CACCIA AL TESORO
di Alberto Mura
La radiosveglia fa partire il ritornello di un pezzo natalizio.
All I want for Christmas is you, baby
All I want for Christmas is you, baby
Che noia questa Mariah Carey. L’anno prossimo non se la ricorderà più nessuno.
Scivolo fuori dal piumone, silenzio la sveglia e indosso una felpa dei Red Hot Chili Peppers sopra il pigiama. Ho dimenticato la finestra socchiusa dopo aver fumato la sigaretta della sera e mi sto congelando. Stringo il polsino sporco di smalto per riscaldarmi le mani e scendo al piano di sotto. Papà fa il turno di mattina, per lui non è ancora festa.
Sbadiglio ed entro in cucina per prepararmi un caffelatte. Sulla tovaglia cerata del tavolo da pranzo c’è una busta chiusa. Cosa sarà mai? La apro e mi trovo in mano un biglietto scritto con lettere ritagliate da giornali e riviste.
Alice, ti ho organizzato un piccolo gioco così non passi tutta la mattina ad ascoltare quei Robot Cili Petards. Nella busta c’è il primo indizio. Un bacio, papà.
Che scemo! Saranno passati almeno sei anni dall’ultima caccia al tesoro che mi ha organizzato, non vado più alle elementari. Ma perché no, non ho niente da fare stamattina.
Dietro al biglietto è attaccata con lo scotch una polaroid che mostra un’altalena del parco giochi. Era la mia preferita quando mi ci portava mamma. Devo andare lì, ma non senza Davidino, lui adora queste cose.
Indosso il cappotto e accarezzo il pelo del cappuccio. Sguscio sul vialetto della villetta di fronte, che ho imparato a conoscere da quando faccio la baby sitter per diecimila lire l’ora, e suono il campanello. Mi apre il fratello maggiore di Davide, Elia, il volto lentigginoso deformato dalla gomma che sta masticando. Non fa in tempo a dire una parola che il fratellino si lancia fuori dalla porta per abbracciarmi, già vestito di tutto punto. «Aliceeeeee! Se domani nevica torneone di palle di neve, per forza!»
Mi inumidisco le labbra secche per il freddo. «Come no! Natale con la neve non si vedeva da un botto.» Faccio una pausa teatrale. «Ma ti ho portato una sorpresa ancora più divertente!»
Davide spalanca gli occhi, curioso.
Gli porgo il biglietto di papà, che legge con il sorriso sdentato stampato in faccia. «Una caccia al tesoro? Spettacolo!» Rigira il foglio tra i guanti di lana magenta e scruta la foto dell’altalena. «Chi arriva per ultimo al parco è una cacca secca!»
Mi giro per salutare, ma il fratello ha già chiuso la porta. Alzo le spalle e seguo Davide verso il parco giochi.
Il ragazzino si lancia sul vialetto pattinando sulle pozzanghere ghiacciate. Io vado più cauta, ho degli stivali con un po’ di tacco. È tanto che non vengo qui, ma tutto sembra come l’ho lasciato: le panchine sbilenche, il prato spelacchiato attorno alla fontanella, lo spiazzo per skateboard. Non c’è nessuno, a parte un ragazzo e una ragazza che si baciano con la lingua dietro a un gruppo di arbusti scheletrici. Distolgo lo sguardo.
Raggiungo Davide, che sventola la seconda busta trovata sotto l’altalena.
La nasconde dietro la schiena, ma riesco a prendergliela. «Stai buono un attimo!»
Il biglietto contiene un’altra frase scritta con lettere ritagliate. Il passato è passato.
Dentro alla busta c’è una foto di Tom, il gatto peluche che ho sempre tenuto nel letto da quanto mamma se ne è andata. Il pupazzo è a cavalcioni di una rotaia ferroviaria, in stazione, quello che sembra il binario verso Varese. Sbianco. Papà non sopporta Tom, dice sempre che devo crescere e smettere di comportarmi da bambina. Ma che male c’è a tenere un peluche? Sara, Teresa e Sonia ne hanno le camere piene. La voce di papà risuona nella mia testa: “Non è la stessa cosa, e lo sai bene”.
«Cosa c’è scritto?» squittisce Davide.
Cerco di non fare trasparire la mia inquietudine. «Dobbiamo andare in stazione. C’è qualcosa tra i binari.» Gli spettino i capelli. «Vieni!»
Corriamo fuori dal parco, che è tornato deserto.
Il mio Casio argentato segna le 10.22 del mattino. Il prossimo treno passa tra più di venti minuti, facciamo in tempo.
Per arrivare alla banchina del binario per Varese dobbiamo passare davanti a un gruppo di ragazzi grandi che fumano e ascoltano i Nirvana sotto la tettoia della stazione. Prendo per mano Davide e ignoro un fischio chiaramente rivolto a me. Un tipo alto e scavato sputa per terra. Un altro che indossa un piumino arancione mi fissa. «Sei Alice? Ti devo chiedere una cosa.» Lo conosco?
Quello alto gli fa eco. «Alice, Alice, apri le gambe e fammi felice.» Gli altri ridono.
Alzo il dito medio, paonazza. «Smells Like Teen Spirit è sopravvalutata, sfigati!» Mi giro e corro verso i binari.
Non sento quello che mi urlano dietro perché ho notato il mio Tom, tranciato a metà tra le rotaie. Un singhiozzo si trasforma in un sospiro. Va bene, papà. Spero che non ci siano altri scherzi. Sollevo Davide e lo deposito tra i sassi rossi spolverati di brina. «Cerca se c’è un biglietto da qualche parte, Dav.»
Improvvisamente sento più freddo. Mi stringo nel cappotto mentre il ragazzino razzola alla ricerca del prossimo inizio come un randagio tra i rifiuti.
«Ecco! Un’altra busta!» Davide si sta divertendo un mondo. «E c’è qualcosa di soffice dentro!»
«Su, torna qui.»
Lui non mi ascolta, solleva la linguetta e ci mette una mano dentro. Mi lancia uno sguardo interrogativo. «Ali… c’è del sangue…»
Il cuore mi salta in gola. «Qui! Subito!» La mia voce è alta e stridula.
Davide si arrampica sul marciapiede e mi porge la busta, spaventato. Gliela strappo dalle mani e ci guardo dentro. È un tampax usato. Non posso esserne certa, ma credo che sia mio.
Papà non lo farebbe mai, questo è uno scherzo schifoso di qualche stronzo. Mi volto. I ragazzi ridacchiano.
Nella busta, oltre al tampax, c’è il solito biglietto. Faccio un respiro profondo e leggo il messaggio: Sei troppo grande per queste cose. O troppo piccola? La foto ritrae il mio diario segreto, un’agenda ad anelli blu e fucsia su cui da tre anni scrivo i miei pensieri. Il volto mi va a fuoco. Ecco come il pervertito ha scoperto del mio peluche preferito, e ha saputo che mi era appena venuto il ciclo. Nella foto il diario è adagiato sui primi banchi della chiesa parrocchiale. Io questo lo ammazzo!
Guardo di nuovo l’orologio. La messa inizia tra dodici minuti.
Non c’è più tempo. «Davide, immediatamente a casa! E non seguirmi questa volta!»
Scavalco la recinzione della stazione e attraverso la strada senza guardare. Un clacson esplode dietro di me mentre svolto in un vicolo umido. Prendo la curva troppo stretta e scivolo su una lastra di ghiaccio puzzolente, appoggiando male il piede. Una fitta sale su per il polpaccio. Lancio un gemito, ma non mi fermo. Vedo la chiesa, duecento gradini sopra di me. Almeno hanno sparso il sale sulle scale. Imbocco la salita, stringendo i denti per il dolore alla caviglia. Ancora uno sforzo…
Lo spiazzo antistante la chiesa è pieno di persone che aspettano di entrare. Alcune anziane signore intente a chiacchiere sono sedute su delle panchine di pietra. Altre si scostano pigramente mentre mi infilo tra di loro, zoppicando. Tre ragazzi fumano appoggiati ai motorini, di fronte alla facciata. Uno di loro è quello di prima con il cappotto arancione. Mi sta seguendo? È lui che mi sta lasciando queste buste? Guardo l’ora. Non ho tempo, manca solo una manciata di minuti.
Scatto verso la chiesa, che è ancora semi deserta. I primi banchi sono vuoti, e il diario è al suo posto. Lo afferro e lo ispeziono: nessun biglietto, nessun messaggio. Mi sfugge un lungo sospiro. Sembrerebbe che l’incubo sia finito.
Il portone scuro della chiesa si spalanca e le signore zampettano all’interno come topolini infreddoliti. Mi faccio largo verso l’uscita. Ho la caviglia gonfia e dolorante, devo metterci del ghiaccio prima possibile.
La luce della mattina, riflessa sul selciato candido della piazza, mi abbaglia. Non c’è più nessuno, fatta eccezione per i ragazzi di prima. Quello con il piumino arancione getta uno sguardo agli altri e mi indica. Questo è troppo, ora mi sente. «Hey, tu! Bello scherzo del caz–»
«Alice!» È la voce di Davide, dietro di me. Mi volto. Il ragazzo spunta dagli ultimi gradini della scala da cui sono arrivata, seguito dal fratello Elia con il volto contrariato. Elia spinge il fratellino verso di me. «Avanti, il gioco non è ancora finito.»
I due si avvicinano.
Stringo il diario al petto e faccio un respiro profondo. «Che succede?»
«Bell’agenda,» sibila Elia «è incauto lasciarla incustodita, hai controllato che non manchi niente?»
Il diario mi cade per lo shock. Non può essere.
Mi inginocchio di scatto, ignorando la fitta alla caviglia. Le foto, cazzo! Non ci sono nella fodera dietro la copertina, né alla fine. Quasi strappo le pagine nella foga di sfogliarle, ma non vi è traccia, sono scomparse.
Elia torreggia su di me con un ghigno. «Forza, Davide.»
Davide mi porge una foto tremando. «Cosa significa… puttanella?»
Gliela sfilo dalle mani e la guardo inorridita. Sono io, allo specchio, in topless, con in mano la macchina polaroid. Giro la foto per rivelare la scritta, singhiozzando.
Sei proprio una puttanella.
Elia ride. «La prossima volta ti consiglio di chiudere bene la finestra di camera tua.»
I singhiozzi si trasformano in lacrime, sento una voragine dentro.
«Ora parliamo di cosa puoi fare per riavere le altre. C’è un capanno degli attrezzi dietro la chiesa. Se scappi, se urli, le foto finiscono sulla bacheca della scuola.»
Le lacrime non si fermano, mi bagnano le guance, le labbra, il mento. «Ti prego, non farlo…»
Davide tira la manica del fratello. «Piange! Alice piange! Cosa ho vinto questa volta?»
Elia gli fa cenno di tacere.
Davide lo ignora. «L’ho guidata fino a qui, le ho consegnato i biglietti, ho fatto tutto.»
«Silenzio!» urla Elia. Poi alza la testa per rivolgersi a qualcuno dietro di me. «Il ragazzino scherza… è uno stupido gioco da mocciosi. Ehi… Che vuoi? Fermo!»
Un grido, poi il tipo con il piumino arancione mi supera con un balzo, si avventa addosso ad Elia e lo trascina a terra. Un primo calcio in bocca lo zittisce, i successivi si abbattono sul corpo accartocciato del ragazzo mischiandosi al tintinnio di campanelle che proviene dalla chiesa. «Questo è per aver mentito a mia sorella! Questo è per averla toccata! Questo è per tutte le altre che sono venute dopo!» Gli sputa in faccia.
Mentre i colpi proseguono mi abbandono sul selciato bitorzoluto, le guance rigate dal sale delle lacrime. Con le labbra seguo il coro che intona Bianco Natale mentre i primi fiocchi di neve cadono dal cielo color latte.
Alza gli occhi guarda lassù
È Natale, non si soffre più