A CONTARE LE STELLE
di Fabio Pirodda
«Quarantuno… Quarantadue… Quarantatré… Quarantaquattro…»
«Per oggi basta così, Giulio, o finirà per venirti un gran mal di testa.»
«Ma sono così belle, papà. Vorrei poterle contare tutte.»
«Conserviamone un po’ per domani, eh? Ora torniamo dentro.»
«D’accordo.»
Era così che finiva ogni volta che esageravo, ma non potevo farci niente: era il mio gioco preferito.
Ho sentito dire che chi si ferma ad ammirare le stelle ha solo bisogno di ritrovare una sua dimensione nell’universo. Non so se è vero.
Non ho imparato a contare a scuola come gli altri bambini, bensì con mio padre che a quattro anni mi portava sul balcone di casa per insegnarmi a dare un valore alle cose. Allungavo un dito verso il cielo, sentivo di poterle sfiorare davvero. Le indicavo una a una, poi cominciavo a contare: uno, due, tre, quattro. Non volevo mai rinunciare a farlo, nemmeno per una sera. Nemmeno quando pioveva.
Poi mia madre morì e il tempo passò; compii tredici anni, quattordici, quindici e le cose cambiarono. Cambiai io, cambiò mio padre. Lui invecchiò, a me venne meno la voglia di giocare. Le stelle diventarono punti bianchi nel cielo che guardavo con distrazione.
Avevo diciassette anni quando l’amore mi travolse. Fu per un uomo, Davide, undici anni più grande di me. In confronto a lui, io ero soltanto un ragazzino smilzo e impacciato, ancora predisposto a qualsiasi tipo di ingenua avventura. Prima di lui ero stato con diverse ragazze, ma con ognuna di loro percepivo di vivere in una realtà che non mi apparteneva.
Tra noi cominciò tutto per caso, quasi come un gioco: non avevo intenzione di innamorarmi davvero.
Mio padre non sopportava l’idea che stessimo insieme. Era troppo cattolico per potersi rassegnare e io troppo giovane per condannarmi a quella vita. Questo era quello che diceva.
Mi impose di seguire una terapia, così cominciai a vedere una psicoterapeuta. In quelle interminabili sedute avrei dovuto comprendere che in me c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che mio padre considerava una malattia mentale, una deviazione. E io mi sentivo morire. Percepivo del disprezzo nei suoi sguardi e tutto nel mio corpo, dal midollo delle ossa fino al cuore, mi diceva che aveva smesso di amarmi. Non ero altro che un figlio indegno. Soffrivo come un cane abbandonato.
Davide era l’unico spiraglio di luce a cui mi aggrappavo ogni volta che mi sentivo precipitare nel baratro. Per questo continuavo a vederlo senza dirlo a mio padre. A Davide avevo affidato la mia speranza di poter un giorno fluire dall’ombra.
Il percorso di terapia prevedeva di mostrare l’intera pellicola della mia vita; analizzavamo ogni scena per fotogramma e ci impegnavamo a dare un senso alle cose. Imparai a gestire l’ansia, a identificare le emozioni che mantengono un buono status emotivo e a essere sincero con me stesso.
Così capii di essere omosessuale.
A seguire una terapia sono le persone che soffrono, che provano rabbia verso se stessi, chi è indifferente alla vita o chi avverte la necessità di cambiare. Io non ero niente di tutto questo. Non avevo un problema. Non volevo cambiare.
Arrivò un giorno in cui la terapeuta mi disse che non avevo più bisogno del suo aiuto. Mi congedò con un sorriso che mi ricordò mia madre e una raccomandazione: amare più che potevo. Era ciò di cui avevo bisogno.
Quello stesso giorno mi fiondai a casa di Davide, il cuore mi martellava forte nel petto dall’eccitazione per un motivo che non riuscivo ancora a capire. Il portone del palazzo in cui abitava era aperto, perciò non suonai il campanello. Corsi come un pazzo su per le scale fino al quarto piano e bussai impaziente all’interno due.
Silenzio.
Bussai ancora.
Una manciata di secondi più tardi Davide aprì la porta ma rimase nascosto nella penombra del monolocale. Era nudo. Indossava solamente un asciugamano grigio chiaro stretto sulla vita. Sorrisi maliziosamente guardandolo da capo a piedi ma quella passione non mi fu restituita. Sembrò sorpreso di vedermi. Scocciato, addirittura. E capii il perché soltanto un attimo dopo.
In piedi di fronte al suo letto c’era un altro uomo. Non lo conoscevo. Si stava riabbottonando la camicia e non aveva le mutande addosso. Chiese a Davide chi fossi, rivestendosi in fretta, e lui scrollò le spalle, lanciandomi un’occhiata.
Mi si strinse un nodo alla gola. Il terreno crollò sotto ai miei piedi e mi sentii precipitare in un abisso senza fine.
«Che c’è? Credevi che facessimo davvero?» lo sentii dirmi. A me le parole non uscivano dalla bocca. «È sempre stato un gioco, no? Tra noi due. Un gioco e basta.»
Mi sforzai di trattenere le lacrime ma non ci riuscii. Lo guardai dritto in faccia mentre sentivo ogni atomo del mio corpo chiedermi di fuggire. Così gli voltai le spalle e corsi giù per le scale. A metà tragitto sentii una porta cigolare e poi chiudersi. Mi rifiutavo di credere che Davide fosse stato a letto con un uomo che non ero io.
È sempre stato un gioco, no? Tra noi due. Un gioco e basta.
Piansi e vomitai. Mi sentii così solo. Scoprire di essere stato abbandonato una seconda volta fu come un pugno nello stomaco. A freddo. Tuttavia il dolore che sentivo era dentro di me, da qualche parte del mio corpo. Il mondo aveva perduto all’improvviso tutto il suo fascino.
Quando rientrai in casa, mio padre era seduto sul divano in salotto; guardava un film alla TV e non si preoccupò di me. Mi ripulii le scarpe sullo zerbino e accarezzai la fotografia di mia madre in bella vista su una mensola all’ingresso. Camilla, la nostra piccola Yorkshire, cominciò a leccarmi le dita. Nascosi il mio viso cosparso di lacrime e in quel momento papà si voltò. Mai come in quel momento mi accorsi quanto il nostro rapporto fosse cambiato. Per un attimo accusai me stesso di essergli stato così distante. Non riuscii a non guardarlo e a non piangere un’altra volta.
Papà ricambiò lo sguardo e si alzò dal divano. La sua preoccupazione mi sembrò la stessa di quando tornavo a casa con le ginocchia sbucciate perché ero caduto giù dalla bicicletta. Si avvicinò a me, ancora in piedi sullo zerbino. Cercò qualcosa dentro ai miei occhi, poi sospirò. Lo vidi alzare una mano e sfiorarmi il viso. Ciò che era rimasto intatto in lui era il calore delle sue dita.
Sfogai tutte le mie emozioni gettandomi fra le sue braccia, senza il timore di un rifiuto. Giurai di non allontanarlo mai più.
«Ho sbagliato così tante volte» mi disse unendosi alle mie lacrime. «Avevo solo paura che soffrissi. Ti amerò sempre, non dimenticarlo.»
Ci avvicinammo alla mamma, la guardammo sorridendo poi la stringemmo forte al nostro petto.
Quella sera salimmo sul balcone. Il cielo era sereno, gremito di quelle stelle di cui non mi ero più accorto. La foto di mamma era poggiata sul davanzale accanto a noi, ma sapevamo entrambi che in realtà ci guardava da uno di quei puntini luminosi.
Cominciai a contare, guardando papà come non facevo da tempo: «Uno, due, tre, quattro…»
Sorrisi.
Mi ero scordato quanto questo gioco poteva rendermi felice.
Promisi di non dimenticarlo mai più.