IL GRANCHIO
di Benedetta Barbetti
Non ricordo molto di quel giorno. È accaduto tutto così in fretta, all’improvviso, come rendersi conto di quello che stava succedendo? Non c’era stato il tempo materiale, non mi sono accorto, è successo e basta.
Facciamo un gioco? Corriamo giù per la collina. Il primo che arriva vince.
O almeno, questo è quello che racconto ogni volta a chi mi fa domande. Non lo faccio per… un trauma, come mi ha detto quel medico simpatico che mi ha curato. Non lo faccio perché starei troppo male o perché potrei scoppiare a piangere nel parlare, nel ricordare. Tanto quello che mi è successo è successo, fine della storia, che mi piaccia o… be’, che non mi piaccia. Non cambia niente parlarne.
Ehi, Amir! Cos’è secondo te quella cosa là? Sarà un giocattolo?
Quello che invece mi frena dal parlare è il rendermi conto che sono un bugiardo, che non è vero che “è accaduto tutto così in fretta”, non è vero per niente. La verità è che mi ero reso conto eccome di quella robaccia lì. Ho sentito il click, avevo tutto il tempo per gettarlo via. Invece l’ho tenuto. Come una sorta di trofeo. Perché? Non lo so perché, non a tutto c’è una spiegazione.
È così carino. Sembra un uccellino. Guarda, Amir.
Il dottore simpatico che mi ha amputato il braccio destro e la mano sinistra, se così ancora si potevano definire, mi ha detto che di bambini come me ne ha visti tanti. E che ce ne sono stati di molto sfortunati. Molto. Quindi a sentire lui ero nella rosa dei fortunelli. Grazie tante, Allah, per avermi mantenuto in vita, sul serio, che gradita sorpresa, non vedevo l’ora di strascinarmi per i vicoli puzzolenti di Sulaymaniyya a chiedere l’elemosina in un bicchiere arrugginito stretto tra i denti come un cane randagio. Menomale davvero che non sono morto…
Mi sono risvegliato circa tre giorni dopo l’incidente, se così si può definire. Ero in questo lettino così comodo, non mi sembrava vero di essere disteso su qualcosa di diverso dalle assi di legno ammuffite del casale o dalle stuoie sbrindellate che avevamo in famiglia quando ancora eravamo insieme sulle montagne. Quando ancora non c’era la guerra. Quando tutto quello di cui io e i miei fratelli dovevamo preoccuparci era portare al pascolo le greggi. Quando mi sono risvegliato, non mi ero accorto di niente. Non c’era un dolore lancinante o la tremenda consapevolezza che, cavolo, non avevo più un braccio e una mano.
Poi qualcuno deve essersi accorto che ero sveglio. Sentii una voce di donna gridare qualcosa in una lingua che non conoscevo. Poco dopo nel mio campo visivo è entrato il faccione simpatico di uno strano tipo coi capelli bianchi e le zampe di gallina ai lati degli occhi azzurri. “Ciao, campione.” Mi disse in arabo e io storsi il naso perché non mi piaceva l’arabo, non era la mia lingua, non era la lingua del mio popolo. Allora mi stranii, gli chiesi in curdo dove fossi, ma lui scosse la testa e disse: “E’ inutile che mi parli in curdo, tanto non ti capisco.”
“Dove sono?” ripetei allora in arabo.
“In ospedale.”
Se ben ricordo, scoppiai a ridere. Un ospedale? Ma dai! Non era una roba per noi, una roba per un popolo che non aveva neanche una terra dove stare, figurarsi il lusso di un ospedale come quelli di cui potevano godere gli iracheni. Noi, di ospedali, non ne avevamo. I feriti si curavano nelle tende dimesse del campo, quando si potevano curare. Se erano casi disperati, semplicemente si aspettava che morissero e poi si seppellivano. Era quello che doveva succedere anche a me. Ma allora perché ero vivo? Perché sono vivo?
Il dottore mi chiese: “Ti ricordi qualcosa di quello che è successo?”
Fu il primo a cui mentii: “No.”
Lui si limitò ad annuire con espressione severa. Era preoccupato, non sapeva come dirmelo. Dirmi cosa? Volevo scuoterlo, urlargli di parlare perché in fondo lo sapevo anche se in quel momento sentivo un formicolio alle dita delle mani, insomma, era lì, era così vivo, così vero. Non potevano essermi esplose, non potevano essere state spappolate dai frammenti di una mina.
Mi spiegò. Incespicò un paio di volte con l’arabo, non si sentiva più a suo agio. In quel momento, mantenni la più totale calma. Ci riuscii solo perché il pizzicore era lì, potevo quasi sentire le dita sfregare una contro l’altra, non potevo credergli. Provai ad alzarmi ma il dolore, il dolore arrivò. E mi fece paura. Ebbi paura che mi avrebbe squarciato in due, che la mina non fosse ancora esplosa, che per qualche misteriosa ragione mi fosse entrata dentro e che solo allora avrebbe fatto il botto. Boom.
“E Amir?”
Mi guardò con aria spaesata. “Chi è Amir?”
Capii da quella risposta ciò che c’era da capire. Non l’avevano portato, probabilmente non l’avevano trovato. O forse sì, ma trovarlo era stato qualcosa scivolato nel silenzio dell’impotenza.
“Facciamo un gioco?”
“Dobbiamo tornare a casa, Abdul.”
“Dai, sei un pisciasotto. Non muore nessuno se giochiamo ancora un po’.”
Amir era mio fratello.
Passarono tre giorni. Con l’aiuto del dottore riuscii a sollevarmi quanto bastava perché vedessi. O meglio, non vedessi. Cos’avrei dovuto vedere? Non c’era più niente, né braccia, né mani, dita, niente. Boom. Ecco cosa succedeva a chi è talmente idiota da scambiare una bomba per uno stupido giocattolo. Ma che mi era venuto in mente? Che mi è venuto in mente?
“Hai delle foto?” chiesi al dottore. Avevo bisogno di vedere il prima, avevo bisogno di sapere se erano stati dei macellai che mi avevano mutilato per puro diletto personale, sapere se avessi potuto vivere con, che so, due, tre dita in meno? Lui mi disse che non ne aveva. Allora gli chiesi di descrivermele, descrivermi le mie braccia, le mie mani.
“Poltiglia rossa e schegge di ossa. C’era solo un dito, ma era quasi staccato dal resto che rimaneva della mano.” Non usò mezzi termini, non cercò di fasciare la verità come aveva fasciato i tagli dell’amputazione. Me lo feci andar bene. Mi doveva andar bene. Quella sera gli raccontai che avevo mentito. Che me la ricordavo benissimo la bomba, il click, persino l’esplosione, il volo all’indietro, le schegge e il bruciore. Mi ricordavo ogni cosa. Soprattutto, mi ricordavo Amir, il compagno di giochi, il mio amico per la vita.
“E se poi te ne vai, fratellone? Se poi vai anche tu alla guerra come il papà?”
“Ma figurati se vado in guerra. Io sono ancora troppo piccolo. Il papà me l’ha detto: ci sono ancora tanti giochi che devo vincere per diventare un vero uomo.”
Pensai al viso di mio fratello mentre si sporgeva su quella sottospecie di uccello. Un giocattolo nelle mani di qualcuno che né io né Amir avevamo mai visto. Di un qualcuno che non aveva mai visto noi. Chissà se sapevano, quelli che l’avevano lasciata lì, che Amir era morto. Avrei così tanto voluto che lo sapessero ma in fondo, che differenza avrebbe fatto per loro? Del resto, più mia che loro era la colpa di quello che era successo.
“Perché non l’ho buttato via? Perché?”
“Il nostro cervello è capace di cose impressionanti. Può persino riscrivere alcune delle immagini che abbiamo così che sembrino secondi interminabili in cui avremmo potuto riscrivere pagine e pagine del passato quelli che in realtà non sono che fugaci frangenti. Non avresti fatto in tempo. Non avresti fatto in tempo.”
Eppure ancora oggi non gli credo. Mi fido ciecamente di lui. Sono tornato più volte all’ospedale, anche solo per dormire un paio di ore nello studio del dottore, al riparo dal freddo, dalle bombe e dalle pulci dei vicoli di Sulaymaniyya. Quelli in cui ormai vivo.
È stato con un giocattolo della morte che sono diventato uomo. Aveva ragione mio padre, quell’ultimo gioco da vincere mi mancava. Del resto, la vita era stata una sfida come le altre tra me e Amir. Si arrabbiava spesso, quando vincevo. In alcune gare era perché avevo le gambe più lunghe, in altre perché ci avevo giocato più volte di lui a quel gioco… Non saprò mai che cosa mi fece vincere contro di lui, quel giorno. So solo che il premio fu diventare uomo ed essere quello che resta.
Mi sento un fardello non richiesto ad essere qui, a parassitare dell’occasione che è stata tolta ad Amir. E vorrei averli sotto tiro, quelli là. Li odio di un odio freddo, non di quelli che hanno molti soldati che arrivano al campo mutilati come me e che ancora abbaiano, cercano il fucile, vogliono il sangue. C’è un qualcosa di sbagliato nella calma glaciale con cui anelo a sterminarli come stanno sterminando il mio popolo.
Il dottore mi ha detto che vuole aiutarmi. Che vuole provare un intervento, una specie di operazione disperata per poter trasformare il mio avambraccio in una sorta di chela con cui poter tirar su un cucchiaio di zuppa o roba simile. Un granchio. Ecco tutto quello a cui posso ambire. E non ho nemmeno un mare dove gettarmi, dove sparire.
“Però, a una condizione.”
“Quale?”
“Non dovrai mai usare questa opportunità per impugnare un’arma e combattere.”
“Tu sei matto.” Gli dico, provando a smorzare l’atmosfera ma lui mi osserva con quei suoi occhi azzurri che ora sembrano proprio del colore di un abisso.
“Promettimelo, Abdul.”
La verità è che non posso prometterglielo. Non posso perché io non sono come lui. Siamo entrambi costretti in questo piccolo inferno che squarcia una terra, non la sua, la mia. Lui una terra già ce l’ha. Lui un giorno prenderà la sua cassetta con garze, coltellini e medicine e se ne andrà a casa. E lo invidio perché mi chiedo che sapore abbia tornare a casa, essere a casa. Avere ancora qualcuno da cui tornare.
“Dov’è la tua casa?” mi ha chiesto un giorno.
“Non c’è più.”
“E la tua famiglia.”
“Non c’è più nessuno.”
La verità, la verità è che la mia terra è come me. Spezzata, insanguinata, mutilata. E grida costantemente di dolore e di frustrazione perché vuole disperatamente trovare pace. Perché i miei avi, chiunque essi fossero, già prima di me combattevano. Combattevano perché questo Kurdistan che nessuno segna sulle cartine dell’Asia venga finalmente tracciato. Uno spiraglio di terra, un piccolo Eden, niente di che, in fondo. Gli equilibri del mondo cambiano costantemente, tanti paesi che esistono formalmente, nella realtà non sono che trincee in cui ancora si combatte perché non ci si sente appartenenti a quei confini.
“E’ la mia terra. Come faccio a non combattere?” gli rispondo in curdo, al che lui si arrabbia e mi ripete che non mi capisce quando parlo nella mia lingua e che devo smettere di fare l’orgoglioso patriottico. Io scoppio a ridere e in arabo gli dico: “Non si preoccupi, doc. Farò il bravo granchio e non proverò a fare l’eroe.”
Lui mi sorride. È sollevato. E anche lui promette. Promette che anche quando l’intervento sarà fatto, lui ci sarà sempre. Ci sarà sempre per me. Mi dice che, perché no, magari potrei andare con lui nella sua terra, che sì ci sarà un po’ di noiosa burocrazia da sbrigare, ma che lì sarei al sicuro. Lì sarei felice perché quelli come, i bambini granchio un futuro ce l’hanno. Dove potrò continuare ad essere solo un bambino.
E io mento. Sorrido. Annuisco. “Sarebbe bello.”
Chi ha detto che futuro significhi vivere? Tutti noi abbiamo un futuro e l’unica cosa certa, ironia della sorta, è che la vita prima o poi finisce e può essere un boom, un proiettile o una malattia di vecchiaia. Però finisce. E a me questa fine non fa paura. Si ha paura del vuoto, del nero, solo se con sé non si possono portare tutte le cose che si hanno nel prima, nella luce. Io di cose non ne ho più. La mia casa è saltata in aria. Le mie sorelle sono state rapite, stuprate davanti ai miei occhi, uccise. Io sono rimasto nascosto perché avevo paura. Poi è rimasto il silenzio. I cadaveri per terra. Le lacrime sulle guance.
Del resto, il doc non sa che il mio ultimo gioco l’ho già giocato. È troppo tardi, l’uomo è già cresciuto dentro di me. Come l’onda di una tempesta ha travolto l’ultimo castello di sabbia.