foglio che mi ha donato Vasyl sotto il cuscino. Una lacrima sfuma i contorni, solca le guance e si perde nell’incavo del collo. Sono un clown, mi sono ripetuto tante volte, e ai pagliacci non è permesso piangere. Ma questa notte sarà complice della mia ribellione, e coprirà di un manto scuro ogni mia incertezza, almeno fino all’alba.

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