DALL’ALTRA PARTE DEL MURO
di Davide Bacchilega
Da quando la madre non c’era più, erano rimasti solo lui e la bambina. In quella casa già troppo grande per tre, figuriamoci per due, rimaneva così tanto di quello spazio vuoto da riempire, di quel silenzio da sgomberare, che bisognava inventarsi sempre qualche occupazione ingombrante e chiassosa per scivolare via dagli artigli di quella mancanza. Lo doveva fare per la bambina, e doveva farlo per se stesso, pensava il padre, mentre la cassettiera prendeva colore, rosseggiata dall’ondeggiare del pennello.
A pochi metri da lui, nella sua camera da letto, la figlia faceva chiacchierare le bambole rimodulando la voce a ogni battuta, e chissà quanti toni e semitoni si era dovuta studiare per assegnare un timbro diverso alle varie partecipanti del dibattito, una nutrita e petulante schiera di svampite di plastica dalle chiome sintetiche e fluenti, radunata attorno alla bambina per cercare di stuccarne il cuore bucherellato con un po’ di distrazione.
Dal canto suo, il padre, in una stanza senza destinazione trasformata in laboratorio, si dedicava alle sue creazioni fai da te, fabbricando e dipingendo librerie, tavolini, portariviste e appunto cassettiere, con gran lavorio di seghe, martelli, cacciaviti, pennelli, vernici colorate e fantasia. Affinando negli anni le sue abilità, i risultati di tanto impegno erano tutt’altro che disprezzabili. E anche se quegli oggetti di pregevole fattura si rivelavano perlopiù superflui alle esigenze domestiche, il solo fatto di costruirli intasava il vuoto, disturbava il silenzio, incanalava la mente su binari che portavano da qualche parte, invece che farla vagare in territori brulli e desolati.
Ma ciò che più contava era che lui e sua figlia, anche occupandosi di cose diverse, si tenevano compagnia. Tutto quello smartellare dall’altra parte del muro rassicurava la bambina di non essere sola. Tutto quel parlottio dall’altra parte del muro rassicurava il padre di non essere solo.
Si proteggevano, origliandosi a vicenda.
E se anche quella grande casa continuava a essere troppo grande per loro, la vivace animazione di quelle stanze sembrava avvicinarle. Da una parte, mobiletti si aggiungevano ad altri mobiletti, che andavano poi ad arredare senza vera armonia, né utilità, gli angoli di quell’abitazione. Dall’altra, le bambole si affollavano senza controllo come le partecipanti di una festa che avevano preso fin troppo alla lettera l’invito “porta chi vuoi”. Quell’esercito di giocattoli biondi, ormai ingestibile per numero e volubilità, presto si sarebbe preso quella casa, se non ne avesse avuta una tutta per sé.
Ed è così che, osservando tutte quelle bambole, e poi tutto il materiale avanzato dai precedenti lavori di bricolage, al padre venne in mente un’idea.
Idea. Si fa presto a dire idea. Molto meno a realizzarla.
In fondo non esistono grandi idee. Esistono solo grandi realizzazioni di idee. Quindi.
Quindi il padre si mise alla scrivania munito di matita, foglio, righello, squadra e goniometro. Come un architetto disegnò il progetto.
Quindi si procurò tutto il necessario: compensato, tavole di legno, listelli, seghetto, carta vetrata, nastro adesivo, colla e vernici.
Quindi si diede da fare: segando, tagliando, assemblando, limando, incollando e verniciando con tinte rosa, azzurre e blu.
Idea. Si fa preso a dire idea. Ma poi eccola realizzata: quattro piani, una ventina di stanze, il tetto spiovente, perfino le porte che collegano gli ambienti. Ce l’aveva fatta: una perfetta casa delle bambole. Per tutte quelle bambole. Per la sua bambina.
Quando la casetta trovò la sua collocazione naturale nella camera della figlia, svettante fra tutti i giocattoli sparpagliati e gli indumenti gettati alla rinfusa, il padre realizzò che non le poteva fare un dono migliore. Perché quando il tuo mondo è ancora un gioco, un gioco così non può che essere il tuo mondo. Un mondo da popolare con tante bambole e con tutti gli accessori del caso: mobili in miniatura, vestiti in miniatura, scarpe in miniatura. E più il dettaglio è piccolo, più la gioia è grande.
Quando si hanno nove anni non si riesce a capire perché un giorno futuro, laggiù lontano, si dovrà smettere di giocare.
Il padre avrebbe voluto fermare il tempo e non aggiungere altri anni a quell’istante.
2.
Ma gli anni passano comunque, fregandosene di tutto in modo spietato.
Tutta quella spietatezza diventa fin troppo evidente quando trova la sua bambina, non più bambina, ma giovane donna di ormai diciannove anni, a raccogliere le sue cose per portarle altrove. In una nuova casa, in una nuova vita, in una nuova se stessa, adulta.
La sua bambina, non più bambina, andrà infatti a vivere in un’altra città per iniziare gli studi universitari. Per la prima volta si allontanerà da lui, e da quella casa già troppo grande per tre, figuriamoci per due. Non può nemmeno immaginare come sarebbe viverci da solo.
Neppure per la ragazza il distacco è indolore: sotto la copertina dell’indipendenza c’è sempre un catalogo di separazioni. La separazione dalla camera in cui ha dormito fin da quando ha ricordi. La separazione dalla presenza discreta del padre dall’altra parte del muro. La separazione dalla casa delle bambole, ancora lì di vedetta nella sua camera da letto, seppure spoglia delle sue vecchie abitanti, finite chissà dove. Quella casetta di legno è ormai diventato un oggetto inutile. Caro, ma inutile. Non può certo portarla con sé. Le lascia quindi una carezza che pare un addio, incrociando oltre la porta dischiusa, oltre la parete della loro sottile complicità, le rughe appesantite del padre.
Lui lo sapeva che prima o poi sarebbe successo. È così che vanno le cose e così andranno sempre. Sorvegliandola dallo spiraglio di quell’uscio lasciato appositamente aperto, si finge affaccendato in un andirivieni tra il laboratorio e la cucina, facendosi invece torturare da quelle manovre di partenza, da quell’aprirsi e chiudersi di scatoloni, da quello svuotamento di scaffali, dal riempimento dei pacchi destinati al trasloco, stipati di fotografie, libri, vestiti e scarpe.
Tante scarpe, forse troppe.
Vorrebbe che la figlia si portasse via anche quella pietra che gli preme sul petto, assieme alla sensazione di essere un secolo più vecchio.
3.
Nella camera che era di sua figlia, seduto sul letto che era di sua figlia, le mani sulle ginocchia e gli occhi umidi, l’uomo spera che quell’inadeguatezza che gli si è gonfiata dentro perda presto di consistenza, tramutandosi in un sacco floscio.
I primi giorni sono sempre i più difficili. Senza quell’ingenuo parlottio di bambole dall’altra parte del muro. Senza il più smaliziato parlottio al telefono con le amiche o forse chissà, qualche fidanzato segreto. Senza che lei abbia più bisogno di lui, a smartellare e assemblare la sua presenza dall’altra parte del muro. Ora non ci sono più spazi da condividere o bambole da accasare. Le passioni di sua figlia sono cambiate.
L’uomo fissa la casetta di legno davanti a sé, immutata negli anni, resistente alle insolenze del tempo. L’ha fatta proprio bene, si compiace, come si fa bene ogni cosa a cui si dedica estrema cura.
Allora forse tutto non è perduto, pensa l’uomo. Basta guardare al suo affetto con occhi nuovi.
4.
È ancora mattina e a quest’ora sua figlia sarà a lezione. In quella grande città che conosce appena, l’uomo riesce a trovare parcheggio proprio di fronte al grigio condominio che ha portato la ragazza via da lui. Con una scusa riesce a farsi aprire il portone esterno da un inquilino e poi si arrampica lentamente su per le scale con quell’ingombro tra le braccia. Scalino dopo scalino, respiro dopo respiro, affanno dopo affanno.
Quando giunge al pianerottolo, scorge il cognome della figlia, il suo stesso cognome, in prossimità del campanello. Ma non serve suonare.
Davanti a quella porta, deposita la casa delle bambole.
Appoggiato su uno dei ripiani, il padre lascia anche un messaggio silenzioso. Un suggerimento.
Un minuscolo paio di scarpette di bambola.
5.
Sorride la ragazza, mentre si sveglia presto preoccupata per la giornata che la attende. Una lezione dietro l’altra e qualche magagna burocratica da risolvere in segreteria.
Sorride la ragazza, pensando di essere già in ritardo, e che non ce la farà mai a prendere il prossimo autobus per il centro, forse neanche quello dopo.
Sorride la ragazza, maledicendo il fatto di non avere proprio nulla di decente da mettersi, mentre rovista nell’armadio in cerca dell’abito giusto. Nella sua nuova casa, nella sua nuova vita, nella sua nuova se stessa adulta.
Sorride la ragazza, nonostante tutto, perché sa che ogni mattino, alla fine, si concluderà davanti alla sua nuova scarpiera. Quel mobiletto a quattro livelli e con il tetto spiovente che adesso ospita tutte le sue amate scarpe. Un paio in ogni stanza, occupando tutti i piani.
Basta questo per farla sentire meno sola. Per farle capire che c’è ancora qualcuno che pensa a lei.
Così, con quel sorriso addosso, recupera un paio di sandali neri da quello che una volta era un minuscolo salotto.
Mentre esce di casa le sembra quasi di udire un dolce smartellare dall’altra parte del muro.